Il  ricorso  aziendale  all'appalto

 

            Molte delle aziende di credito  sono da tempo sollecitate dalle indifferibili esigenze della modernizzazione, trasformazione e riorganizzazione (atte a consentir loro la permanenza sul mercato) a ricorrere più che in passato all'ausilio di ditte esterne o di studi professionali - eminentemente nel campo dell'informatica, del controllo di gestione e simili - stipulando con essi dei contratti di appalto che implicano l'inserimento in azienda, per sostanziosi periodi di tempo, di lavoratori delle ditte appaltatrici.

            Ci riproponiamo di delineare le condizioni che rendono legittimo il ricorso all'opera di esterni nonché, per converso, le ipotesi patologiche, ricorrendo le quali i dipendenti delle imprese appaltatrici hanno il diritto al passaggio nell'organico dell'azienda di credito appaltante o, quantomeno, all'equiparazione del trattamento contrattuale in conseguenza diretta del disimpegno di incarichi facenti parte del "ciclo produttivo" dell'azienda di credito.

 

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1. Le caratteristiche del contratto di appalto

            L'appalto di servizi è regolato dall'art. 1677 c.c. e dal Capo VII del Codice civile, afferenti alla disciplina dell'appalto, che l'art. 1655 c.c. così definisce: "L'appalto è il contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un'opera o di un servizio, verso un corrispettivo in danaro".

            Requisito indispensabile affinché l'appalto sia legittimo é, quindi, che il committente abbia conferito o conferisca l'incarico di effettuazione del servizio a soggetto che, in quanto dotato di organizzazione propria e gestione a proprio rischio, rivesta le caratteristiche almeno del piccolo imprenditore (di cui all'art. 2083 c.c.) se non della media impresa.

            L'esecuzione del servizio deve adeguarsi alle modalità tecniche che siano state concordate dalle parti (così si desume dall'art. 1662, 2 comma, c.c.) - cioè a dire alle istruzioni disposte contrattualmente dal committente - e rispondere ai requisiti della c.d. "perfezione" o, come altrimenti si usa dire, della "regola d'arte". Ciò implica nell'appaltatore una competenza tecnica o specialistica - in quanto egli non è mero strumento esecutivo del committente - e, quindi, un'autonomia ed una libertà circa le modalità tecniche da adottare per pervenire al "risultato", che é giustappunto l'oggetto dell'appalto.

            Questa autonomia, se da un lato esclude l'ingerenza costante e capillare del committente nel seguire l'iter procedurale e le modalità specifiche tramite cui l'appaltatore realizza "l'opera o il servizio", non significa "preclusione assoluta" per il committente di interessarsi delle tecniche e delle modalità operative adottate dall'appaltatore, avendo il diritto, ex art. 1662 c.c., " di controllare lo svolgimento dei lavori e di verificarne...lo stato". Diritto che deve essere ritenuto addizionale e complementare a quello della fornitura di specifiche istruzioni e direttive, per via contrattuale, da parte del committente.

            Sono quindi legittimi - entro certi limiti di ragionevolezza - controlli saltuari e/o a campione nei confronti dell'appaltatore, prescrizioni e direttive del committente sia all'atto del conferimento dell'incarico che successivamente, ma sono da evitare continue e sistematiche indicazioni nel corso di compimento del servizio, vanificatrici dell'autonomia d'impresa dell'appaltatore.

 

2. La L. n. 1369/1960 sul divieto di interposizione nelle prestazioni di lavoro

            In tema di appalti di opere e servizi, ci si imbatte spesso nella necessità di confrontare le concrete fattispecie con le prescrizioni della L. 23 ottobre 1960, n. 1369 sul "Divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro e nuova disciplina dell'impiego della manodopera negli appalti di opere e servizi". Rilevanti, ai nostri effetti, risultano rispettivamente l'art. 1 e 3 della legge citata.

            L'art. 1 della legge vieta all'imprenditore (committente), di affidare in appalto o in subappalto o in qualsiasi altra forma, anche a società cooperative, l'esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante l'impiego di manodopera assunta e retribuita dall'appaltatore (o intermediario).

            Allo scopo si considera " appalto di mere prestazioni di lavoro" ogni forma di appalto o subappalto, anche per l'esecuzione di opere e servizi, ove l'appaltatore impieghi capitali, macchine ed attrezzature fornite dall'appaltante (quand'anche per il loro uso venga corrisposto un compenso al committente).

            Come appare evidente, la legge, all'art.1, si riferisce a fattispecie contrattuali atipiche ed illecite. L'atipicità del contratto in questione si coglie, inoltre e soprattutto, avendo riguardo all'ampia formulazione legislativa degli schemi negoziali vietati (attraverso la dizione " in qualsiasi altra forma").

            Tramite questa locuzione, il legislatore ha inteso colpire non solo le intese contrattuali testualmente definite "appalto" o "subappalto" - in realtà identificabili come pseudo appalti (cioè finti appalti) - ma anche qualsiasi altra forma negoziale con la quale il datore di lavoro intendesse realizzare la stessa finalità deresponsabilizzante.

            L'art.1 della legge n.1369/1960 - che comporta la sanzione della riconducibilità in capo al committente della titolarità dei rapporti di lavoro dei dipendenti dell'appaltatore -  ha inteso colpire qualsiasi forma negoziale con la quale il datore di lavoro reale consegua un'interposizione nel rapporto di lavoro e, pur utilizzando "effettivamente" le prestazioni di lavoro, formalmente erogate a favore dell'interposto, si sottragga all'assunzione delle responsabilità conseguenti alla titolarità del rapporto.

            Dottrina e giurisprudenza evidenziano come il meccanismo repressivo, di cui all'art. 1 L. n. 1369/1960, sia caratterizzato, in presenza dei requisiti delineati nei vari comma dello stesso, da una "presunzione di fraudolenza", per cui si ritiene irrilevante qualsiasi indagine circa il "motivo" che ha indotto il committente a porre in essere il meccanismo interpositorio, così come viene ritenuta irrilevante un'indagine sull'intento fraudolento (o meno) del datore di lavoro.

            Ai fini della concretizzazione del vietato fenomeno interpositorio è sufficiente - come recita il 3 comma - che "l'appaltatore impieghi capitali, macchine ed attrezzature fornite dall'appaltante" (o committente).

            A fronte della compresenza degli elementi sopramenzionati, il giudice dovrà necessariamente affermare il carattere illecito dell'intesa negoziale . Ma secondo l'orientamento dottrinale maggioritario, non é necessaria la compresenza di tutti gli elementi (capitali, macchine ed attrezzature), cosicché la mancanza di uno solo di essi renderebbe legittimo l'appalto. Si richiede infatti, ai fini dell'individuazione dell'appalto illecito e dell'interposizione vietata, una indagine finalizzata a valutare comparativamente il reciproco "peso", nell'economia del negozio, della fornitura di capitali, macchine ed attrezzature e la fornitura di mera manodopera.

            Su questo problema la giurisprudenza é orientata a ritenere che debba configurarsi l'appalto vietato di manodopera ove l'impiego da parte dell'appaltatore di mera manodopera sia prevalente rispetto all'impiego di mezzi propri di produzione. E la dottrina, in senso conforme, asserisce che " é sufficiente ad integrare la sussistenza di un appalto di mera manodopera la semplice prevalenza della somministrazione di lavoro altrui, a fronte dell'impiego di altri mezzi propri". O, come pure è stato detto,  "indipendentemente dal carattere non fittizio dell'impresa, si ha interposizione nelle prestazioni di lavoro quando il conferimento da parte del committente di capitali, macchine ed attrezzature sia di rilevanza tale da rendere del tutto marginale ed accessorio l'apporto dell'appaltatore che diventa così soggetto interposto per presunzione legale assoluta della sussistenza della fattispecie vietata dall'art. 1 L. n. 1369/1960"( così, Cass. n. 4585/1994).

            Il motivo per cui questa fattispecie é considerata illecita e legislativamente repressa, risiede nel fatto che la " prevalenza della fornitura di lavoro altrui sulla presenza di mezzi gestionali propri", priva l'appalto di uno dei requisiti stabiliti dall'art. 1565 c.c., cioè la "organizzazione dei mezzi necessari" all'esercizio dell'impresa. Sotto altro profilo - quello soggettivo dell'interposto - si avrà parimenti appalto di manodopera vietato quando nel soggetto incaricato di effettuare un'opera o servizio sia carente la capacità imprenditoriale per eseguirli: non sia cioè un imprenditore in quanto non gli fa capo il c.d. "rischio d'impresa".

            Si è pertanto giunti a sostenere che " la sproporzione tra il compenso, i mezzi e le opere promesse dovrà costituire un importante indizio di assenza di rischio gestionale e quindi di qualità imprenditoriale dell'interposto" (così, Mazzotta e Nicolini).

            Va altresì evidenziato che il legislatore, tramite la L. n. 1369/1960 ed in particolare tramite l'art. 1, ha avuto di mira la tutela dei dipendenti del soggetto interposto (disinteressandosi di questo imprenditore apparente), statuendo la costituzione di un rapporto di lavoro diretto fra lavoratori assunti dall'intermediario, di cui il committente é l'effettivo e reale utilizzatore delle prestazioni.

            Talora si é indotti, pragmaticamente, a considerare appalto di mera manodopera l'affidamento all'appaltatore di servizi strettamente connessi con il processo produttivo specifico dell'impresa appaltante, mentre invece tale aspetto viene, in prevalenza, considerato del tutto irrilevante ai fini del divieto di cui all'art. 1  della legge, rientrando nell'autonomia organizzativa dell'impresa la scelta di effettuazione in proprio di determinati servizi ovvero il decentramento (cioè il conferimento)  all'esterno di servizi afferenti, direttamente o in maniera complementare, al suo ciclo imprenditoriale.

 

3. Gli appalti allo "interno dell'azienda", ex artt. 3 e 5 L. n. 1369

            L'aspetto dell'inerenza "al ciclo d'impresa" di determinati servizi appaltati rileva, invece, ai fini di un'altra disposizione della legge e precisamente dell'art. 3 della medesima. Tale disposizione stabilisce che " gli imprenditori che appaltano opere e servizi... da eseguirsi all'interno dell'azienda con organizzazione e gestione propria dell'appaltatore, sono tenuti in solido con quest'ultimo a corrispondere ai lavoratori da esso dipendenti un trattamento minimo inderogabile retributivo e ad assicurare un trattamento normativo non inferiore a quello spettante ai lavoratori da loro dipendenti" (comma 1). Ove la dizione "interno dell'azienda" - come hanno precisato, consolidatamente, dottrina e giurisprudenza di Cassazione (per tutte, Cass. n.814/1993) - " non va intesa come mero riferimento topografico, nel senso che l'attività dell'appaltatore debba svolgersi all'interno dello stabilimento o stabilimenti ove ha sede l'attività produttiva dell'appaltante, bensì nel senso che l'attività dell'appaltatore riguardi un settore dell'organizzazione tecnica o amministrativa propria  dell'impresa concedente l'appalto, ossia uno dei servizi principali o ausiliari predisposti ai fini della realizzazione del suo ciclo produttivo". Questa norma individua una serie di appalti che, per essere eseguiti con organizzazione e gestione propria dell'appaltatore, sono leciti; tuttavia, in quanto il legislatore vuole evitare che tra lavoratori dipendenti del committente e lavoratori dipendenti dell'appaltatore sussistano differenze di condizioni economico/normative, quando svolgano entrambi  attività e compiti afferenti al medesimo o analogo ciclo produttivo della medesima azienda, stabilisce una responsabilità solidale  del committente e dell'appaltatore per l'equiparazione del loro trattamento economico e normativo, limitatamente alla durata del contratto di appalto, a tal fine estendendo, in pratica, l'applicazione degli  stessi contratti di lavoro (collettivo nazionale ed integrativo aziendale dell'azienda appaltante).

            La ratio di questa equiparazione è chiaramente delineata nei lavori parlamentari propedeutici alla  L. n. 1369, secondo i quali: " la ragione principale che legittima la speciale disciplina  (equiparativa dei trattamenti, n.d.a.) nei casi di appalti di opere e servizi, da eseguirsi nell'azienda, risiede soprattutto nel fatto che i lavoratori dipendenti dell'impresa appaltatrice si trovano ad operare fianco a fianco con i lavoratori dipendenti dall'impresa principale, vivono nello stesso ambiente, vengono a trovarsi in un'appariscente e strisciante condizione di inferiorità nei confronti dei loro compagni di lavoro, spesso adempiono a prestazioni eguali a quelle dei loro colleghi e comunque hanno la consapevolezza di contribuire al risultato finale dell'impresa committente"." Il complesso di quanti operano in un'azienda costituisce una comunità umana...e da tutti non può non essere non avvertita l'esigenza che unica sia la legge nella stessa comunità".

            Va, conclusivamente, avvertito che l'art.5 della legge in questione esenta dal trattamento equiparativo sopradescritto i lavoratori di imprese impegnate in appalti "per prestazioni saltuarie ed occasionali, di breve durata, non ricorrenti abitualmente nel ciclo produttivo e nell'organizzazione dell'impresa" (previa autorizzazione dell'ispettorato del lavoro) nonché per altre attività  similarmente estranee al ciclo aziendale o del tutto specialistiche quali, tassativamente: le costruzioni edilizie all'interno degli stabilimenti; l'installazione e montaggio di impianti e macchinari; la manutenzione straordinaria; i trasporti esterni; gli appalti per particolari attività produttive le quali richiedano, in più fasi successive di lavorazione, l'impiego di manodopera diversa per specializzazione da quella normalmente impiegata nell'impresa, sempreché tale impiego non abbia carattere continuativo; gli appalti per lavori di facchinaggio, di pulizia e di manutenzione ordinaria, conclusi con imprese che impieghino il proprio personale presso più aziende contemporaneamente (e dietro autorizzazione dell'ispettorato del lavoro).

   Roma, 16 gennaio 1996  

                                                                          Mario Meucci

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