Prova presuntiva del danno esistenziale da demansionamento, dopo Cass. SU n. 6752/2006

 

1.Corte di appello di Torino, 23 maggio 2006 (sentenza parziale) – Pres. Peyron – Rel. Sanlorenzo -  C. c. N. SpA

2.Corte d’Appello di Torino, 26 settembre 2006 (sentenza definitiva) – Pres. Peyron – Rel. Sanlorenzo – C. c. N. SpA

 

Demansionamento – Riscontro – Prova del danno (esistenziale) subito e risarcibile, in aggiunta al biologico  -  Anche in via presuntiva secondo Cass. SU n. 6572/2006 – Sussistenza.

 

Le Sezioni Unite ben distinguono, ponendo prima a carico del lavoratore un preciso onere di allegazione, ma consentendo poi un alleggerimento della sua posizione processuale aprendo ampi spazi per la prova per presunzioni, che appunto null'altro appare che il corollario di quel che è e significa realmente la dequalificazione rispetto al concetto di "lavoro" quale mezzo di estrinsecazione della personalità del soggetto. In altri termini, la Cassazione consente che dai caratteri in cui si estrinseca il demansionamento - ad es., con l'isolamento fisico ed umano del lavoratore, la perdita di prestigio nell'ambiente lavorativo capace di riverberarsi altrove e di influenzare le relazioni esterne, l'emarginazione dai normali processi dì progresso e di avanzamento professionale - si possa desumere, e presumere, un danno esistenziale, inteso come quel pregiudizio al normale assetto relazionale del soggetto ed alle potenzialità espressive della sua personalità.

Per calare questi principi nella fattispecie presente, è evidente che gli elementi oggettivi con cui si è concretizzato il demansionamento del signor C nei quattro anni e quattro mesi intercorsi dall'inizio delle condotte alla proposizione del ricorso di primo grado, in sè considerati, danno ampia materia per seguire il procedimento valutativo di cui all'art. 115, 2° co. C.P.C.

Per tutto questo periodo, il signor C è stato isolato, anche fisicamente, dagli altri colleghi, privato di ogni dotazione materiale e della gran parte delle attribuzioni professionali, lasciato - sotto gli occhi di tutti - a compilare schemi di cruciverba (fatti confermati dai testi sui punti escussi). L'esperita consulenza medica ha confermato la prospettazione di una lesione permanente alla salute derivante dall'inadempimento datoriale, ma ha altresì fotografato un quadro oramai cronicizzato di depressione che appunto deve essere letto come capace di condizionare tutte le manifestazioni esistenziali del soggetto, ed il complesso delle relazioni interpersonali.

Nel caso di specie, il criterio dell'equità, a fini risarcitori, non può prescindere dalla valutazione della gravità del demansionamento, pressoché totale, dalla sua durata, dalla sua "visibilità" all'interno dell'ambiente lavorativo. In considerazione di tutto questo, la corte stima equo riconoscere a titolo di risarcimento del danno esistenziale patito, un importo pari ad euro 40.000 più euro 6.500 per danno biologico (6/7%).

 

1.Corte di appello di Torino, 23 maggio 2006 (sentenza parziale) – Pres. Peyron – Rel. Sanlorenzo -  C. c. N. SpA

 

SENTENZA PARZIALE

nella causa di lavoro iscritta al n.ro 45/2006 R.G.L. promossa da:

C, residente in Torino, rappresentato e difeso dall'avv....presso la stessa elettivamente domiciliato ...per delega 10.6.2004 a margine del ricorso in prime cure.

APPELLANTE

CONTRO

N s.p.a., con sede in legale in Milano, nella persona del suo procuratore ...in forza di procura n. rep... Notaio in Milano, in atti, rappresentata e difesa, anche in via disgiunta tra loro, dall'avv....e dall'avv. elettivamente domiciliata in forza di procura speciale apposta in calce al ricorso introduttivo.

APPELLATA

Oggetto: Risarcimento danni da dequalificazione.

CONCLUSIONI

Per l'appellante:

"Contrariis reiectis;

-dichiarare che la N s.p.a. ha dequalificato e mutato illegittimamente dall'aprile 2000 le mansioni affidate al sig. C ex art. 2103 c.c. e conseguentemente dichiarare tenuta e condannare parte convenuta ad adibire il sig. C a mansioni di II livello ccnl azienda terziario, distribuzione e servizi, con utilizzo della sua esperienza lavorativa pregressa;

-accertare e dichiarare che il sig. C è stata vittima di mobbing, consistente in una prolungata e sistematica discriminazione sindacale e vessazione nonché dequalificazione, e conseguentemente -dichiarare tenuta e condannare parte convenuta al pagamento in favore del ricorrente del risarcimento del danno in conseguenza del patito mobbing e patita dequalificazione derivante dal mancato utilizzo della sua esperienza e dalla perdita di capacità di concorrenza sul mercato del lavoro, danno morale, materiale, nella vita di relazione per la cui determinazione ci si rimette ad un giudizio equitativo del Giudice e che viene suggerito in almeno il 50% della retribuzione dall'aprile 2000 fino a tutto il suo perdurare; dichiarare altresì tenuta e condannare la parte convenuta al pagamento in favore di parte ricorrente del risarcimento del danno derivante dalla lesione della sua integrità psico-fisica (danno biologico di natura psichica) nella misura del 20% come stabilito dalla perizia di parte o di altra percentuale da determinarsi in corso di causa mediante ctu medico legale; con sentenza provvisoriamente esecutiva ex lege; con il favore delle spese ed onorari di giudizio".

Per l'appellata:

"Piaccia all'Ill.ma Corte d'Appello adita, ogni avversa istanza, eccezione, deduzione disattesa, così giudicare:

In via principale e nel merito:

- Rigettare il gravame proposto dal Sig. C in quanto del tutto inconsistente ed infondato.

Con vittoria di spese, diritti ed onorari del doppio grado di giudizio".

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 16.9.2005 il tribunale di Torino in funzione di giudice del lavoro ha respinto il ricorso presentato da C nei confronti della N s.p.a., con cui il ricorrente aveva chiesto dichiararsi l'illegittimità del demansionamento subito a partire dal gennaio 2000, la condanna della convenuta a riadibirlo alle mansioni adeguate al suo livello di inquadramento ed a risarcire il danno da lui patito a seguito del mobbing di cui era stato vittima.

Contro tale decisione ha proposto appello il signor C, chiedendo l'accoglimento delle originarie conclusioni.

Si è costituita la N s.p.a., per ottenere la conferma dell' impugnata sentenza.

All'udienza dell' 11.4.2006, in esito alla discussione, la causa è stata decisa in via non definitiva come dal dispositivo trascritto in calce alla presente sentenza, disponendosi con ordinanza per il prosieguo della causa.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Come è pacifico in causa, il signor C, dipendente della N s.p.a. inquadrato al II livello CCNL aziende settore turismo, nel mese di aprile 2000, al rientro al lavoro dopo un periodo di malattia, è stato nuovamente adibito al compito di responsabile del controllo della manutezione (in realtà già affidatogli sin dal settembre 1999): tale incarico, secondo il teste G, consistevano nel "ricevere le chiamate provenienti dai vari direttori o dagli addetti ai ristoranti che segnalavano dei guasti e quindi provvedere a compilare la modulistica che veniva poi inviata alle ditte esterne autorizzate ad effettuare gli interventi. La procedura prevedeva poi che il sig. C dovesse accompagnare il tecnico sul posto dove l'intervento doveva essere eseguito, doveva quindi restare lì durante l'esecuzione del lavoro e quindi doveva vistare la bolla di lavoro predisposta dal tecnico, in modo da attestare l'eventuale sostituzione di pezzi di ricambio ed anche del tempo impiegato per eseguire l'intervento" (v. verb.ud. 26.4.2005, p. 6). La stessa parte appellante nel proprio ricorso riproduce tale descrizione, ritenendola fedele al contenuto effettivo delle mansioni assegnate al lavoratore ed oggetto della presente causa (p. 8).

Le doglianze originarie riguardavano non solo il contenuto in sé dei compiti lavorativi, che avrebbero comportato una dequalificazione anche sotto il profilo del mancato rispetto della specifica competenza tecnico professionale, ma anche la nuova collocazione fisica del lavoratore, trasferito presso un magazzino di stoccaggio della merce, privato di ogni strumento utile per lavorare, quali telefono e computer, nonché il profilo quantitativo del demansionamento, che avrebbe comportato una sostanziale inattività del C per tutto l'orario lavorativo.

Il primo giudice ha respinto il ricorso sostenendo che:

- La sola circostanza del suo spostamento dal precedente ufficio, che la N s.p.a. avrebbe dovuto dismettere, ad un diverso locale, di per sè non vale a determinare una modifica in senso peggiorativo della sua attività, che a partire dall'aprile 2000 è rimasta immutata rispetto a quanto richiestogli a partire dal settembre 1999, con la nomina a responsabile del controllo alla manutenzione;

- Le mansioni in concreto affidate al C così come riportate dal teste G, suo diretto responsabile, astrattamente rientrano tra quelli del profilo di inquadramento;

- Si rende impossibile una valutazione a proposito dell'idoneità di tali mansioni ad assorbire interamente l'orario di lavoro, poiché c'è una discrasia tra i compiti affidati, quali descritti dal G, e quelli che il C ha effettivamente svolto.

L'appellante censura tale decisione, deducendo l'errata ed incompleta valutazione delle risultanze istruttorie, e l'insufficienza delle mansioni effettivamente assegnate a ricoprire la qualifica ricoperta. L'appello è fondato, almeno per quel che concerne la lamentata dequalificazione.

Occorre premettere che il signor C è entrato alle dipendenze dell' appellata con la qualifica di "capo impianto mensa - direttore", di II livello; a partire dall'aprile 2000, rientrato da un periodo di malattia, gli è stato affidato l'incarico di responsabile del controllo sulla manutenzione delle apparecchiature ed attrezzature dei ristoranti aziendali che consisteva nel controllare l'operato prima di un dipendente diretto della società appellata, tale P, poi quello delle due ditte incaricate degli interventi manutentivi.

Da un punto di vista quantitativo, deve dirsi certamente provato, in base alle prove raccolte, che questo tipo di incarichi comportava nei fatti un impegno pressoché inesistente per il lavoratore, che rimaneva inerte al proprio posto di lavoro per la quasi totalità del suo orario.

La teste M ha riferito al giudice: "Nel periodo in cui ho svolto mansioni di capo ristorante il sig. C lo vedevo in ufficio ma non mi risulta che lui avesse qualche mansione specifica, cioè stava lì senza far nulla ... io non posso che ribadire che nelle occasioni in cui mi capita di vederlo lo vedo seduto alla scrivania intento a fare le parole crociate e questo è anche motivo di commenti da parte di noi colleghi, che lo vediamo lì per 8 ore senza far niente. Dal momento in cui il ricorrente ha terminato di svolgere attività come capo settore, cioè direttore di diversi impianti, io praticamente non l'ho più visto fare nulla". Il teste P, operaio addetto alla manutenzione collaboratore dell'appellante per circa 3 anni, ha dichiarato: "Il signor C non aveva delle particolari competenze circa il funzionamento degli impianti, questo quantomeno a mio avviso visto che lui non aveva mai operato in quel settore. Non so dire di cosa si occupasse in precedenza dato che io l'ho sempre visto seduto senza fare niente ... ricordo di averlo visto ad una scrivania che era collocata all'interno di un magazzino dove vengono stoccate le merci. Chi aveva necessità di segnalare un guasto chiamava quindi al telefono che si trova all'interno del magazzino, il sig. C rispondeva e prendeva nota dell'intervento che doveva essere fatto e quindi poi cercava me oppure le ditte esterne; il più delle volte mi accompagnava ad effettuare gli interventi che io dovevo eseguire e quindi veniva lì e guardava quello che io facevo. Io compilavo giornalmente un foglio di lavoro in cui indicavo i vari interventi che eseguivo ed il tempo impiegato per effettuarli, questo foglio lo consegnavo al ricorrente oppure alle impiegate dell'ufficio... (attualmente) faccio l'autista magazziniere. Io, in qualità di magazziniere, sono presente quotidianamente presso il magazzino dove è collocata la scrivania del sig. C e per quanto mi consta posso dire che lui si occupa dei cruciverba, visto che lo vedo soltanto fare quello". Il teste G, responsabile diretto dall'appellante, ha affermato davanti al giudice: "Posso dire che dopo i primi tempi dall'affidamento di questo incarico relativo alla manutenzione, il ricorrente ha detto sia a me che ai miei collaboratori che quel tipo di lavoro non lo impegnava per tutta la giornata e lamentava questo fatto. Se lui avesse fatto però un controllo preventivo di tutte le attrezzature, nel senso che ho prima detto e di cui si era parlato con lui al momento della pianificazione dei suoi compiti, questo probabilmente avrebbe reso necessario un suo impegno per tutto l'orario di lavoro".

Il teste P, infine, che chiude la serie dei testi, in proposito ha aggiunto a quanto sin qui riportato: "Il ricorrente lo vedo all'interno del magazzino ad una scrivania situata vicino al montacarichi. A quanto io sento dire, lui dovrebbe occuparsi della manutenzione, io di fatto lo vedo sempre seduto a quella scrivania che fa i cruciverba. Io, se non lo vedo in magazzino alla scrivania, al più lo vedo in corridoio che va su e giù per sgranchirsi le gambe. Non so quantificare il tempo che nell'arco dell'orario lavorativo è occupato dal disbrigo di attività inerenti ai suoi compiti relativi alla manutenzione". Una corretta lettura del materiale probatorio sin qui trascritto non può che portare inevitabilmente al netto ribaltamento di quanto deciso all'esito del giudizio del primo grado.

Innanzitutto, non ha dubbio la corte nell'affermare che, da un punto di vista qualitativo, i compiti lavorativi riassunti nella descrizione fornita dal teste G non sono certo in grado di integrare le mansioni caratterizzanti il livello di appartenenza dell'appellante: al II livello infatti appartengono i lavoratori "che svolgono mansioni che comportano sia iniziativa che autonomia operativa nell'ambito e in applicazione delle direttive generali ricevute, con funzioni di coordinamento e controllo o ispettive di impianti reparti uffici, per le quali è richiesta una particolare competenza ispettiva".

Pacificamente, il signor C prima del 2000 ha svolto per lunghi anni compiti di impiegato tecnico, senza mai essere incaricato di occuparsi della manutenzione delle attrezzature, rispetto alla quale, come d'altronde bene ha riferito il P, non aveva nessuna competenza.

Quindi, appare difficilmente sostenibile quanto viceversa affermato nella sentenza impugnata (p.11) per cui non può assumere valore decisivo l'osservazione secondo cui i compiti a lui affidati riguarderebbero comunque "un settore estraneo alla sua pregressa esperienza professionale, dal momento che tale argomento non può essere spinto sino al limite di determinare una sclerotizzazione delle mansioni del lavoratore, con negazione dello stesso ius variandi, una volta verificata la congruità dei nuovi compiti con la declaratoria del livello di appartenenza".

Una tale affermazione trascura infatti tutta la ricca elaborazione resa dalla giurisprudenza di legittimità a proposito del contenuto e degli ambiti della violazione del disposto del principio inderogabile dell'art. 2103 c.c., che si verifica anche quando il lavoratore viene distolto dalla sua occupazione per essere adibito a compiti che pur se astrattamente rientranti nel suo livello di inquadramento, non risultano pertinenti rispetto al bagaglio di conoscenze ed esperienze che formano il suo patrimonio professionale, che dunque è destinato a disperdersi (tra le tante, Cass. n.2428/1999).

D'altronde, la assoluta mancanza di esperienza dell'appellante nel settore della manutenzione incide profondamente anche sul contenuto dei compiti che a partire dall'aprile 2000 gli sono stati affidati: in pratica, stando alle stesse parole del responsabile G, egli doveva ricevere le segnalazioni di guasti ed anomalie dai vari impianti (non direttamente, essendo privo di telefono), compilare l'apposita modulistica, chiamare - finché è stato utilizzato in tal modo - l'operaio manutentore signor P, oppure una delle due ditte incaricate degli interventi, la X e la Y, ciascuna delle quali si occupa di determinati tipi di interventi a seconda dei macchinari che necessitano della riparazione (teste P): quindi non gli era richiesta nemmeno alcuna discrezionalità nella scelta del destinatario della chiamata, essendo questo facilmente individuabile in base a criteri oggettivi e predeterminati. Quindi, secondo la pretesa dell'appellata, avrebbe dovuto recarsi sul posto dell'intervento, ed assistere al lavoro altrui, al fine appunto di "controllare" la bontà dell'intervento manutentivo, standosene con le mani in mano ad osservare l'operato altrui. Basterebbero queste banali osservazioni per escludere che l'azienda, nel "nominare" il C responsabile del controllo manutenzione, abbia voluto veramente dare risalto alla sua iniziativa, alla sua autonomia operativa, attribuendogli funzioni per le quali era necessaria "una particolare competenza professionale". A ciò però deve essere aggiunto quanto riferito dal teste P, di cui per circa 3 anni il C è stato responsabile, secondo il quale quest'ultimo, non essendosi mai occupato di tale attività, non aveva nel settore alcuna competenza particolare: ed allora diventa davvero arduo giungere ad affermare che le mansioni di cui era titolare rientravano nella declaratoria del II livello, posto che egli era comunque responsabile di una attività di controllo, dal momento che non avendo conoscenze specifiche sicuramente non era in grado di controllare alcunché, se non il passar del tempo e la durata dell'intervento svolto da altri.

La corte deve altresì ribaltare il giudizio del primo giudice, laddove, dopo aver constatato una presunta discrasia tra le mansioni effettivamente svolte dal C ed i compiti che in realtà gli sarebbero stati affidati, consistenti in particolare nel recarsi abitualmente presso i vari impianti per effettuare controlli preventivi dei macchinari, oppure nell'accompagnare effettivamente i tecnici sui luoghi degli interventi, conclude affermando che "tutta la vicenda lavorativa è indubbiamente connotata da difficoltà ed incomprensioni": in una vicenda come la presente, indipendentemente dal dato psicologico, ciò che interessa a chi è chiamato a valutarla secondo categorie giuridiche, è l'avvenuta violazione da parte del datore di lavoro di un obbligo contrattuale inderogabile ed indisponibile, quale quello dell'art. 2103 c.c.

Nel caso di specie, la violazione del precetto normativo è clamorosa, ed inescusabile; non assume nessun rilievo, al fine di questa valutazione conclusiva, l'atteggiamento di pretesa "benevolenza" che avrebbe contrassegnato il comportamento datoriale quale riferito dal teste G, secondo cui, pur non avendo adeguatamente adempiuto all'incarico a lui affidato, il C non sarebbe stato raggiunto da contestazioni disciplinari "per non aggravare una situazione che si presentava già particolarmente tesa" (p. 11 sent.).

Un'affermazione del genere pare innanzitutto intrinsecamente inverosimile, se solo si considera che tra le parti il contenzioso avente ad oggetto il preteso carattere demansionante delle mansioni lavorative perdura da non pochi anni, essendo stato oggetto già di precedente iniziativa giudiziaria. Comunque essa non pare suffragata dai dati della realtà, perché innanzitutto al C non erano stati forniti i mezzi per recarsi sui vari cantieri, il controllo preventivo comunque sarebbe stato inutile e privo di contenuti, e quando effettivamente si è individuato un compito aggiuntivo per cercare di "riempire" l'orario di lavoro, non si è andato al di là dell'attribuzione dell'incarico di controllare la modulistica HACCP, riguardante null'altro che la registrazione delle temperature dei frigoriferi, in realtà compilata da altri.

Ma pur volendo superare questi dati ineludibili, rimarca la corte che, in via di principio, il ragionamento accolto e condiviso dal primo giudice contrasta insanabilmente con i principi del nostro ordinamento che attribuiscono ad ogni lavoratore il diritto, pieno ed indisponibile, di essere adibito alle mansioni per cui era stato assunto: ciò che nel caso del signor C, per tutte le argomentazioni sin qui svolte, non è successo.

Deve pertanto affermarsi l'illegittimità del demansionamento a lui inflitto a partire dall'aprile 1999, epoca da cui parte la deduzione dei fatti ritenuti significativi ai fini di causa.

Viceversa non pare provato il mobbing dedotto, inteso come persecuzione psicologica volta effettivamente all'isolamento, e financo, all'espulsione, del C: non si ravvisa, infatti, rispetto alla dequalificazione professionale, quel quid pluris che in qualche modo dovrebbe connotare l'autonoma voce di inadempimento datoriale.

Per quel che concerne il diritto al risarcimento del danno, il lavoratore ha dedotto sin dall'iniziale ricorso una lesione specifica alla propria salute psichica, producendo al riguardo documentazione medica: si rende pertanto doveroso disporre consulenza medica volta ad accertare la sussistenza di una patologia, causalmente o concausalmente collegata al demansionamento patito e ad eventualmente quantificarne il danno conseguente.

All'esito del giudizio viene rinviata anche la liquidazione delle altre voci di danno, nonché quella delle spese di lite.

PQM

Visto l'art. 437 c.p.c.

In accoglimento dell'appello;

-dichiara il carattere dequalificante delle mansioni attribuite al C dall'aprile 2000 e ordina alla N s.p.a. di attribuire all'appellante mansioni corrispondenti al livello di inquadramento;

-condanna la N spa a risarcire all'appellante il danno subito, da liquidarsi in prosieguo di giudizio; spese al definitivo.

 

Così deciso all'udienza dell' 11.4.2006

IL CONSIGLIERE Estensore

Dott.ssa Rita SANLORENZO

IL PRESIDENTE

Dott. Carlo PEYRON

 

Consegnata in Cancelleria per la pubblicazione il 23 maggio 2006.

 

*******

2.Corte d’Appello di Torino, 26 settembre 2006 (sentenza definitiva) – Pres. Peyron – Rel. Sanlorenzo – C. c. N. SpA

 

SENTENZA DEFINITIVA

nella causa di lavoro iscritta al n.ro 45/2006 R.G.L. promossa da:

C, residente in Torino, ..., rappresentato e difeso dall'avv....e presso la stessa elettivamente domiciliato (…)

APPELLANTE

CONTRO

N S.p.A., con sede in legale in Milano, ..., nella persona del suo procuratore ...in forza di procura n…… Notaio in Milano, in atti, rappresentata e difesa, anche in via disgiunta tra loro, dall'avv....e dall'avv....del Foro di Torino, presso il cui studio in Torino, ..., è elettivamente domiciliata (...)

APPELLATA

Oggetto: Risarcimento danni da dequalificazione.

CONCLUSIONI

Per l'appellante:

"Contrariis reiectis;

dichiarare che la N s.p.a. ha dequalificato e mutato illegittimamente dall'aprile 2000 le mansioni affidate al sig. C ex art. 2103 c.c. e conseguentemente dichiarare tenuta e condannare parte convenuta ad adibire il sig. C a mansioni di Il livello ccnl azienda terziario, distribuzione e servizi, con utilizzo della sua esperienza lavorativa pregressa;

accertare e dichiarare che il sig. C è stata vittima di mobbing, consistente in una prolungata e sistematica discriminazione sindacale e vessazione nonché dequalificazione, e conseguentemente dichiarare tenuta e condannare parte convenuta al pagamento in favore del ricorrente del risarcimento del danno in conseguenza del patito mobbing e patita dequalificazione derivante dal mancato utilizzo della sua esperienza e dalla perdita di capacità di concorrenza sul mercato del lavoro, danno morale, materiale, nella vita di relazione per la cui determinazione ci si rimette ad un giudizio equitativo del Giudice e che viene suggerito in almeno il 50% della retribuzione dall'aprile 2000 fino a tutto il suo perdurare; dichiarare altresì tenuta e condannare la parte convenuta al pagamento in favore di parte ricorrente del risarcimento del danno derivante dalla lesione della sua integrità psico-fisica (danno biologico di natura psichica) nella misura del 20% come stabilito dalla perizia di parte o di altra percentuale da determinarsi in corso di causa mediante ctu medico legale; con sentenza provvisoriamente esecutiva ex lege; con il favore delle spese ed onorari di giudizio".

Per l'appellata:

"Piaccia all'Ill.ma Corte d'Appello adita, ogni avversa istanza, eccezione, deduzione disattesa, così giudicare:

In via principale e nel merito:

- Rigettare il gravame proposto dal Sig. C in quanto del tutto inconsistente ed infondato. Con vittoria di spese, diritti ed onorari del doppio grado di giudizio".

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 16.9.2005 il tribunale di Torino in funzione di giudice del lavoro ha respinto il ricorso presentato da C nei confronti della N S.p.a. con cui il ricorrente aveva chiesto dichiararsi l'illegittimità del demansionamento subito a partire dal gennaio 2000, la condanna della convenuta a riadibirlo alle mansioni adeguate al suo livello di inquadramento ed a risarcire il danno da lui patito a seguito del mobbing di cui era stato vittima.

Contro tale decisione ha proposto appello il signor C, chiedendo l'accoglimento delle originarie conclusioni.

Si è costituita la N s.p.a., per ottenere la conferma dell' impugnata sentenza.

All'udienza dell' 11.4.2006, in esito alla discussione, la causa è stata decisa in via non definitiva, disponendosi con ordinanza per il prosieguo della causa, in particolare con l'ammissione di ctu medico legale volta ad accertare l'esistenza di una patologia di carattere psichico causalmente o concausalmente determinata dal demansionamento patito dal ricorrente, come accertato dalla sentenza non definitiva contestualmente emessa, e l'eventuale entità del danno biologico permanente.

Depositata la relazione scritta, all'udienza del 26.9.2006 sulle conclusioni delle parti la causa è stata decisa come dal dispositivo trascritto in calce alla presente sentenza.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

Con la sentenza non definitiva dell' 11.4.2006, depositata il 25.5.2006, questa corte ha dichiarato il carattere dequalificante delle mansioni attribuite al C a partire dall'aprile 2000, ordinando alla società N S.P.A. di attribuire al lavoratore mansioni corrispondenti al livello di inquadramento.

A fronte della specifica domanda formulata sin dall'iniziale ricorso, ha quindi disposto ctu medico legale al fine di accertare se l'accertato carattere demansionante dei compiti lavorativi affidati al signor C avesse causato a suo danno una lesione permanente alla salute.

Il consulente nominato, dott. F dopo l'esame diretto del signor C e della documentazione medica agli atti, a seguito del contraddittorio con i consulenti nominati dalle parti, ha concluso la sua relazione principalmente diagnosticando la presenza di un "Disturbo dell'Adattamento con Ansia e Umore Depresso Misti, Cronico", secondo il DSM IV, da ricollegarsi causalmente alla protratta dequalificazione delle mansioni, già accertata dalla sentenza della Corte.

Il ctu ha ragionatamente escluso la presenza di patologie più gravi e diverse, quali viceversa ipotizzati dai consulenti di parte, quali il "disturbo depressivo maggiore cronicizzato" o il "disordine depressivo maggiore", che rappresentano condizioni depressive troppo severe se confrontate con quelle effettive del signor C. Costui presenta indubbiamente fattori di personalità capaci di intervenire abitualmente nella espressività patologica, che in passato non possono non avere inciso sulle manifestazioni di alcuni disturbi portati all'attenzione degli specialisti che hanno avuto in cura il paziente, ma la definizione di disturbo dell'adattamento secondo il DSM IV riguarda appunto "lo sviluppo di sintomi emotivi o comportamentali clinicamente significativi in risposta ad uno o più fattori psicosociali stressanti identificabili".

Ora, se il signor C indubbiamente risente di fattori personali che già in passato lo hanno indotto a sottoporsi a cure mediche contro la depressione, oggi l'unico fattore stressante identificabile, capace di porsi in relazione causale con le manifestazioni sintomatologiche è appunto la condizione lavorativa da lui patita, quantomeno dall'aprile 2000: per cui non è certo sostenibile l'ipotesi di una causa preesistente, o concomitante, capace di escludere ogni efficienza causale alla situazione emersa dall'esame dei fatti di causa.

Di qui, innanzitutto, la reiezione dell'istanza di audizione del ctu a chiarimenti, avanzata dalla parte appellata, dal momento che le argomentazioni sulla scorta delle quali il dott. F è pervenuto alle conclusioni sopra sintetizzate, appaiono pienamente logiche, e coerenti con quelle che sono le risultanze di causa. La corte deve pertanto riconoscere al signor C un risarcimento conseguente al danno permanente alla salute da lui patito, danno che è stato quantificato in percentuale pari al 6 / 7 %. Tenuto conto dei parametri di liquidazione offerti dalle tabelle del tribunale di Milano, abitualmente seguite da questo ufficio in quanto in grado di soddisfare criteri di proporzionalità e di congruità, tenuto conto anche del fattore oggettivo costituito dall'età del soggetto che ha subito il danno, questa corte ritiene adeguato un risarcimento per la lesione al danno biologico di natura permanente patito dal signor C pari alla somma capitale di euro.6.500,00.

Accanto alla domanda per il risarcimento del danno biologico, l'appellante ha formulato quella volta al riconoscimento di un danno "morale, materiale, nella vita di relazione" (v. conclusioni atto d'appello). In proposito, questa corte deve richiamare il proprio, reiterato convincimento (vd. sent. n. 446/05 in causa Tiano / Fiat Auto) secondo cui meritava adesione quell'orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione favorevole al riconoscimento di un danno da demansionamento anche in mancanza della prova di uno specifico pregiudizio di natura patrimoniale (Cass. n. 14.443/2000: "il demansionamento professionale costituisce lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, con la conseguenza che al pregiudizio correlato a tale lesione - che incide sulla vita professionale e di relazione dell'interessato - va riconosciuta un'indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa, pure nell'ipotesi in cui sia mancata la dimostrazione di un effettivo pregiudizio patrimoniale").

In successive occasioni la Corte (Cass., 1 ° giugno 2002, n. 7967) ha meglio individuato le valutazioni giuridiche che sorreggono il proprio convincimento nei seguenti termini: "il carattere del rapporto di lavoro subordinato che non è puramente di scambio coinvolgendo la persona del lavoratore e che costituisce altresì un contratto di organizzazione (art. 2094 c.c.) sicchè la disciplina degli aspetti patrimoniali e la collaborazione nell'impresa devono necessariamente coniugarsi con i precetti costituzionali di tutela della persona dell'uomo che lavora; il principio di buona fede del contratto di assunzione (art. 1375 c.c.); infine l'attuale evoluzione del mercato del lavoro che, enfatizzando la formazione continua come essenziale caratteristica dell'attuale momento storico ed economico valorizza la funzione della prestazione lavorativa in tal senso".

Ancora di recente (sentenza n. 15955 del 16.8.2004), la Cassazione ha ribadito la possibilità di desumere l'esistenza del danno da elementi presuntivi in base agli elementi di fatto relativi alla durata della dequalificazione ed alle circostanze del caso concreto.

Da ultimo, le Sezioni Unite della S.C. hanno avuto modo di intervenire per sanare un contrasto sul punto specifico relativo agli oneri di allegazione e di prova circa il danno patito dal lavoratore vittima di demansionamento, fornendo agli interpreti utili specificazioni sul tema in questione: secondo le S.U. (sent. n.6572 del 24.3.2006) "In tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all'esistenza di una lesione dell'integrità psico - fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale - da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddituale del soggetto che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno - va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione dì precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibili all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l'avvenuta lesione dell'interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) - il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico - si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell'art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove".

Se tale pronuncia è stata da molti salutata come il definitivo abbandono dell'orientamento più favorevole ai lavoratori, cui anche questo ufficio aveva aderito in una pluralità di occasioni, per cui il danno da demansionamento era da riconoscere in re ipsa, pare invece ad una più attenta lettura che il decisum delle S.U. ponga importanti capisaldi, che ben si collocano nella scia delle pronunce richiamate.

Essenzialmente la sentenza n. 6572 pone a carico del ricorrente un onere di allegazione, che a ben vedere attiene non tanto e non solo alle conseguenze dell'inadempimento datoriale, ma piuttosto all'essenza in sé del demansionamento, che attiene non solo e non tanto al diritto di svolgere quei compiti per cui il lavoratore è stato assunto, ma piuttosto a quello di veder riconosciuto nell'ambiente di lavoro il proprio valore professionale, e difesa la propria dignità di persona.

E' tutta qui la peculiarità di una tutela che l'ordinamento appronta nei confronti di un comportamento che solo ad una visione inaccettabilmente miope si potrebbe restringere alla violazione di un qualsiasi obbligo facente parte del sinallagma contrattuale, ma che invece deve essere valutato prima di tutto alla stregua di quel "diritto al lavoro" che la nostra Repubblica riconosce a tutti i cittadini, secondo il dettato della Carta Costituzionale.

Ciò è tanto vero, che le Sezioni Unite ben distinguono, ponendo prima a carico del lavoratore un preciso onere di allegazione, ma consentendo poi un alleggerimento della sua posizione processuale aprendo ampi spazi per la prova per presunzioni, che appunto null'altro appare che il corollario di quel che è e significa realmente la dequalificazione rispetto al concetto di "lavoro" quale mezzo di estrinsecazione della personalità del soggetto. In altri termini, la Cassazione consente che dai caratteri in cui si estrinseca il demansionamento - ad es., con l'isolamento fisico ed umano del lavoratore, la perdita di prestigio nell'ambiente lavorativo capace di riverberarsi altrove e di influenzare le relazioni esterne, l'emarginazione dai normali processi dì progresso e di avanzamento professionale - si possa desumere, e presumere, un danno esistenziale, inteso come quel pregiudizio al normale assetto relazionale del soggetto ed alle potenzialità espressive della sua personalità.

Per calare questi principi nella fattispecie presente, è evidente che gli elementi oggettivi con cui si è concretizzato il demansionamento del signor C nei quattro anni e quattro mesi intercorsi dall'inizio delle condotte alla proposizione del ricorso di primo grado, in sè considerati, danno ampia materia per seguire il procedimento valutativo di cui all'art. 115, 2° co. C.P.C.

Per tutto questo periodo, il signor C è stato isolato, anche fisicamente, dagli altri colleghi, privato di ogni dotazione materiale e della gran parte delle attribuzioni professionali, lasciato - sotto gli occhi di tutti - a compilare schemi di cruciverba (fatti confermati dai testi sui punti escussi). L'esperita consulenza medica ha confermato la prospettazione di una lesione permanente alla salute derivante dall'inadempimento datoriale, ma ha altresì fotografato un quadro oramai cronicizzato di depressione che appunto deve essere letto come capace di condizionare tutte le manifestazioni esistenziali del soggetto, ed il complesso delle relazioni interpersonali.

Per quel che riguarda la liquidazione di questo tipo di danno, la corte deve ribadire quanto più volte sostenuto in altre pronunce con cui si è negato che possa costituire valido riferimento per la quantificazione del risarcimento spettante la retribuzione in atto al momento della sua causazione, dal momento che per l'appunto la lesione involge primariamente la sfera personale dell'individuo, indipendentemente dalla sua "capacità" di produrre reddito (tra le altre, vds. sent. n.1551/05, Dell'Oro/ Solvay Pharma).

Nel caso di specie, il criterio dell'equità non può prescindere dalla valutazione della gravità del demansionamento, pressoché totale, dalla sua durata, dalla sua "visibilità" all'interno dell'ambiente lavorativo. In considerazione di tutto questo, la corte stima equo riconoscere a titolo di risarcimento del danno esistenziale patito, un importo pari ad euro 40.000.

L'appellata deve dunque essere complessivamente condannata al pagamento della somma di euro 46.500, cui devono aggiungersi interessi e rivalutazione dal giorno della presente sentenza e sino al saldo. Le spese di entrambi i gradi di giudizio seguono la soccombenza: essi si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Visto l'art. 437 c.p.c.,

pronunciando definitivamente,

-condanna l'appellata a pagare all'appellante, a titolo di risarcimento, la somma di euro 46.500,00 oltre interessi e rivalutazione da oggi;

condanna l'appellata a rimborsare all'appellante le spese di entrambi i gradi, liquidate per il primo in euro 3.100,00 e per il presente grado in euro 3.825,00 di cui 2.890,00 per onorari e 510,00 per diritti, oltre IVA e CPA;

-pone definitivamente le spese di CTU a carico dell'appellata.

 

Così deciso all'udienza del 26.9.2006.

IL CONSIGLIERE Estensore Dott.ssa Rita SANLORENZO

IL PRESIDENTE Dott. Carlo PEYRON

(Torna alla Sezione Mobbing)