Ancora segnali di arretramento sul versante giurisprudenziale

(a proposito del ricorso all’autotutela ex art. 1460 c.c.)

 

1. Dopo un periodo in cui la magistratura attribuiva abbastanza pacificamente al lavoratore l’esercizio del diritto di cd. “autotutela” – cioè a dire di reazione individuale avverso comportamenti o provvedimenti illegittimi datoriali (quali demansionamento e trasferimento accompagnato da dequalificazione) – consistente nel rifiuto di aderire al provvedimento, tramite l’astensione dalla prestazione di lavoro richiesta secondo canoni illegittimi, la magistratura di vertice ha assunto recentemente un atteggiamento sfavorevole al prestatore e, pacificamente, tutorio degli interessi aziendali.

Il rifiuto del lavoratore era stato da lungo tempo legittimato in base all’art. 1460 c.c. – norma che codifica nel nostro ordinamento positivo il brocardo latino “inadimplenti non est adimplemdum” – con la conseguenza di non attribuire carattere di insubordinazione sanzionabile al rifiuto del prestatore di dar corso ad un provvedimento di modificazione illegittima delle mansioni o di aderire ad un trasferimento accompagnato da confinamento in incarichi e ruolo deteriori rispetto a quelli precedentemente rivestiti.

A partire dal 2007 quest’orientamento viene letteralmente sottoposto a contestazione e con distinguo formalistici si viene sostanzialmente a negare il diritto all’autotutela individuale (id est, al cd. rifiuto o eccezione di inadempimento).

 

2. Vengono ripescati e riaffermati  ad opera di Cass. 5 gennaio 2007, n. 43 (est. La Terza) vecchi ed isolati precedenti (Cass. n. 4572/86, Cass. 2095/94, Cass. 1912/98, Cass. 8268/04, Cass. 9290/04) per giungere ad asserire che: «Il giudice, ove venga proposta dalla parte l’eccezione inadimplenti non est adimplendum, deve procedere ad una valutazione comparativa degli opposti adempimenti avuto riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse; qualora rilevi che l’inadempimento della parte nei cui confronti è opposta l’eccezione non è grave ovvero ha scarsa importanza, deve ritenersi che il rifiuto di quest’ultima di adempiere la propria obbligazione non sia in buona fede e, quindi, non sia giustificato. Tale valutazione rientra nei compiti del giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se assistita da motivazione sufficiente e non contraddittoria».

In buona sostanza si introduce l’esigenza di dotarsi da parte del magistrato (e in precedenza da parte del lavoratore) di un “bilancino” virtuale, finalizzato a discernere se la reazione del rifiuto del prestatore pesa, sul piatto dell’immaginaria bilancia, di più ovvero di meno del provvedimento illegittimo datoriale. Con la conseguenza che se il provvedimento aziendale di demansionamento dovesse ipoteticamente pesare di meno, la reazione del prestatore sarebbe sproporzionata, quindi illegittima e pertanto sanzionabile. Ove il peso sarebbe designativo della scarsa o all’opposto incisiva importanza del provvedimento demansionante aziendale. Va immediatamente evidenziato – da parte nostra - che per il lavoratore l’assegnazione a mansioni deteriori viene sempre vissuta come incisivamente lesiva (quindi di grande importanza aggressiva per il proprio patrimonio professionale e ruolo sociale) mentre un terzo (quale il giudice, estraneo a quel contesto socio-aziendale) potrebbe ritenerla una vera e propria “bagatella”.

In conseguenza del rischio giudiziario cui il lavoratore potrebbe andare incontro – tramite una valutazione di natura cd.“bagatellare” o di scarsa importanza della dequalificazione – ne esce impedita in assoluto per il prestatore (che non voglia azzardare di subire un provvedimento di licenziamento in conseguenza di un rifiuto di prestazione, riscontrato a posteriori sproporzionato al vaglio giudiziario) la cd. autotutela. Il lavoratore, conseguentemente, non può che assoggettarsi alla disposizione aziendale (per lo meno temporaneamente), far presente al datore che il suo adeguarsi non concretizza acquiescenza di sorta e immediatamente promuovere la verifica giudiziaria.

Allo stato questo è il consiglio di chi scrive, dato che la salvaguardia del posto di lavoro - in un mercato ingessato e caratterizzato da elevata domanda di impiego per l’esistenza di alta disoccupazione - è primario interesse del lavoratore.

 

3. Naturalmente l’orientamento regressivo che abbiamo illustrato non si sta affermando senza giustificati dissensi in seno alla Corte di cassazione.

Recentissime decisioni costituite da Cass. 12 febbraio 2008, n. 3304 (est. Roselli)  e da Cass. 19 febbraio 2008, n. 4060 (est. Nobile),  hanno legittimato l’autotutela del lavoratore – tramite il rifiuto a prestare – affermando la prima: «Il rifiuto, da parte del lavoratore subordinato, di essere addetto allo svolgimento di mansioni non spettanti può essere legittimo e quindi non giustificare il licenziamento in base al principio di autotutela nel contratto a prestazioni corrispettive enunciato dall'art. 1460 cod.civ., sempre che il rifiuto sia proporzionato all'illegittimo comportamento del datore di lavoro e conforme a buona fede.

In una controversia caratterizzata da rifiuto di svolgere mansioni presuntivamente dequalificanti, è necessario accertare anzitutto la qualifica e le mansioni del dipendente al fine di stabilire se la lamentata modificazione di queste abbia dato luogo o meno ad un illegittimo esercizio dei poteri imprenditoriali. In ragione dell’affermazione non motivata di attribuzione da parte del datore di lavoro di mansioni dequalificanti al lavoratore, tali lacune della motivazione comportano la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio alla Corte d'appello di Roma in diversa composizione, la quale accerterà preliminarmente le mansioni svolte da S. all'atto del recesso e la qualifica ad esse corrispondente e valuterà quindi, adeguatamente motivando, se l'esecuzione della prestazione a questi richiesta ne pregiudicasse la dignità professionale».

E la seconda, più incisivamente, asserisce che: «Il giudice, ove venga proposta dalla parte l'eccezione "inadimplenti non est adimplendum", deve procedere ad una valutazione comparativa degli opposti adempimenti avuto riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull'equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse. Tale valutazione rientra nei compiti del giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se assistita da motivazione sufficiente e non contraddittoria (v. Cass. 16/5/2006 n. 11430, cfr. anche fra le altre Cass. 15/4/2002 n. 5444, Cass. 4/11/2003 n. 16530). In particolare, poi, con riferimento alla mancata ottemperanza da parte del lavoratore al provvedimento di trasferimento, giustificata quale attuazione di una eccezione di inadempimento, è stato anche precisato che "non si può ritenere che sussista una presunzione di legittimità dei provvedimenti aziendali, che imponga l'ottemperanza agli stessi fino a un contrario accertamento in giudizio" (v. Cass. 8/2/1999 n. 1074, Cass. 20/12/2002 n. 18209)».

Tuttavia non assolveremmo con correttezza il nostro compito informativo se non evidenziassimo che – a fronte della condivisibile e importantissima precisazione operata da Cass. n. 4060/2008 circa l’insussistenza di una presunzione di legittimità dei provvedimenti aziendali, tale da imporre al prestatore di adeguarvisi supinamente fino al momento di una verifica giudiziale – sono state in precedenza temporale emesse decisioni molto più restrittive e vanificatrici del diritto del lavoratore ad azionare il rifiuto (o eccezione di inadempimento).

Una di queste è Cass. 5 dicembre 2007, n. 25313 (est. De Matteis) – che in un contesto di enfatizzazione della tipologia del lavoratore “fungibile” o “versatile” [1] e quindi di superamento di quella che la decisione qualifica “equivalenza statica” ex art. 2103 c. c. che sarebbe destinata a cedere il passo alla cd. “professionalità potenziale” – è giunta altresì ad asserire che: «costituisce grave insubordinazione, come tale passibile del provvedimento disciplinare del licenziamento per giusta causa, il comportamento del lavoratore che si renda inadempiente, rifiutandosi di eseguire la propria prestazione, ritenendola estranea alla qualifica di appartenenza. Come statuito da Cass. 23 dicembre 2003 n. 19689, "l'eventuale adibizione a mansioni non rispondenti alla qualifica rivestita può consentire al lavoratore di richiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell'ambito di qualifica di appartenenza, ma non autorizza lo stesso a rifiutarsi aprioristicamente e senza un eventuale avallo giudiziario (che può essergli urgentemente accordato in via cautelare), di eseguire la prestazione lavorativa richiestagli, in quanto egli é tenuto a osservare le diposizioni per l'esecuzione del lavoro impartito dall'imprenditore ai sensi degli artt. 2086 e 2104 del c.c., da applicarsi alla stregua del principio sancito dall'art. 41 della Costituzione; solo in caso di totale inadempimento dell'altra parte, infatti, si può legittimamente invocare l'art. 1460 del c.c. e rendersi inadempienti”».

Pur non giungendo ad affermare la necessaria subordinazione del rifiuto del prestatore (in via di autotutela) all’esperimento del ricorso e dell’accertamento giudiziale, anche ex art. 700 c.p.c., si inscrive a buona ragione nello stesso orientamento della precedente, la recentissima Cass. 22 febbraio 2008, n. 4673 (est. Monaci), la quale si è così espressa: «Il rifiuto del lavoratore di adempiere alla propria prestazione può ritenersi giustificato soltanto di fronte ad un inadempimento altrettanto grave, di carattere totale, da parte del datore di lavoro; un inadempimento parziale, come quello relativo ad una illegittima assegnazione di mansioni non proprie, non può, invece, giustificare un rifiuto totale della prestazione lavorativa, perché, come pure ritenuto da questa Corte, "a seguito di una ritenuta dequalificazione di mansioni, non può il lavoratore rendersi totalmente inadempiente sospendendo ogni attività lavorativa, se il datore di lavoro assolve a tutti gli altri propri obblighi (pagamento della retribuzione, copertura previdenziale e assicurativa, assicurazione del posto di lavoro), potendo una parte rendersi totalmente inadempiente e invocare l'art 1460 c.c.. soltanto se è totalmente inadempiente l'altra parte, non quando vi sia controversia, eventualmente già sub iudice, solo su di una delle obbligazioni facenti capo ad una delle parti, obbligazione peraltro non incidente sulle immediate esigenze vitali del lavoratore." (Cass. civ., 7 febbraio 1998, n.1307; nello stesso senso, 23 dicembre 2003, n. 19689)».

Fa da corollario o da complemento a questa impostazione “sostanzialmente” inibente il ricorso all’autotutela in caso di demansionamento, Cass. sez. lav., 18 febbraio 2008, n. 4000, la quale  - cassando la Corte d’appello che aveva dichiarato dequalificanti le mansioni da operaio di produzione, rispetto alle pregresse di guardia giurata -, ha dichiarato invece legittima la nuova assegnazione. Non già giustificandola, in un’azienda che aveva esternalizzato il servizio di guardiania a ditta esterna, con la salvaguardia del posto di lavoro mediante ricollocazione delle proprie guardie giurate in mansioni inferiori o comunque non equivalenti di operaio di produzione, quanto sulla base della sorprendente affermazione secondo cui: «Se è vero che, ai fini della dequalificazione, il patrimonio professionale acquisito non deve andare disperso (Cass. 11.2.2004 n. 2649), è anche vero che il trasferimento ad un diverso settore lavorativo non implica di per sé dequalificazione, potendo richiedere un aggiornamento professionale e potendo rappresentare occasione per un ampliamento del bagaglio professionale (Cass. 2.5.2006 n. 10091) in un contesto in cui le mansioni sono alternative (Cass. SU, 24.11.2006 n. 25033). Solo quando le nuove mansioni siano decisamente dequalificanti (ad esempio da inserimento dati a fotocopiatura documenti e smistamento della posta) è possibile un giudizio di dequalificazione (Cass. 23.3.2005 n. 6326)».

All’affermazione di principio – che è emblematica del regresso cui stiamo assistendo (e documentando) e dell’indifferenza riservata al requisito dell’ equivalenza professionale ex art. 2103 c.c. – sono state opposte condivisibili osservazioni[2] che così suonano: « … ad avviso della Corte di cassazione, il giudice di appello avrebbe sostenuto la natura dequalificante delle nuove mansioni rispetto al servizio di guardiania, motivando nel senso della prevalente manualità del lavoro, senza mettere il lavoro asseritamene dequalificante a confronto col lavoro di guardiania precedente, laddove, operando tale confronto, non si può affermare che il nuovo lavoro sia atto a depauperare il bagaglio professionale dei lavoratori anziché arricchirlo di nuove competenze. L'affermazione della Corte di Appello in ordine ad una ritenuta dequalificazione "tout court" rimane quindi, per la Corte di cassazione, scarsamente motivata, apparendo piuttosto ispirata a una aprioristica valutazione di superiorità del lavoro di guardia giurata rispetto al lavoro manuale di operaio. In definitiva, la Corte ha concluso che solo quando le nuove mansioni siano decisamente dequalificanti (…) è possibile un giudizio di dequalificazione. Quel “decisamente” ci convince molto poco. Chi dovrebbe deciderlo e sulla base di quali parametri? Ci scusi la Cassazione, ma aprioristiche sono le motivazioni della propria sentenza e non quelle della Corte di Appello. Quella di guardia giurata è una qualifica che viene riconosciuta dal Prefetto a coloro che intendono esercitare un'attività di vigilanza e custodia su beni mobili o immobili. E’ richiesto questo per la qualifica di operaio?...». Ma, a parte questa considerazione (nient’affatto irrilevante né tantomeno trascurabile), va detto che se l’equivalenza riposa sul concetto di “affinità” e di “non disomogeneità” delle mansioni pregresse dalle successive, nella fattispecie in questione questa caratteristica fa platealmente difetto.

A ciò si aggiunga la considerazione di carattere generale che le mansioni sono caratterizzate dal requisito della cd. “contrattualità” (equivalente a immodificabilità non consensuale) recepita nell’art. 2103 c.c. (che l’ha addirittura suggellata all’ultimo comma con la nullità di eventuali patti contrari); contrattualità che il legislatore – in omaggio alle esigenze d’impresa ed agli sviluppi tecnologico-produttivi – ha, nell’art. 2103 c.c., attenuato attraverso la deroga eccezionale dell’assegnazione a mansioni differenti da quelle di assunzione (cd. ius variandi), purché ciò avvenga nel rispetto del requisito della “equivalenza” tra le precedenti e le successive. Se questa è la ratio legislativa insita nell’art. 2103 c.c., è del tutto illegittima l’operazione di ri-attribuire all’azienda la facoltà di stravolgere l’oggetto della prestazione di controparte a proprio piacimento, senza il rispetto rigido della cd. “equivalenza”. E’ pacifico che le mansioni di guardia giurata – preposta alla tutela del patrimonio e dotata di una specifica professionalità  improntata alla difesa e alla sicurezza ambientale - non hanno niente a che spartire con quella di operaio di produzione. Chi scrive – sia ben chiaro - non nutre nessun pregiudizio di superiorità delle mansioni non manuali rispetto alle manuali, ben sapendo – per esperienza di vita aziendale oltreché per sensibilità culturale – che la mansione dell’operaio è sicuramente più pregiata (socialmente ed economicamente) e più produttiva di quella di colui che si limita a compiti di attesa, vigilanza e custodia. Ma questa è la scelta insindacabile di chi si è proposto all’atto dell’assunzione all’azienda come guardia giurata e né l’azienda – quantomeno senza il consenso alla modifica – né la Cassazione possono stravolgere la sua libera scelta professionale, per mansioni diverse ed eterogenee, spacciandole per equivalenti.

Naturalmente non sono mancate prese di posizione di “controcanto”[3] – che ipotizziamo provenienti da chi presumibilmente vive ancora in ambito universitario-accademico ed è estraneo alla realtà delle nostre aziende – che hanno azzardato riscontrare compiacentemente una continuità giuridica tra le pregresse, corrette, statuizioni in tema di equivalenza e quelle recenti, giungendo ad affermare che:  «Si può quindi rintracciare una linea di continuità nelle ultime decisioni giurisprudenziali che dilatano l'indagine circa il generale divieto di variazioni in peius ai contenuti concreti delle mansioni precedenti e di quelle nuove: l’affidamento di mansioni differenti al lavoratore non può considerarsi un demansionamento soltanto ove risulti tutelato il patrimonio di conoscenze e competenze del lavoratore, anche nel senso che la nuova collocazione consenta al dipendente di utilizzare, ed anzi arricchire, il proprio patrimonio professionale acquisito con lo svolgimento della precedente attività lavorativa, in una prospettiva dinamica di valorizzazione della capacità di arricchimento del proprio bagaglio professionale». Che l’affermazione pecchi di impostazione “intellettualoide” – in relazione al caso di Cass. n. 4000/2008, commentato dall’autrice - non merita, in ragione dell’evidenza, di essere ulteriormente sottolineato. E’ pacifico, poi, che ogni mutamento di mansioni determini l’opportunità (rectius, la necessità) di apprendere un nuovo mestiere, ma se consideriamo un’occasione di arricchimento professionale l’inutilizzo delle pregresse conoscenze acquisite e la loro vanificazione per iniziare ex novo una diversa specializzazione o professionalità lavorativa (che si è forzati ad intraprendere), appare evidente che il ragionamento fuoriesce dai binari tracciati dal legislatore in tema di mansioni ed equivalenza professionale ex art. 2103 c.c.. Perché è un’astrazione inveritiera ed una contraddizione in termini l’affermazione di questi neofiti [4] e di quella isolata giurisprudenza di merito per la quale: «Occorre quindi tener sempre presente che rilevante (ai fini dell’equivalenza, n.d.r) è solo il fatto che i nuovi compiti, benché estranei a quelli svolti in precedenza, “realizzino un arricchimento del bagaglio professionale del lavoratore e non comportino la dispersione professionale dell'esperienza acquisita[5]”». Il che – nella fattispecie dell’assegnazione delle guardie giurate a mansioni di operaio di produzione – non è affatto rispettato. Ove l’errore di chi effettua queste affermazioni risiede tutto nell’asserire che compiti  esplicitamente riconosciuti e qualificati “estranei” alla pregressa professionalità siano compatibili con la nozione di equivalenza che intrinsecamente postula requisiti opposti, quali “omogeneità”, “affinità” e simili, caratteristiche che in esclusiva garantiscono immanentemente la conservazione (e non l’inutilizzo o la dispersione) della pregressa professionalità, anche in un’ottica di implementazione.

 

4. Da quanto sopra riferito esce un quadro indubitabilmente sconfortante, non sappiamo se per la pressione e la forza mediatica delle aziende o per  l’essere stata innescata una retromarcia in ordine alla tutela dei diritti di dignità professionale del lavoratori, da parte della magistratura superiore. Volendo azzardare una (presumibile) data d’ inizio di questa tangibile regressione, essa può essere individuata con quella di emissione della decisione di Cass. SU  24 marzo 2006, n. 6572 (est. La Terza), tramite la quale sono stati accollati al lavoratore per la risarcibilità del danno da demansionamento professionale due oneri:

a) quello – corretto - della prova del nesso di causalità dei danni lamentati (professionale, biologico, esistenziale, morale) in dipendenza diretta dalla dequalificazione;

b) quello addizionale – molto meno condivisibile, una volta provata l’esistenza del demansionamento e del nesso eziologico - in ordine allo specifico pregiudizio da risarcire (quantunque attenuato per il tramite anche delle presunzioni ex artt. 2727-2729 c.c.). In questo ambito, esemplificativamente, si richiede e si pretende che:

1) per il danno alla professionalità vada resa la prova dell’obsolescenza professionale, del depauperamento delle nozioni e cognizioni, della perdita delle attitudini e delle capacità decisionali e direttive, di formazione o addestrative del personale sottordinato, nonché di chances o opportunità realistiche di progressione di carriera (analoghe a quelle del collega di pari anzianità, mansione e qualifica e simili, sempreché la struttura organizzativa aziendale sia tale da agevolare una simile comparazione);

2) per il danno esistenziale vada resa la prova della modificazione peggiorativa delle pregresse e normali abitudini di vita e relazionali (documentando per testi, la perdita di interesse al contatto sociale, alle manifestazioni ricreative e culturali in senso lato, il disinteresse verso gli affetti coniugali e familiari, la sottoposizione a discredito - per cd. caduta di prestigio - aziendale ed extraziendale in conseguenza del demansionamento e della rimozione dal ruolo e simili);

3) per il risarcimento del danno biologico o pregiudizio inferto allo stato di salute vada attestata la patologia depressiva (o analoga) ad opera di relazione medico legale o tramite  certificazione medica specialistica, verificabile di solito dal magistrato attraverso nomina di CTU d’ufficio. Il danno morale essendo sofferenza interiore – cd. pretium doloris  non esteriorizzabile - viene desunto dal magistrato in relazione alla caratteristiche del caso concreto e liquidato con parametro compreso tra 1/3  e ½ del danno biologico.

Tornando all’esercizio del diritto “affievolito” di autotutela chi scrive – oltre ad auspicare un intervento chiarificatore dei dissensi da parte delle SU della Cassazione – suggerisce al lavoratore di “farsi giunco in attesa che la tempesta passi”, reiterando il suggerimento dato in precedenza. Nell’attuale contesto giurisprudenziale, innanzi delineato, il prestatore dovrà “flettersi” a fronte della pretesa aziendale (quantunque individualmente percepita e subita come illegittima), aver cura di indirizzare all’azienda comunicazione esplicita di adeguarsi solo per non incorrere nell’esercizio del potere disciplinare e contestualmente notificargli di aver adito la magistratura per il riscontro del comportamento illegittimo demansionante ed il ripristino della situazione antecedente o l’assegnazione ad altri incarichi di natura effettivamente equivalente.

 

Mario Meucci

Roma, 3 aprile 2008


 

[1] Per una critica  approfondita a tale orientamento si rinvia al Cap. IV, Parte prima, del nostro volume dal titolo Il rapporto di lavoro in azienda (Approfondimenti per orientarsi tra le sue questioni giuridiche più controverse), nelle librerie dal 2 aprile 2008, Ediesse ed., pp. 644 ed ivi a p. 84 e ss.

[2] Da A.T. Paciotti, al link: http://www.studiolegalelaw.it/new.asp?id=4182 .

[3] Tale è l’articolo di commento a Cass. n. 4000/2008 di A. Muratorio, dal titolo emblematico “Quando il demansionamento può diventare occasione di arricchimento del bagaglio professionale”, reperibile al link: http://www.personaedanno.it/site/sez_browse1.php?campo1=32&campo2=297 .

[4] Il riferimento è all’articolo di A. Muratorio, cit., nonché a quello di D. Loiacono, Un'interpretazione restrittiva della fattispecie di demansionamento, in D&G, 18.3 2008, la quale – ad onta del titolo adombrante un dissenso dal recente orientamento giurisprudenziale – giunge invece contraddittoriamente  ad esprimere una pacifica adesione allo stesso, accompagnata da implicita/esplicita critica verso la pregressa e consolidata interpretazione della nozione di equivalenza. Pur rendendosi conto – riprendendo una nostra precedente considerazione – del carattere strumentale della (nuova) impostazione della S. corte, in quanto «… un orientamento siffatto, con l'ancorare la professione a parametri incerti e in via di evoluzione (dinamici, si dice), potrebbe essere giustificato anche dal fine pratico di evitare il dilagare di richieste di danno da demansionamento, nonché da evitare il proliferare di fenomeni di autotutela da parte del lavoratore che sia adibito a mansioni che ritiene inferiori e dequalificanti». Infine affermando – con nostro dissenso - che in tema di equivalenza professionale:«… si può dire, rileva non solo quanto il lavoratore già fa, ma anche quello che sa fare. Ne consegue che come affermato dalla sent. Cass. Civ. n. 10091 del 2006, “l'esistenza, per così dire, di un ‘minimo comune denominatore’ di conoscenze teoriche e capacità pratiche è condizione necessaria e sufficiente a consentire che il dipendente sia in grado di svolgere le nuove mansioni con la preparazione posseduta. Anzi, il fatto di mutare ramo di attività, operando in settori diversi della medesima area professionale, permette finanche al lavoratore d'incrementare ed arricchire il bagaglio di nozioni sviluppato nella fase pregressa del rapporto"».

[5]  Così, Trib. Camerino 2 aprile 2007, in Lav. giur., 2007, 1044; Cass. 15 febbraio 2003, n. 2328, in Mass. giur. lav. 2004, 25; Cass. 4 agosto 2000, n. 10284, in Not. giurisp. lav., 2001, 47; Trib. Milano 30 maggio 1997, in Riv. crit. dir. lav., 1997, 789.

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