L’ampiezza di contenuto dell’art. 2087 cod.civ. secondo la Cassazione

 

 

1.      La decisione n. 1307 del 5 febbraio 2000 della Cassazione

2.      La situazione di fatto e i precedenti giudiziari di merito

3.      La decisione n. 8267 del 1 settembre 1997 della Cassazione

4.      La sentenza di rinvio emessa nel dicembre 1998 dal Tribunale di Foggia e la decisione n. 1307/2000 della Cassazione

5.      La decisione n. 4012 del 20 aprile 1998 della Cassazione in tema di misure aziendali “antirapina”nel settore bancario e di responsabilità per danni da scaturita malattia nervosa

 

 

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      1. La decisione n. 1307 del 5 febbraio 2000 della Cassazione

 

La decisione n. 1307/2000 della Suprema Corte (1) che qui si commenta, contiene una riaffermazione dell’ampiezza del contenuto dell’art. 2087 c.c.- relativamente al dovere di salvaguardia dell’integrità psico/fisica del prestatore di lavoro mediante l’approntamento datoriale delle misure (anche organizzative) più adeguate e tecnologicamente idonee allo scopo tutorio e prevenzionale – oltre a ribadire il già affermato principio della sussistenza di un obbligo datoriale di cooperare, secondo correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c., affinché il prestatore di lavoro possa adempiere la propria prestazione con risultati proficui e produttivi, corrisposti da un  conseguente apprezzamento del creditore/datore di lavoro e da parte dell’ambiente di lavoro.

La Suprema Corte ha dovuto affrontare il caso per ben due volte, primariamente nella decisione n. 8267 del 1 settembre 1997 (2) e, in ultima istanza, con l’attuale decisione n. 1307 del 5 febbraio 2000, riaffermante i principi di diritto della precedente.

 

2.  La situazione di fatto e i precedenti giudiziari di merito

 

Procediamo con ordine, descrivendo innanzitutto la situazione di fatto che ha determinato le prime e le seconde considerazioni della Suprema Corte.Un Capo Ufficio dell’Ente Autonomo Fiera del Levante di Bari, a causa della stressante attività cui aveva dovuto sottoporsi – per carenza di organico nell’Ufficio cui era preposto – al fine di fronteggiare il carico di lavoro del medesimo, attività che gli aveva comportato reiterata effettuazione di lavoro straordinario fino al limite (monte ore) annuo consentito contrattualmente delle 500 ore  e rinuncia ai periodi di  ferie annuali, era incorso in un infarto miocardico che la Consulenza Tecnica d’Ufficio aveva accertato essere causalmente conseguente allo stress accumulato. In conseguenza del danno alla salute aveva richiesto un risarcimento, per danno biologico, in misura di 50 milioni. Il Pretore di Bari, prima, ed il Tribunale di Bari, successivamente,  con sentenza risalente al 1994, avevano entrambi escluso il diritto del ricorrente al risarcimento del danno biologico. Al riguardo aveva argomentato il Tribunale di Bari, in sede di appello, che:

a) se nell’ufficio vi era un carico di lavoro esorbitante, rientrava nella discrezionalità aziendale  la scelta di dimensionare (o meno) l’organico dell’ufficio, giacché l’obbligo non poteva discendere da norme generali a tutela della salute del lavoratore;

b)il superlavoro (implicante straordinario e rinuncia alle ferie annuali) non era stato imposto al ricorrente dall’azienda ma era imputabile ad iniziativa volontaria (anche nell’ottica di fare carriera) del medesimo Capo Ufficio, a tutto concedere al suo senso di responsabilità.

Conseguentemente, era da escludersi qualsiasi responsabilità aziendale.

 

      3.      La decisione n. 8267 del 1 settembre 1997 della Cassazione

 

La Cassazione nella prima sentenza n. 8267/1997, censurava le argomentazioni del Tribunale di Bari, cui imputava di “poggiare su un’asserzione di assoluta irresponsabilità del datore di lavoro in ordine ai danni alla salute del lavoratore che dipendano da iniziative dallo stesso volte a sopperire a carenze di organico per mantenere il livello di efficienza del settore cui era addetto”. In buona sostanza, per realizzare i suoi obiettivi aziendali, l’imprenditore – secondo il Tribunale di Bari – sarebbe stato pienamente libero di dimensionare in maniera congrua l’organico dell’ufficio come pure di mantenere un organico inadeguato. Se a tale carenza sopperiscono volontariamente – e con la tolleranza non disinteressata dell’impresa – i pochi addetti all’ufficio, le conseguenze negative cui possono andare fisiologicamente incontro per stress sarebbero ascrivibili unicamente ai volenterosi e non all’imprenditore (che del  loro maggior impegno ha beneficiato).

Questo modo di ragionare non venne considerato -  da Cass. n. 8267/1997 - rispettoso dei principi dell’ordinamento giuridico, costituzionale e ordinario. In particolare dell’art. 41, 2°co., Cost., secondo il quale la libertà di iniziativa economica privata incontra l’imprescindibile limite di “non svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.

Nel caso di specie la norma costituzionale imponeva – per non porsi in contrasto con l’esigenza di tutela della sicurezza individuale, e cioè dell’integrità fisio/psichica dei lavoratori - che l’organico dell’ufficio venisse congruamente dimensionato al fine di evitare, giustappunto, quell’eccesso di impegno lavorativo che aveva, in forma causale (cioè a dire con nesso eziologico se non esclusivo, quantomeno concorrente o concausale), determinato il danno allo stato di salute.

Il limite  alla libertà imprenditoriale, contenuto nell’art. 41, 2° co., Cost., rappresentato dalla “sicurezza, libertà e dignità umana”,  si riflette – secondo la corretta impostazione di Cass. n. 8267/1997 -  sul potere direttivo e organizzativo aziendale (ex art. 2086 e 2104, 2° co., c.c.) nel senso che le misure organizzative ed i mezzi da apprestare per il lavoratore (affinché adempia la prestazione con diligenza, ex art. 2104, 1° co., c.c.) debbono essere congrui ed adeguati allo scopo.

Nel caso di specie l’inadeguatezza, suscitando il senso di responsabilità del prestatore di lavoro preposto ad un ufficio, gli aveva imposto un superlavoro, aggravato da una rinuncia reiterata al riposo annuale, in conseguenza del quale era disceso un danno alla salute. La fattispecie, già protetta dall’ art. 41, 2° co., c.c., occasionando il danno alla salute, riceve – sempre ad avviso di Cass. n. 8267/1997 -  la protezione rafforzata dell’art. 2087 c.c., secondo il quale “l’imprenditore è tenuto nell’esercizio dell’impresa ad adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Ne conseguì la dichiarazione - operata da Cass. n. 8267/1997 -  secondo cui “ il mancato adeguamento dell’organico che abbia determinato un eccessivo impegno da parte del lavoratore, ovvero il mancato impedimento di un superlavoro eccedente – secondo le regole di esperienza – la normale tollerabilità, con conseguente danno per la salute del lavoratore stesso, costituiscono violazione, oltre che dell’art. 41, 2° co., della Costituzione, della regola contenuta nell’art. 2087 c.c., con responsabilità contrattuale”.

Accogliendo il ricorso del lavoratore infartuato per disimpegno di superlavoro da carenza di organico nell’ufficio, la Suprema corte nel cassare la sentenza del   Tribunale di Bari – con la decisione n. 8267/1997 –  rinviò la causa al Tribunale di Foggia.

Al giudice di rinvio la Suprema Corte  assegnò il compito di applicare il principio di diritto secondo cui il potere imprenditoriale, volto alla massimizzazione della produzione, incontra un imprescindibile limite nella necessità di non arrecare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana e nel far sì che nell’attività di collaborazione richiesta ai dipendenti venga predisposta una serie di misure, oltre quelle legali, che appaiono utili a impedire l’insorgere o l’ulteriore deteriorarsi di situazioni patologiche idonee a causare effetti dannosi alla salute del lavoratore, ai sensi dell’art. 41 secondo comma Cost. e dell’art. 2087 cod. civ.

 

      4.      La sentenza di rinvio emessa dal Tribunale di Foggia nel dicembre 1998 e la decisione n.1307/2000  della Cassazione

 

Con sentenza depositata il 12 dicembre 1998 il Tribunale di Foggia, premettendo di volersi uniformare a tale principio, ha accolto la domanda del Capo Ufficio dell’Ente Fiera del Levante, ritenendo provata la sussistenza delle condizioni di superlavoro in cui aveva operato il dipendente nell’indifferenza dell’Ente datore di lavoro, sollecitato a ovviare alla insufficienza dell’organico. Il giudice del rinvio, inoltre, sulla base della consulenza tecnica medico-legale disposta dal Pretore, ha ritenuto che l’infarto subito dal prestatore di lavoro, nonostante la sussistenza di altri fattori di rischio, quali la familiarità ipertensiva, il fumo di 15 sigarette al giorno e la vita sedentaria, era da attribuire in via causale all’attività lavorativa intensa svolta dal lavoratore in concomitanza con l’omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di misure atte ad evitare tale effetto dannoso. Sulla base di tale premessa il Tribunale di Foggia ha riconosciuto la risarcibilità del danno biologico e ne ha determinato la misura nella complessiva somma di lire 300 milioni, oltre svalutazione monetaria e interessi quantificati nel 4% sulla somma rivalutata dal giorno dell’evento dannoso sino al saldo. In seguito a ricorso dell’Ente Fiera del Levante di Bari la causa è tornata davanti alla Suprema Corte che, con la sentenza che si commenta (n. 1307 del 5 febbraio 2000 ), ha rigettato l’impugnazione, in quanto ha ritenuto che il Tribunale di Foggia aveva correttamente motivato la sua decisione con riferimento sia all’inadempienza della datrice di lavoro all’obbligo di tutelare la salute del dipendente, sia alla esistenza di un nesso causale fra le abnormi condizioni di lavoro e l’infarto subito dal lavoratore, sia alla liquidazione del danno biologico.La Corte ha richiamato la sua giurisprudenza che ha ritenuto sussistente il danno biologico del lavoratore in relazione all’inosservanza dell’obbligo del datore di lavoro di non  operare dequalificazioni offensive della dignità del prestatore (art. 41 Cost.) ed addizionalmente lesive del diritto alla salute (art. 32, primo comma Cost.) e produttive di danni psico/fisici in diretta ed immediata  conseguenza della dequalificazione (3). La Corte ha altresì ricordato la sua giurisprudenza che, in tema di infortuni sul lavoro, ha ritenuto sussistente la responsabilità del datore di lavoro per il danno biologico, inteso come menomazione dell’integrazione psico-fisica, subita dal lavoratore e valutabile monetariamente in modo autonomo rispetto al danno morale e alla vita di relazione causati dal reato (Cass. 4.10.1994 n. 8054; Cass. nn. 3510 e 7636 del 1996). Infine la Corte ha ribadito i principi, già affermati nello stesso processo con la sentenza n. 8267 del 1997 secondo cui: “In ottemperanza al precetto costituzionale di cui all’art. 41 secondo comma Cost. il datore di lavoro non può esimersi dall’adottare tutte le misure necessarie, compreso l’adeguamento dell’organico, volte ad assicurare livelli competitivi di produttività, senza, tuttavia, compromettere l’integrità psico-fisica dei lavoratori soggetti al suo potere organizzativo di dimensionamento delle strutture aziendali. Pertanto l’accettazione da parte del lavoratore di un lavoro straordinario continuativo, ancorché contenuto nel c.d. “monte ore contrattuale massimo”, o la rinuncia a un periodo feriale effettivamente rigenerativo dell’impegno lavorativo non possono esimere il datore di lavoro dall’adottare tutte le misure idonee a tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore, comprese quelle intese ad evitare eccessività di impegno da parte di un soggetto che è in condizioni di subordinazione socio-economica. L’eventuale concorso di colpa del lavoratore non ha efficacia esimente per il datore di lavoro che abbia omesso le misure atte ad impedire l’evento lesivo, restando egli esonerato da ogni responsabilità soltanto quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dell’abnormità, dell’inopinabilità e dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute”.Nella specie – ha precisato Cass. n. 1307/2000 - si verte in materia responsabilità contrattuale nascente dall’inosservanza di un obbligo preesistente del datore di lavoro, previsto dalla Costituzione come limite al diritto di libertà all’iniziativa privata nell’esercizio dell’impresa (art. 41 primo e secondo comma Cost.).Tale limite si sostanzia nell’obbligo di non recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana e, posto in relazione all’art. 32 primo comma Cost. e all’art. 2087 cod. civ., nell’obbligo del datore di lavoro, costituzionalmente imposto, di adottare tutte le misure necessarie a tutelare la integrità fisio-psichica del lavoratore. L’inadempimento di tale obbligo deve essere dimostrato dal lavoratore che chiede il risarcimento del danno biologico. Una volta, però, dimostrata la sussistenza dell’inadempimento, non occorre, a norma dell’art. 1218 c.c., che il lavoratore dimostri, come invece nella responsabilità extracontrattuale, anche la sussistenza della colpa del datore di lavoro inadempiente. Su quest’ultimo infatti, incombe l’onere di provare che l’evento lesivo dipenda da un fatto a lui non imputabile e cioè da un fatto che presenti i caratteri dell’abnormità, dell’inopinabilità e dell’esorbitanza in relazione al procedimento lavorativo e alle direttive impartite. Tali caratteristiche non sono state affatto riconosciute ricorrenti nel caso dell’infarto miocardico subito dal Capo Ufficio dell’Ente Fiera del Levante di Bari rivestente qualifica (non di “dirigente” ma) di  “quadro” -  soggetto pertanto ad integrale subordinazione socio/economica al datore di lavoro  e privo (a differenza del “dirigente”) della discrezionalità di scelta degli orari di lavoro e dell’autonomia  in ordine ai metodi da adottare per il conseguimento degli obbiettivi aziendali – conseguente causalmente al superlavoro svolto, anziché ad altri fattori di rischio (richiamati dalla difesa datoriale) quali il fumo di 15 sigarette al giorno, l’ipertensione familiare e la vita sedentaria (connaturata al lavoro stesso), suscettibili semmai di possedere mero valore concausale.

 

 5.   La decisione n.4012 del 20 aprile 1998 della Cassazione in tema di misure aziendali “antirapina” nel settore bancario e di responsabilità per danni da scaturita malattia nervosa

 

Per connessione di problematica – in tema di contenuto dell’obbligo datoriale, ex art. 2087 c.c., di predisporre le misure necessarie a tutela dell’integrità psico/fisica del lavoratore e di conseguenti responsabilità per danno biologico e morale – va menzionata Cass. 20 aprile 1998, n. 4012 (4), afferente la fattispecie di un lavoratore bancario colpito da grave malattia nervosa per essere rimasto coinvolto in tre rapine nel luogo di lavoro, successivamente licenziato per superamento del periodo di comporto per malattia o comunque per sopravvenuta inidoneità all’espletamento delle mansioni.

Questo dipendente della Banca Popolare Pugliese con qualifica di funzionario – dopo essere stato licenziato – chiese al Pretore di Lecce, tra l’altro, la condanna dell’ex datrice di lavoro al risarcimento del danno biologico, patrimoniale e morale per malattia nervosa derivatagli dall’essere rimasto coinvolto in tre rapine a mano armata poste in essere da malavitosi presso la Filiale di Guagnano alla quale era addetto. In particolare egli mosse alla Banca l’addebito di non aver adottato sufficienti misure di sicurezza, essendosi limitata a munire i locali di doppia porta con metal detector, senza provvedere al servizio di vigilanza armata. La Banca si difese sostenendo di essersi attenuta alle previsioni di un accordo integrativo aziendale che, quale misura di sicurezza, prevedeva in particolare l’installazione di doppie porte con metal detector. Il Pretore accolse la domanda del lavoratore, condannando la Banca al pagamento della somma di 166 milioni oltre accessori a titolo di risarcimento del danno biologico e di quello patrimoniale. L’importo venne elevato poi a 304 milioni, in sede di appello, dal Tribunale di Lecce che gli riconobbe anche il danno morale. Sia Il Pretore che il Tribunale ritennero che la Banca avrebbe dovuto disporre anche il piantonamento diurno con guardia giurata, nonché installare un sistema di allarme collegato con istituti di vigilanza o con le forze dell’ordine, in quanto la previsione dell’accordo integrativo aziendale venne considerata “quale misura minima comunque inderogabile”, non esonerativa “dell’ obbligo datoriale  di adottare tutte le misure idonee a prevenire atti criminosi, e cioè  di un impegno addirittura superiore all’onere dell’ordinaria diligenza  che, ai sensi degli artt. 2043 e 1176 c.c., segna il limite della responsabilità per danni”.

La Cassazione nella decisione n. 4012 del 20 aprile 1998 – nel rigettare il ricorso proposto dalla Banca – ha richiamato a sostegno delle proprie argomentazioni (che di seguito esporremo) la sua precedente decisione n. 5048 del 1988 e la sentenza della Corte costituzionale n. 399 del 1996.

La Cassazione ha  asserito che “l’art. 2087 c.c. abbraccia ogni tipo di misura utile a garantire il diritto soggettivo dei lavoratori ad operare in un ambiente esente da rischi”, così come posto in rilievo dalla Corte costituzionale nella precitata sentenza n. 399/1996, secondo cui: “la salute é un bene primario che assurge a diritto fondamentale della persona ed impone piena ed esaustiva tutela, tale da operare sia in ambito pubblicistico che nei rapporti di diritto privato…La tutela della salute riguarda la generale e comune pretesa dell’individuo a condizioni (di vita, di ambiente e) di lavoro che non pongano a rischio questo suo bene essenziale”. Conseguentemente “non sono soltanto le norme costituzionali (artt. 32 e 41) ad imporre ai datori di lavoro la massima attenzione per la protezione ella salute e dell’integrità fisica dei lavoratori…L’art. 2087 del codice civile stabilisce che l’imprenditore é tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure che, secondo l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro” (Corte cost. n. 399/1996).

La Cassazione, nella sentenza in commento, prosegue affermando che:“Coerentemente, in adempimento del principio della massima sicurezza “tecnologicamente possibile” vigente nel nostro ordinamento ai sensi del più volte citato art. 2087 c.c. (peraltro, di recente riaffermato dal d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626), secondo cui la sicurezza non può essere subordinata a criteri di fattibilità economica o  produttiva (Cass. sez .pen. 9 gennaio 1984, in causa Gorla), lo stesso datore di lavoro è tenuto a trovare le misure sufficienti a conseguire il fine della protezione della salute e dell’integrità fisica dei propri dipendenti in modo conforme al principio direttivo costituzionale dell’art. 32.

Gli obblighi che l’art. 2087 c.c. impone all’imprenditore in forma di tutela delle condizioni di lavoro non si riferiscono soltanto alle attrezzature, ai macchinari e ai servizi che il datore di lavoro fornisce o deve fornire, ma si estendono, nella fase dinamica dell’espletamento del lavoro, anche “all’ambiente di lavoro, in relazione al quale le misure e le cautele da adottarsi dall’imprenditore devono prevenire sia i rischi insiti in quell’ambiente, sia i rischi derivanti dall’azione di fattori ad esso esterni e inerenti al luogo in cui tale ambiente si trova( così Cass. n. 940/1995).

Sempre nella sentenza  in commento, la Cassazione afferma: “In questi termini, va quindi condiviso il canone interpretativo suggerito dalla sentenza n. 5048/1988, laddove si è affermato che “l’art. 2087, per le sue caratteristiche di norma aperta, vale a supplire alle lacune di una normativa che non può prevedere ogni fattore di rischio, ed ha una funzione, sussidiaria rispetto a quest’ultima, di adeguamento di essa al caso concreto”, senza che ciò costituisca “strappi ai principi”, poiché il dovere di protezione (dei lavoratori) che grava sull’imprenditore – collegato, del resto, al rischio d’impresa – comporta che debba essere lo stesso imprenditore a valutare se l’attività della sua azienda presenti rischi extra-lavorativi “di fronte al cui prevedibile verificarsi insorga il suo obbligo di prevenzione”, giusta il principio per cui ciascun datore, in riferimento alla particolarità del lavoro, da una parte, ed all’esperienza e alla tecnica, dall’altra, deve nella rappresentazione dell’evento (prevedibilità) prospettare a se stesso l’adozione delle misure ( e, dunque, di tutte le misure) più consone e più aggiornate, al fine di scongiurare la sua realizzazione (prevedibilità).

Prosegue quindi la Cassazione asserendo: “Ne consegue che, proprio alla stregua dei dati di esperienza, il suddetto obbligo “avrà un contenuto non teorizzabile a priori, ma ben individuabile nella realtà alla luce delle tecniche di sicurezza comunemente adottate” (così, Cass. n. 5048/1995). Trattasi, evidentemente,  di una obbligazione ex lege  accessoria e collaterale rispetto a quelle principali proprie  del rapporto di lavoro, involgente, quindi, la diligenza nell’adempimento ex art. 1176 c.c. (cfr. Cass. n. 7768/1995), “eventualmente correlata alla natura dell’attività  esercitata, e comunque improntata nella sua esecuzione a quei criteri di comportamento delle parti di ogni rapporto obbligatorio costituiti, ex art. 1175 e 1375 c.c., dalla correttezza e buona fede, oramai ampiamente valorizzati dalla giurisprudenza” (così, Cass. n. 5048/1988 e Cass. n. 7768/1995).

Ed al riguardo la Suprema corte asserisce che: “Con specifico riferimento all’attività bancaria, il contenuto degli obblighi a tutela dell’integrità fisica dei dipendenti deve, dunque, essere individuato nella predisposizione  di misure e mezzi di sicurezza idonei a salvaguardare detti prestatori da possibili danni. Rischi e mezzi di tutela, tenuti del resto ben presenti dalle parti (sociali) contrattuali, alla cui attenzione già da tempo è dedicata, dai contratti collettivi di categoria (che generalmente rimettono ai contratti integrativi aziendali la concreta attuazione),la trattazione della relativa problematica; con ciò potendosi ritenere ormai acquisito, anche nel convincimento delle parti sindacali, la sussistenza di quel rilevante rischio per i dipendenti da azioni criminose di terzi, che giustifica, in definitiva, l’applicazione dell’art. 2087 c.c.

Onde deve ritenersi che il datore di lavoro, il quale in una simile situazione di rischio prevedibile ed accertabile alla stregua dei comuni criteri di diligenza“o addirittura disciplinata in sede collettiva nazionale o aziendale”, non abbia predisposto gli adeguati mezzi di tutela, debba rispondere ex art. 2087 c.c. dell’evento lesivo nei confronti del dipendente (così Cass. n. 5048/1988). Dovendo, infatti, il datore di lavoro ispirare la sua doverosa condotta alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza per fare in modo che il lavoratore sia posto nelle condizioni di operare con assoluta sicurezza, atteso che l’art. 2087 c.c. stimola obbligatoriamente il datore di lavoro ad aprirsi alle nuove acquisizioni tecnologiche (Cass. pen. 29 aprile 1994, Giust. Pen. 1995, II, 505).

Allorquando ricorra un tale inadempimento del datore di lavoro, le conseguenze  della malattia o dell’infortunio del dipendente, che abbiano origine e trovino causa in detto inadempimento, dunque, debbono essere sopportate dallo stesso datore, per essere stato egli, appunto, inadempiente all’obbligazione contrattuale a lui facente carico ai sensi dell’art. 2087 c.c., giacché l’impossibilità della prestazione  lavorativa è imputabile al comportamento illecito della stessa parte cui detta prestazione è destinata (Cass. n. 3559/1984; Cass. n. 4723/1994; Cass. n. 6601/1995; Cass. n. 3751/1996)”.

Va peraltro sottolineato come oltre al riconoscimento del danno biologico e del danno patrimoniale – conseguente alla grave malattia nervosa contratta in conseguenza delle rapine -  la Cassazione,  confermando la decisione del Tribunale, ha riconosciuto (nella sentenza in commento) al ricorrente anche il danno morale. Al riguardo ha ritenuto infondata l’eccezione della difesa della Banca – secondo cui tale richiesta costituiva  un nuovo petitum avanzato in sede di appello – in quanto, come correttamente rileva la Corte di Cassazione nella decisione in questione, il ricorrente aveva fin dall’inizio richiesto nel ricorso “l’affermazione della responsabilità della Banca Popolare Pugliese per tutti i danni patrimoniali e morali derivanti dalla dedotta violazione dell’obbligo di sicurezza previsto dall’art. 2087 c.c.”

Ha quindi concluso la Suprema Corte sul punto, affermando che “su tale indiscutibile presupposto si è conseguentemente determinato a condannare la stessa banca a risarcire i danni morali subiti dal lavoratore, osservando (correttamente e coerentemente con principi ripetutamente affermati dalla giurisprudenza, puntualmente richiamati nella decisione ora gravata) che non può escludersi “il rilievo anche penale della colpa per mancata adozione delle misure di sicurezza obbligatorie ex art. 2087 c.c., colpa posta a fondamento della responsabilità civile riconosciuta in sentenza” (v. Cass. pen. sez IV, 8 marzo 1988, Corbetta; Cass. pen. sez. IV, 13 gennaio 1989, Marocco)”. E da siffatta premessa, lo stesso giudice di appello è pervenuto all’esatta conclusione che le lesioni colpose costituiscono proprio quella fattispecie criminosa tipica, procedibile d’ufficio, (art. 590 c.p.), che giustifica il risarcimento dei danni morali (art. 2059 c.c. e 185 c.p.)”.

L’affermazione soprariferita è estremamente significativa, giacché abilita i lavoratori che subiscono pregiudizi alla salute (in forma di disturbi neurologici a sfondo depressivo, di sindromi DAP cioè strutturate da d’attacchi di panico con agorafobia,  di malattie cardiovascolari, e simili) tali da configurare il reato di lesioni colpose ex art. 590 c.p. – in conseguenza causale di  violazione della norma dell’art. 2087 c.c. o dell’art. 2103 c.c., afferente il divieto di dequalificazione e di emarginazione riscontrabile nelle pratiche di mobbismo o bossismo aziendale – a richiedere non solo il risarcimento del danno biologico ma anche dei danni morali ricollegabili al riscontro d’ufficio del reato di lesioni personali colpose.

Resta naturalmente autonoma e praticabile disgiuntamente l’azione penale (diversa da quella risarcitoria per i danni morali) nei confronti dei responsabili aziendali (superiori) e/o dei colleghi “mobber” (responsabili di aver posto in essere pratiche vessatorie ed emarginanti, determinative di dequalificazione e forzata inattività, fonte di pregiudizi alla salute) ai fini dell’assoggettamento  alle pene restrittive della libertà personale ex art. 590 c.p.

 

 

Mario Meucci

(pubblicato su Lav. prev. Oggi 2000, n. 4, p. 828)

 

 

NOTE

(1) In Lav. Prev. Oggi 2000,  pag. 818.

(2) In  Lav. Prev. Oggi 1998 a pag. 367 ed ivi a pag. 386 la  nota di Mario Meucci dal titolo “Sugli obblighi di cooperazione datoriale per il corretto espletamento della prestazione”.

(3) Cfr. Cass. 24.1.1990 n. 411, in Lav. Prev. Oggi 1990, n.12, 2387 con  nota di Mario Meucci dal titolo “Condotta illegittima datoriale e danno psichico al lavoratore”.

(4) In Riv. it. dir. lav. 1999, 326 con nota di Mautone dal titolo “Sul contenuto dell’obbligo di prevenzione delle rapine a carico dell’istituto di credito e sulle conseguenze del suo inadempimento”.

 

 

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