Lo sconfinamento nel divieto di indagini sulle opinioni
 
1.Un’importante decisione, ancora attuale
 
Un decreto emesso dal Pretore di Pisa oltre dieci anni fa (in data 30 marzo 1999, leggibile in  Riv. crit. dir.lav. 1999, 519) nel corso del procedimento ex articolo 28 Statuto dei lavoratori - tramite il quale vennero riscontrate in contrasto con l'articolo 8 dello Statuto dei lavoratori le domande contenute in test attitudinali sottoposte dall’allora Ferrovie dello Stato a dipendenti frequentanti un corso di formazione –  ci è apparso a tutt’oggi d’indubbio interesse.
Riteniamo pertanto che meriti di essere illustrato ai lettori perché similari o identiche metodologie di gestione del personale, a sfondo psico-sociologico, vengono non infrequentemente poste in essere, nel corso di programmi di formazione aziendale (internamente o esternamente gestiti) o di indagini motivazionali curate dall’azienda o commissionate a terze agenzie, “scimmiottando” tecniche “anglo americane” d’importazione, risalenti all’epoca degli anni 60. Al tempo stesso ci offre l’occasione per una disamina – attraverso un caso concreto e quindi dal vivo  – del contenuto dell’art. 8 dello Statuto dei  lavoratori, rubricato “Divieto di indagini sulle opinioni”.
Nel caso di specie, al magistrato pisano si era rivolto, unitamente ad una Rsu, il sindacato provinciale della Federazione dei lavoratori del settore trasporti della di una delle OO.SS. - l'unico legittimato ex articolo 28 Statuto dei lavoratori all'azione relativa – il quale lamentava un presunto comportamento antisindacale posto in essere dalle FF.SS. dell’epoca tramite la sottoposizione (ai frequentanti un corso di formazione) di tests attitudinali (o psico attitudinali) contenenti domande di carattere privato, afferenti la sfera dei convincimenti personali dei lavoratori o delle opinioni in senso lato, che niente avevano a che vedere con le modalità di conferimento effettivo (o potenziale) della prestazione lavorativa. Apparivano invece finalizzate a scandagliare - secondo un grezzo sistema di intrusione nella privacy mutuato dalle multinazionali angloamericane - gli aspetti intimi del comportamento extralavorativo ed i personali, privati, convincimenti del dipendente.
La motivazione di quel decreto giunse così a stabilire: «Il divieto dell'articolo 8 dello Statuto dei lavoratori intende realizzare una regola ben precisa che è quella di tenere fuori dalla fabbrica le questioni personali: il datore di lavoro, o chi per lui, non può - quindi - utilizzare come elementi di giudizio (sia nella fase genetica sia nella fase funzionale del rapporto) quanto non serva a valutare la capacità professionale del suo dipendente che - in linea di massima - può essere un disordinato nella vita familiare, un agitato nella vita collettiva, un epicureo, un esuberante, un timido, un introverso, un estroverso, un istintivo, o quel che si vuole, senza che ciò debba interessare a chi abbia solo diritto ad una mera prestazione lavorativa.  La sottoposizione di gruppi di dipendenti delle FF.SS. ad un test psico/attitudinale - comportante la risposta a numerose domande concernenti aspetti privatissimi della personalità ed in qualche caso miranti anche a cogliere la propensione conflittuale o, invece, collaborativa dei dipendenti - integra la violazione dell'articolo 8 S.d.l. Detto articolo è,  a maggior ragione, violato, ove si consideri che ai candidati non viene reso noto il criterio di valutazione delle risposte, che la (mancata)  partecipazione al test - pur non essendo obbligatoria - deve essere giustificata e che non è imposto l'obbligo dell'anonimato.  Non sono ravvisabili, tuttavia, in tale sottoposizione a test – quantunque finalizzato ad accertare, illecitamente, le opinioni sulle istanze collettive dei lavoratori - gli estremi della condotta antisindacale ex articolo 28 S.d.l. Gli atti del procedimento debbono, tuttavia, essere trasmessi all'autorità penale competente per l'eventuale esercizio dell'azione penale ex articoli 8 e 38 S.d.l.».
 
2. L’indagine vietata su fatti o convincimenti non professionalmente rilevanti
 
Chi scrive si è trovato di fronte, nella propria pregressa esperienza (anche) di gestione del personale, all'applicazione di queste metodologie anglosassoni da parte delle consociate italiane di multinazionali americane - tenute ad adottare le politiche gestionali del personale delle Case madri, salvo i necessari adattamenti all'ordinamento del Paese di applicazione - e si è dovuto letteralmente “sgolare” con gli psico-sociologi responsabili dei settori della selezione e formazione del personale (tradizionalmente privi di qualsiasi cognizione giuslavoristica ed anzi ad essa ostili per una particolare formazione mentale) per far loro capire che dai vecchi questionari d'assunzione contenenti domande "private" (afferenti gli hobbies, l'adesione o meno a club o associazioni, l'uso del tempo libero, lo status di coniugato o di single, ecc.) dovevano essere espunti, dopo l'entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori, tutti i soprariferiti quesiti così come si doveva fare la massima attenzione nella (anzi era da evitare, per sicurezza, la) effettuazione delle c.d. surveys o "indagini motivazionali" sulla soddisfazione nel lavoro o sul "clima aziendale" implicanti giudizi sulla gestione aziendale. Giustappunto perché tramite tali indagini (se non rigidamente assistite dalla garanzia dell'anonimato) si sconfinava nella violazione dell'art. 8 dello Statuto dei lavoratori (ed ora, in vigenza prima della l. n. 675/’96 e poi del d.lgs.n. 196/2003 – cd. codice privacy - a maggior ragione nella violazione della normativa sulla privacy).
Contro lo scetticismo dei direttori generali e degli amministratori delegati, fu sufficiente all’epoca renderli edotti delle prime decisioni pretorili degli anni '70 della magistratura milanese, tra cui ricordiamo, per tutte, il decreto ex art. 28 emesso dalla Pretura di Milano in data 7 febbraio 1974 [1], secondo cui: «Contravviene al divieto di indagini sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore o su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell'attitudine professionale del lavoratore, il datore di lavoro che,  all'atto dell'assunzione, sottoponga una 'domanda d'impiego' con cui vengono chiesti i dati concernenti la condizione personale di divorziato o separato, la precisazione, in riferimento agli obblighi militari, dell'arma e del grado di appartenenza, nonché, per l'opposto, l'eventuale motivo del non assolvimento del servizio militare, la dichiarazione se il precedente datore di lavoro è al corrente delle intenzioni del candidato di mutare lavoro, le referenze morali con l'indicazione di tre persone non di famiglia che conoscano l'aspirante 'intimamente' da almeno 5 anni, i passatempi, le attività sportive con la dichiarazione di appartenenza ad 'associazioni tecniche, commerciali, etc.', la dichiarazione se mai detenuto per inosservanza di legge ('eccetto violazioni di minore importanza al codice della strada') o coinvolto in processi penali, da specificarsi in caso positivo, ed altre eventuali informazioni».
Il timore di tali dirigenti apicali di far incorrere, all’epoca[2], il legale rappresentante nel reato penale ex art. 38 S.d.l. - con le connesse ritorsioni sui malaccorti, refrattari ai consigli degli specialisti giuslavoristi - fu sufficiente a farli orientare, più per panico che per convinzione, verso comportamenti di rispetto della personalità e della privacy dei dipendenti o dei candidati all'assunzione, non senza sentirli inveire contro la "ventata progressista" e contro gli insopportabili "pretori d'assalto".
Il caso esaminato nel 1999 dal magistrato pisano mette in luce come molte aziende italiane di retroguardia siano arrivate a sperimentare tali metodologie con ritardo, ovvero che il tempo trascorso dall'emanazione dello Statuto dei lavoratori ha fatto dimenticare ai loro gestori quello che professionisti dell'area del personale dovrebbero masticare come "pane quotidiano": le cognizioni giuridico-lavoristiche. Ovvero, più realisticamente, che, nella loro ventata di "managerialità" privatistica, si erano affidate a sprovveduta società di consulenza (ad esclusivo indirizzo psico-sociologico) senza filtrarne le proposte applicative e vagliarle dal lato giuslavoristico.
Fatto sta che le FF.SS. dell’epoca sottoposero a loro dipendenti (esplicanti prevalentemente mansioni tecnico/specialistiche) - sotto forma volontaria, ma non pretendendone l'anonimato cosicché vennero di fatto meno le garanzie di non conoscibilità nominativa dei compilatori - tests attitudinali, rectius veri e propri sondaggi d'opinione, strutturati da domande che – come dice il magistrato in sentenza -  «concernono aspetti privatissimi della personalità del dipendente e, in qualche caso, mirano anche a coglierne la propensione conflittuale o, invece,  collaborativa». 
La sentenza evidenzia come, nel caso di specie, ci si sia imbattuti eminentemente in domande subdole, con chiave di lettura "psicologica" (neppure tanto incomprensibile, come il giudice sottolinea), da parte dei promotori del test e non già di fronte alle vecchie, grossolane "schedature" – sulle affiliazioni ai partiti o sindacati, sulle propensioni politico-ideologiche, sul tenore o reddito familiare, sulla frequentazione di persone o circoli, ecc. - riscontrate e riferite in maniera più plateale di altri da Pret. Treviso 28 maggio 1977[3], che fecero dire all'estensore della nota redazionale (a pag. 457 di Riv. giur. lav.  1977, IV):«Che a sette anni dall'entrata in vigore dello Statuto dei diritti dei lavoratori si siano potute accertare prassi di maliziose od indebite ingerenze nella vita e nelle opinioni personali dei lavoratori dell'entità e della diffusione di quelle riscontrate dal pretore di Treviso, è fatto che, ben più che solo stupire o indignare, deve far riflettere sulla lentezza con la quale precetti di grande valore civile riescono sovente a penetrare nell'ambito dei rapporti tra le parti sociali ed all'interno del costume. C'è da sperare piuttosto - attesa la scarsità di precedenti in tema di violazioni all'art. 8 S.L. - che le cennate prassi siano, pur nella loro accertata cospicuità e durevolezza, frutto di specifiche arretratezze culturali di limitati settori del mondo imprenditoriale e non invece - come pure alcuni elementi lascerebbero arguire - caratterizzate da perdurante diffusione topografica e solo velate da una pericolosa ma spiegabile carenza di iniziative, private o pubbliche,  individuali o collettive, dirette a combatterle».
 
3.La pretesa datoriale di una autorealizzazione nel solo lavoro aziendale
 
Peraltro la maggiore ricercatezza dello strumento usato - favorita invero dai circa 30 anni decorsi dalla promulgazione della legge n. 300/’70 - non si risolve in un attenuante per i promotori dell'indagine sulle opinioni dei dipendenti delle FF.SS. dell’epoca, di cui fece bene il magistrato a lumeggiare l'illiceità per l'assoluta irrilevanza con le modalità di resa della prestazione oltreché per la (incondivisibile) rispondenza della ratio dei tests ad una visione "panaziendalistica", "assorbente" o "totalizzante" del valore del lavoro e dell'impresa, tale da soverchiare o comprimere qualsiasi interesse o libertà da esercitare nel privato.
È una concezione che si vorrebbe affermare, dato che - come asserì il magistrato - «circola ed anche con un certo (qui non condiviso) successo l'opinione sempre più radicata di una sorta di identificazione fra la persona in sé e la persona/lavoratore, secondo istanze panaziendalistiche,  fortemente suggestive, che pretendono di versare nel lavoro quotidiano  (spesso solo faticoso e noioso) la complessa personalità dell'individuo,  quasi che nella vita aziendale si dovesse esaurire (se non nei tempi,  quanto meno nella dedizione) ogni istanza di aspirazione individuale».
In effetti le domande da cui risulta (dalla decisione) strutturato il test in questione, miravano a conoscere se "sui treni ci si sente realizzati  (sic!); se "il lavoro è sentito come sola fonte di reddito"; se "concorrenza, mercato ed innovazione sono vocaboli di una lingua sconosciuta al nostro management"; se "il vertice delle FF.SS., merita la pensione, la fiducia o consenso e sostegno"; se "andare a cena con un dirigente delle FF.SS. è gratificante"; se "le FF.SS siano una seconda casa"; se "i comportamenti ribelli suscitano simpatia"; se "alla guida delle FF.SS. ci siano o meno persone inadeguate"; "se teorizzare sia una perdita di tempo"; quanto si attagli al soggetto la frase dell'essere "molto attivo nelle discussioni di gruppo" o di essere di solito "l'anima della festa". Domande queste ultime che il magistrato individuò finalizzate a rivelare la possibile posizione di leader delle istanze collettive dei lavoratori ovvero l'atteggiamento collaborativo, succube ed acquiescente in luogo di quello conflittuale e combattivo per i propri principi, diritti e convincimenti. 
In ogni caso il test venne dalla sentenza riscontrato come un’indebita forma di penetrazione nell'intimità dei convincimenti dei lavoratori, di cui si ignorava l'uso da parte delle vecchie FF.SS.,  non consentiti dall'art. 8 della l. n. 300/'70 che - prima della l. n.  675/'96 - ha tutelato la privacy del cittadino (lavoratore) e che dalla stessa ha ricevuto conferma di perdurante vigenza ed attualità. 
La critica dispiegata alla concezione panaziendalistica,  richiama alla nostra memoria un'altra decisione, stavolta della Pretura di Lecce [4],  che si occupò di un caso di discriminazione sessuale concernente una lavoratrice madre, funzionario responsabile dell'Ufficio economico della locale associazione degli industriali, licenziata al rientro dalla maternità per redistribuzione del suo lavoro fra i restanti colleghi (ma sostanzialmente perché aveva fatto la scelta della maternità in luogo di quella totalizzante della carriera!), di cui ci piace riportare, anche per questa, almeno uno spezzone delle civilissime considerazioni svolte dal giudice leccese che decise, per riscontro di discriminazione indiretta in violazione della l. n. 125/'91, la reintegrazione nel posto di lavoro del funzionario in questione.
Nella motivazione di quella sentenza si legge quanto segue: «Orbene,  costituisce circostanza assolutamente notoria che l'ambito lavorativo nel quale le donne sono maggiormente sottoposte a discriminazione, ancor più di quello salariale, è quello del riconoscimento delle qualifiche e della possibilità di carriera, soprattutto per le figure professionali più elevate. A parità di altre condizioni, alla donna manager o dirigente, o impiegata con particolari responsabilità, viene nel nostro paese normalmente richiesto un grado di identificazione con l'istituzione aziendale, e di subordinazione alla sua "ideologia", che ben può definirsi di tipo "giapponese". Non per questo le donne che accettano tal genere di subordinazione (invero sempre più inutile e disfunzionale, atteso che oggi il discorso sociale prevalente invoca flessibilità e disponibilità dei lavoratori a cambiare lavoro e attitudini) sono di frequente gratificate da promozioni a ruoli di comando, solitamente appannaggio dei colleghi maschi,  salve le debite eccezioni che, soprattutto nel nostro Meridione, confermano la regola opposta. In particolare, se può dirsi oramai accettato (sia pure con qualche rimpianto dei tempi in cui "tutte queste garanzie" non esistevano) dalla maggioranza dei datori di lavoro il "rischio" che una dipendente di categoria operaia o impiegatizia non elevata possa, in quanto donna, scegliere (o almeno accettare!) di avere uno o più figli, senza essere costretta ad abbandonare il posto di lavoro, le resistenze sono di gran lunga maggiori, ed anche qualitativamente diverse, se tale scelta o accettazione proviene da una lavoratrice più qualificata. In tal caso l'istituzione aziendale, attraverso i suoi dirigenti (uomini o magari donne con forte introiezione di una certa mentalità maschile), tende a percepire come un tradimento la naturale affermazione della maternità, che non viene considerata un temporaneo problema organizzativo da affrontare e risolvere nel modo ottimale, bensì la riprova di ciò che si era sempre ‘sospettato’, e cioè che la corporeità della dipendente non è interamente risolubile nella sua forza-lavoro».
Ecco, in due regioni diverse, due atteggiamenti mentali analoghi, contrari - come noi - ad una visione panaziendalistica della vita, il cui rifiuto ideologico non deve portare a conseguenze pregiudizievoli nella vita di lavoro, quando il lavoro (fonte di salario o di stipendio) venga espletato secondo correttezza, sebbene non posto all'apice delle proprie aspirazioni.
 
4.Quando il comportamento privato è rilevante nell’ambito lavorativo
 
Ritornando alla riscontrata violazione dell'art. 8, il magistrato pisano si rivela spiccatamente obbiettivo, riconoscendo che vi sono mansioni nelle quali  è rilevante l'aspetto caratteriologico, quello dell'estrosità o dell'introversione (es. da parte di soggetti investiti del rapporto con i terzi o della gestione delle risorse) ovvero la "spendita della personalità del dipendente" in consonanza con l'immagine aziendale,  senza che tali caratteristiche possano essere tuttavia pretese in maniera generalizzata da tutti i dipendenti e senza che sia perciò legittima una generalizzata indagine su tali connotazioni caratteriologiche le quali, salvo la loro pertinenza per residuali posizioni di lavoro, fanno acquisire all'investigazione l'aspetto dell'indebita intrusione nella privacy.  Dunque, per questi casi - dice il magistrato pisano - «il datore di lavoro potrà acquisire notizie, anche sulla personalità, che siano tuttavia utili al giudizio attitudinale, con il limite di tutto quanto non serva a valutare la sua capacità a relazionare all'esterno: perché costui potrà,  per ipotesi, possedere grandi capacità dialettiche o modi cortesi, ma potrà essere persona estremamente disinvolta nei rapporti personali senza che questo possa interessare al datore di lavoro, o comunque persona che ritiene che il suo lavoro sia solo un gravoso strumento di sopravvivenza o che non si ritenga gratificato per il solo fatto di andare a cena con il capo ufficio o con il dirigente della società. Tanti, infatti, fanno bene il loro lavoro, ed alle volte con successo, senza sentirsi investiti di una vocazione, e stanno meglio a casa loro o allo stadio piuttosto che in ufficio».
 
5.Esigenza indefettibile di trasparenza dei sondaggi d’opinione e delle relative finalità
 
Infine, sempre nel caso deciso dal magistrato pisano, ciò che convince  (o rafforza la convinzione) sull'illiceità dei tests è la mancanza di trasparenza nell'acquisizione delle informazioni. Viene, infatti, sottolineato come «quanto alla modalità di acquisizione dei dati o delle notizie, il limite del potere esplorativo del datore di lavoro è dato dalla sostanziale lealtà dell'indagine o, come oggi si dice con una parola abusata, dalla sua trasparenza. Occorre, cioè, che il mezzo d'informazione non sia ingannevole e che il lavoratore sia ben consapevole dell'attività investigativa posta in essere dal datore di lavoro o dal suo incaricato». Nella fattispecie, la chiave di lettura era del tutto sconosciuta ai dipendenti - come pure la finalità che le FF.SS. di allora si erano riproposte con l'acquisizione delle risposte al questionario - e l'anonimato non era imposto come procedura obbligatoria, talché molti moduli erano controfirmati ed altri no, con il conseguente venir meno della garanzia della non identificabilità dei compilatori.  Il magistrato, infine, mentre ravvisò sussistente il contrasto con l'art. 8 S.d.l. - e trasmise gli atti del procedimento al giudice penale ai fini e per l'effetto della comminazione, all’epoca, della pena ex art. 38 dello statuto dei lavoratori - non ritenne invece che la non attinenza dell'intrusione nella privacy dei lavoratori con aspetti rivelatori dell'attitudine professionale degli stessi, attualizzasse condotta antisindacale, cioè a dire si rivelasse idonea a comprimere la libertà del sindacato ricorrente,  quand'anche talune intrusioni attenessero alla sfera delle istanze collettive dei lavoratori medesimi e alle modalità di rendersene (o meno) interpreti e portatori, anche a livello sindacale, nei confronti del datore di lavoro antagonista.
Ed anche qui riteniamo che le conclusioni sul punto siano nel giusto, perché troppo esigue erano le tracce di questo comportamento "plurioffensivo". Asserì il magistrato al riguardo: «ancorché la lesione abbia acquistato i caratteri della collettività, è opinione che essa non si sia risolta anche nella violazione di un diritto del sindacato ed in particolare nella lesione o limitazione della libertà sindacale».
Abbiamo riferito – condito dalle nostre considerazioni – il caso esaminato nella sentenza risalente, in quanto emblematico di prassi aziendali non corrette (talora grossolane), allo scopo di evidenziarne - se ancora non dismesse (come risulta non sia affatto avvenuto) dalle aziende – il loro pacifico confliggere con le norme dell’ordinamento lavoristico e del codice della privacy che richiedono da parte dei gestori di risorse umane  e delle Organizzazioni sindacali dei lavoratori costante attenzione e necessaria vigilanza.

Mario Meucci - Giuslavorista

Roma, marzo 2010
 
 

[1] Si trova, integralmente, in Foro it. 1974, I, 2895. Conf. Pret. Piacenza 14 febbraio 1972, in Orient. giur. lav. 1972, 553, per cui «l'indagine effettuata dal datore di lavoro (nel caso concreto un istituto di credito)  diretta ad accertare le eventuali cariche ricoperte dai lavoratori in enti o associazioni assistenziali, sportive, tecniche, culturali, sindacali,  religiose, etc., si pone in contrasto con l'art. 8 della l. n. 300 del 1970». Nello stesso senso, Pret. Milano 5 dicembre 1976, in Riv. giur. lav.  1977, IV, 109, ove emerge che durante il colloquio di assunzione, il datore di lavoro aveva chiesto all'aspirante lavoratrice se fosse coniugata o fidanzata o avesse "un ragazzo". Sugli indebiti ed illeciti sondaggi,  tramite questionari - o colloqui - d'assunzione, finalizzati all'acquisizione di notizie sull'affiliazione sindacale, vedi Pret. Milano 7 ottobre 1977, ivi, 1978, IV, 101 e - rispettivamente - Pret. Recanati 2 marzo 1971, in Foro it. 1971, I, 2012. Sulla raccolta da parte di un Sindaco (comunista) di informazioni su un lavoratore (democristiano)  dell'amministrazione comunale che aveva «espresso in pubblico giudizi negativi e polemici nei confronti dell'amministrazione», vedi Pret. Pontremoli 26 ottobre 1973, ivi 1974, II, 252.  Sulla storiche "schedature" praticate dalla Fiat e dall'Alfa Romeo, vedi - rispettivamente - Trib. Napoli 7 ottobre 1976 (imp. Cuttica), in Mass.  giur. lav. 1978, 17 con nota e Pret. Milano 27 maggio 1978, in Riv. giur.  lav. 1978, IV, 459 con nota di G. Mascarello, decisione quest'ultima affermante che :«Integra gli estremi della violazione dell'art. 8 della l.  n. 300 del 1970, la raccolta, attraverso colloqui selettivi ed accertamenti affidati ad agenzie private di investigazione, di notizie relative alle caratteristiche morali, psicologiche e comportamentali dei singoli lavoratori da assumere. Detta norma, infatti,  ha lo scopo di proteggere la vita privata del prestatore d'opera subordinato da indebite ingerenze dell'imprenditore, e non può essere quindi altrimenti interpretata se non nel senso di consentire a quest'ultimo di attingere sui propri dipendenti, potenziali o effettivi,  informazioni riguardanti esclusivamente le loro attitudini professionali, e cioè, il possesso dei requisiti tecnici (preparazione, esperienza, abilità,  ecc.) necessari ad assolvere le mansioni cui saranno adibiti».
[2] Ora le sanzioni – in precedenza contemplate nell’art. 38 Stat. lav. – sono state ricondotte dall’art. 171 del Codice privacy (d. lgs. n. 196/2003) in questo ambito e quindi espunte dall’art. 38 per effetto dell’art. 179 di detto Codice. Peraltro non sono state abrogate ma persistono per effetto  di una lettura (scoordinata, invero, da parte di un maldestro legislatore) del combinato disposto degli artt. 171 e 179  del Codice privacy.
[3] Si trova in Riv. giur. lav. 1977, IV, 457 e in Foro it. 1977, II, 429.
[4] Pret. Lecce 13 dicembre 1997, in Riv. crit. dir. lav. 1999, 129.

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