Sull’applicabilità dell’art. 2103 al dirigente del pubblico impiego privatizzato

 

Cassazione, sez. lav.,  27 agosto 2004 n. 17095

 

Pubblico impiego privatizzato - Deroga all'applicabilità dell'art. 2103 c. c. - Condizione - Mancato adeguamento dell'ordinamento dell'ente locale ai principi del decreto legislativo n. 29 del 1993 - Relativo onere probatorio - A carico dell'ente locale.

 

Nell'ambito delle amministrazioni non statali, le quali non abbiano ancora, in attuazione dell'art. 27 – bis del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (introdotto dall'art. 17 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 e poi trasfuso nel decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165), adeguato formalmente i propri ordinamenti ai principi dell'art. 3 e del capo secondo del medesimo decreto legislativo, l'art. 2103 cod. civ., nel quadro della generale disposizione dell'art. 4, comma secondo, dello stesso decreto – secondo cui le determinazioni per l'organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte dagli organi con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro – resta pienamente applicabile. E poiché l'art. 27 – bis costituisce una deroga rispetto al principio generale fissato dal citato art. 4, comma secondo, l'Ente che, invocando gli artt. 19 e 27 – bis, sostenga di non essere soggetto, quale datore di lavoro, agli obblighi previsti dall'art. 2103 cod. civ., ha l'onere di fornire la prova del fatto (adeguamento dell'ordinamento) che costituisce il presupposto di questa deroga.

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso alla Corte d'Appello di L'Aquila, Co. Di Do. impugnò, la sentenza con cui il Tribunale di Pescara aveva respinto la sua domanda diretta ad ottenere che, accertato l'inferiore livello delle nuove mansioni assegnategli dal Comune di Mo., da cui dipendeva con la qualifica dirigenziale di ingegnere, egli fosse reintegrato nelle precedenti mansioni ed il Comune fosse condannato al risarcimento dei danni.

 

Con sentenza del 19 dicembre 2000 la Corte d'Appello ha respinto l'impugnazione. Premette il giudicante che il Co. Di Do., dirigente del settore VI (protezione civile, lavori pubblici e servizi tecnologici, appalti ed espropri) con atto del gennaio 1999 era stato assegnato alle funzioni di dirigente del settore VII (protezione civile, tutela dell'ambiente e del territorio), settore che era stato costituito ex novo attraverso scorporo dal settore VI, contestualmente assegnato a persona esterna all'amministrazione comunale.

 

Il giudicante ritiene che l'art. 2103 c. c. non trovi applicazione nell'ambito delle funzioni dirigenziali, con riferimento "al conferimento degli incarichi ed al passaggio ad incarichi diversi".

 

In tal senso dispone il primo comma dell'art. 19 del Decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29.

 

Anche se l'art. 19, in quanto inserito nel capo II del testo normativo, è riferito (art. 13) solo alle amministrazioni statali, il testo integrale è tuttavia diretto a disciplinare i rapporti di lavoro con le amministrazioni pubbliche (art. 1 secondo comma); d'altra parte, l'art. 27 bis dispone che le Regioni a statuto ordinario e le pubbliche amministrazioni adeguino i rispettivi ordinamenti, tenuto conto delle relative peculiarità, ai principi dell'art. 3 e del capo II del Decreto (ove è inserito l'art. 19). E pertanto l'art. 27 bis estende alla dirigenza delle amministrazioni pubbliche non statali l'applicabilità dell'art. 19.

 

Né, aggiunge il giudicante, questa disposizione può avere contenuto meramente programmatico, con efficacia subordinata ad atti di recepimento. Poiché l'art. 2103 cod. civ. è norma imperativa, non potrebbe subire deroghe attraverso atti dei Comuni.

 

Né è sostenibile che la disposizione dell'art. 27 bis esprima una volontà di delegificazione della materia regolata dalla norma civilistica (art. 2103 c. c.). Ritenendo che l'indicata disposizione contemperi la disciplina del Decreto legislativo con le peculiarità delle amministrazioni locali, la permanente efficacia della predetta norma in queste amministrazioni esigerebbe che essa debba tutelare una peculiarità dell'ente: e questa peculiarità non sussiste.

 

La contraria interpretazione potrebbe poi delineare un'incostituzionale disparità di trattamento tra dirigenti statali e dirigenti delle amministrazioni locali; e condurrebbe ad una rigidità maggiore, in uno spazio (amministrazione locale) ove si esige maggiore flessibilità.

 

Anche ove non si condividessero queste ragioni, aggiunge il giudicante, "il diritto del dirigente comunale al mantenimento delle mansioni precedentemente svolte sarebbe inconfigurabile, specialmente laddove le nuove mansioni, pur più ridotte delle precedenti sotto il profilo quantitativo o qualitativo, siano inquadrabili nell'ambito di mansioni dirigenziali (come, pacificamente, è nella fattispecie)".

 

"Infatti, se la legislazione esalta il rapporto fiduciario fra titolari dell'Ente locale e dirigenti amministrativi, deve configurarsi il preminente diritto dei primi a scegliere con amplissima discrezionalità i secondi. Conseguentemente non può ravvisarsi ipotesi di demansionamento del dirigente, a meno di non volere creare la paralisi di ogni ristrutturazione organizzativa".

 

E ciò non ricorre nel caso in esame, poiché sussiste "un protratto disegno di adeguamento della struttura amministrativa alle mutevoli esigenze d'un territorio ed il rispetto del principio di rotazione negli incarichi dirigenziali".

 

Per la cassazione di questa sentenza ricorre Co. Di Do., percorrendo le linee di tre motivi, coltivati con memoria; il Comune di Mo. resiste con controricorso.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

1. Con il primo motivo, denunciando per l'art. 360 nn. 3, 4 e 5 c.p.c. omessa pronuncia nonché violazione e falsa applicazione dell'art. 17 del Decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29 e dell'art. 2103 cod. civ. nonché omessa ed insufficiente motivazione, il ricorrente sostiene che, poiché egli con il ricorso aveva esposto di essere stato marginalizzato e privato d'ogni significativa mansione riconducibile alla sua posizione di dirigente, e di aver subito un vero declassamento, l'affermazione della sentenza, per cui nel caso in esame le nuove mansioni sarebbero in ogni caso dirigenziali, è infondata.

 

Con il secondo motivo, denunciando per l'art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. violazione e falsa applicazione degli artt. 19, 27 bis e 56 del Decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29 nonché omessa ed insufficiente motivazione, il ricorrente sostiene che l'art. 27 bis fa obbligo alle amministrazioni locali di adeguare i loro ordinamenti tenendo conto delle relative peculiarità: l'applicazione dell'art. 19 agli enti locali non è automatico, bensì subordinato all'adozione di provvedimenti di recepimento, ben potendo le esigenze peculiari dell'ente esprimersi con il non recepimento della disciplina.

 

Con il terzo motivo, denunciando per l'art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. violazione e falsa applicazione delle norme in materia di dirigenza pubblica nonché omessa insufficiente e contraddittoria motivazione, il ricorrente sostiene che erroneamente la sentenza indica come una peculiarità dei dirigenti amministrativi il rapporto fiduciario con il titolare; questo rapporto sussiste prioritariamente, ed in modo evidente, nell'ambito privatistico, ed ad esso la pubblica amministrazione si sta adeguando.

 

La sentenza non aveva tenuto conto che l'ente aveva deliberatamente esautorato il ricorrente, con atti che erano stati reiteratamente sospesi dal TAR, ed erano oggetto di indagine penale.

 

2. I motivi, che per la loro interconnessione devono essere congiuntamente esaminati, sono fondati.

 

3. La sentenza impugnata nega la fondatezza della domanda alla conservazione delle mansioni precedentemente svolte (tutelata dall'art. 2103 c. c.), sulla base di due argomentazioni, ognuna delle quali si presenta autosufficiente fondamento della decisione:

 

3.a. l'inapplicabilità dell'art. 2103 c. c. ai rapporti di lavoro di livello dirigenziale nell'ambito degli Enti locali;

 

3.b. l'inesistenza, nel caso in esame, del lamentato demansionamento.

 

4. La prima argomentazione, che, escludendo in via generale la stessa ipotizzabilità del diritto in controversia, assume, nei confronti della seconda, priorità logica nella ragione della decisione e, conseguentemente, nel relativo esame, è infondata.

 

Il capo secondo del secondo titolo del Decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29 (poi trasfuso nel Decreto legislativo n. 165 del 2001), che fissa nuovi principi nella disciplina dell'attività amministrativa ed in particolare nell'ambito della dirigenza pubblica, delinea anche un nuovo equilibrio ordinamentale nei rapporti fra amministrazioni statali ed amministrazioni non statali. Questi rapporti si esprimono con:

 

4.a. la diretta destinazione della disciplina alle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo (art. 13); disciplina che (come osservato dalla dottrina) ha costituito, con una "funzione pilota", un parametro di riferimento per la successiva normazione sul pubblico impiego (come per la legge 15 marzo 1997 n. 59);

 

4.b. la prospettiva dell'adeguamento delle amministrazioni non statali alla disciplina stessa, da attuarsi, tuttavia, nel quadro delle loro peculiarità; ai fini di questa attuazione per le amministrazioni, la disciplina ha un'applicazione differita nel tempo, ed adeguata nel contenuto.

 

L'espressa previsione di un "adeguamento", la sua natura formale (attraverso "deliberazioni, disposizioni e provvedimenti"), e la necessità che esso sia attuato "tenendo conto delle relative peculiarità" (art. 27 bis), escludono, sullo stesso piano letterale, che l'estensione prevista dall'art. 27 bis per le amministrazioni non statali sia immediatamente efficace (l'art. 27 bis è stato aggiunto dall'art. 17 del Decreto Legislativo 31 marzo 1998 n. 80).

 

Esclude questa diretta efficacia la stessa ragione normativa. Nella crescente affermazione (sul piano politico, amministrativo, sindacale; e, più generale, in ogni forma di convivenza), nei confronti della norma centrale e nell'ambito del relativo complessivo spazio (centralità), della legittimazione e del riconoscimento d'una norma che regola un più ristretto spazio (decentralità), emergono due esigenze: conservare, anche nel più ristretto spazio, i principi fondamentali fissati dalla norma della centralità in quanto condivisi da più ampia convivenza, e differenziare le particolarità di questo spazio con una specifica norma che, essendo (per la propria origine) più adeguata interpretazione dei relativi problemi ed interessi, si adatti alle relative peculiarità (quale riconoscimento dell'autonomia, in quanto e nella misura in cui questa diventa capace di prendere coscienza e tutelare le proprie peculiarità).

 

Nel quadro di queste esigenze è da leggersi la ragione della norma in esame. Da un canto (titolo secondo, capo secondo), è fornito un modello unitario (dettato per le amministrazioni dello Stato); d'altro canto, l'adeguamento delle altre pubbliche amministrazioni a questo modello è svincolato da scadenze temporali (disposte dall'iniziale norma), ed è limitato internamente, nel suo contenuto ("ai principi"), ed esternamente, dalle specificità ordinamentali ("tenendo conto delle relative peculiarità).

 

In questo quadro è conseguentemente da escludere che la disposizione dell'art. 19 primo comma seconda parte (con cui si prevede per le amministrazioni statali l'inapplicabilità dell'art. 2103 c. c.: norma introdotta con il Decreto legislativo 31 marzo 1998 n. 80 e modificato dall'art. 5 del Decreto Legislativo 20 ottobre 1998 n. 387) sia immediatamente efficace per le amministrazioni non statali.

 

5. E' pertanto da affermare che "nell'ambito delle amministrazioni non statali le quali non abbiano ancora, in attuazione dell'art. 27 bis del Decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29 (poi trasfuso nel Decreto legislativo n 165 del 2001), adeguato formalmente i propri ordinamenti ai principi dell'art. 3 e del capo secondo del predetto Decreto, l'art. 2103 c. c., nel quadro della generale disposizione dell'art. 4 secondo comma dello stesso Decreto (secondo cui "le determinazioni per l'organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte dagli organi con la capacità ed i poteri del privato datore di lavoro"), resta pienamente applicabile".

 

"E, poiché l'art. 27 bis costituisce una deroga nei confronti del principio generale fissato dall'art. 4 secondo comma dell'indicato Decreto, l'Ente che, invocando gli artt. 19 e 27 bis, sostenga di non essere soggetto, quale datore di lavoro, agli obblighi previsti dall'art. 2103 c. c., ha l'onere di fornire la prova del fatto (adeguamento dell'ordinamento) che è il presupposto di questa deroga".

 

6. Nel caso in esame, ove l'adeguamento non è stato neanche dedotto, la disposizione dell'art. 2103 c. c. resta applicabile. E l'argomentazione della sentenza impugnata (come precedentemente indicato sub "3.a.") è infondata.

 

7. Poiché dell'applicazione (pur solo subordinatamente effettuata) di questa norma al caso dedotto in controversia, la sentenza non ha poi dato adeguata motivazione, anche l'argomentazione precedentemente indicata sub "3.b." è infondata.

 

Ed invero, in ordine a tale argomentazione, la prima osservazione della sentenza, con cui (in applicazione -quale subordinata ragione della decisione- dell'art. 2103 c. c.) si nega nei fatti la concreta sussistenza del diritto dedotto in controversia ("è inconfigurabile il diritto del dirigente comunale al mantenimento delle mansioni precedentemente svolte, specialmente laddove le nuove mansioni, pur più ridotte delle precedenti sotto il profilo quantitativo o qualitativo, siano inquadrabili nell'ambito di mansioni dirigenziali- come, pacificamente, è nella fattispecie"), è fondata sulla ritenuta "pacificità" del livello dirigenziale delle nuove mansioni.

 

Poiché il riconoscimento, da parte del ricorrente, della natura dirigenziale delle nuove mansioni, sarebbe la negazione dello stesso fatto che egli aveva dedotto a fondamento della domanda e quindi della stessa relativa (pur principale) ragione, e poiché, d'altro canto, in sentenza si ammette che le nuove mansioni (svolte dal Co. Di. Do. ) sono "più ridotte delle precedenti sotto il profilo quantitativo o qualitativo", la ritenuta pacificità (che il ricorrente nega, sostenendo che era pacifico il contenuto delle mansioni: non il relativo livello - ricorso p. 6, memoria p. 4) esigeva, adeguata giustificazione. E tuttavia il giudicante la dà -apoditticamente- per scontata (limitandosi a menzionarla in una parentesi).

 

Quale giustificazione della prima osservazione ("infatti"), la seconda osservazione della sentenza ("se la legislazione esalta il rapporto fiduciario fra titolari dell'Ente locale e dirigenti amministrativi, deve configurarsi il preminente diritto dei primi a scegliere con amplissima discrezionalità i secondi; conseguentemente non può ravvisarsi ipotesi di demansionamento del dirigente, a meno di non volere creare la paralisi di ogni ristrutturazione organizzativa") è giuridicamente infondata.

 

Ed invero, la fiducia è a fondamento del rapporto di lavoro di natura privata, ed in particolare per il livello dirigenziale. Non è pertanto un elemento che consenta di differenziare, di per sé, il rapporto di lavoro del dirigente amministrativo.

 

L'osservazione, poi, negando per i dirigenti amministrativi (attraverso la necessità del rapporto fiduciario) la stessa ipotizzabilità del demansionamento, resta in contrasto con la disposizione dell'art. 4 secondo comma del Decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29, per cui le determinazioni per la gestione dei rapporti di lavoro sono assunte "con la capacità ed i poteri del privato datore di lavoro"; ed in tal modo, per altra via, diventa (implicita) negazione della stessa astratta applicabilità della norma in esame.

 

Di ciò è riscontro l'ulteriore astratta osservazione della sentenza ("ciò, ovviamente, ove non si dimostri lo sviamento del potere di conferimento di incarichi dirigenziali o la sua finalizzazione a scopi diversi dall'interesse pubblico"), e la sua concreta applicazione al caso in esame (ove, l'interesse pubblico si ritiene attuato con il "protratto disegno di adeguamento della struttura amministrativa alle mutevoli esigenze di un territorio"): osservazione nella quale la negazione è contenuta nei limiti del pubblico interesse.

 

E' da aggiungere che, in relazione a questo limite, il principio dell'art. 97 Cost. presuppone, nell'ambito del rapporto di lavoro nella pubblica amministrazione ed ai fini dello stesso pubblico interesse, non solo la negazione di poteri maggiori dei poteri riconosciuti al privato datore (come peraltro l'art. 4 del citato Decreto legislativo dispone), bensì l'affermazione d'un limite ulteriore, l'imparzialità: la quale diventa rigore nelle scelte (necessario in particolare a livello dirigenziale, per la vicinanza con il potere politico), e, simmetricamente, libertà del lavoratore dal condizionamento di esterni interessi.

 

8. Il ricorso deve essere accolto. Con la cassazione della sentenza, la causa deve essere rinviata a contiguo giudice di merito, che applicherà i principi affermati, e nel contempo provvederà alla disciplina delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata; e rinvia alla Corte d'Appello di Campobasso, anche per le spese del giudizio di legittimità.

 

Roma 27 agosto 2004

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