Il Governo Berlusconi e l’Europa. Primi appunti sul Libro Bianco

 

Nel Libro Bianco reso noto dal ministro Maroni colpisce l’insistito, costante, ripetuto, quasi ossessivo richiamo all’Europa. E’ evidente il tentativo di cercare una copertura nelle indicazioni di Bruxelles, reso in parte possibile dalla circostanza, a tutti nota, che le indicazioni comunitarie sono, assai spesso, espresse in termini generici ed ambigui e, per questo stesso, si prestano ad essere “tirate” da una parte e dall’altra, a sostegno delle politiche più diverse. Bisogna però aggiungere che questa considerazione, vera in generale, non può valere, sempre e comunque, nei confronti di qualsiasi prescrizione, regola o semplice suggerimento provenienti dall’Europa. Non a caso, infatti, il Libro Bianco finisce con l’essere costretto ad avvalersi del richiamo europeo in maniera del tutto peculiare: manipolando, talvolta in maniera persino sfacciata, il significato delle norme comunitarie; più spesso evitando riferimenti puntuali al diritto comunitario, sostituiti dal richiamo a specifiche normative di singoli Stati membri dell’UE, prescelte, cogliendo fior da fiore, con appassionata predilezione per quelle che riconoscono alle imprese spazi estremi di flessibilità. Si aggiunga che, laddove quest’impiego tendenzioso dell’“argomento europeo” non risulta sufficiente, allora il richiamo all’Europa viene surrettiziamente relegato in un angolo buio, per passare senz’altro alla prospettazione di idee, regole, istituti che trovano riscontro soprattutto nel modello americano: valga, in particolare, l’esempio dello staff leasing, che si vorrebbe introdurre nell’ordinamento dilatando ed estremizzando l’istituto del lavoro interinale.

 

1.     La strategia europea per l’occupazione è esaltata dal Libro Bianco ed addirittura considerata fonte di obblighi, di impegni vincolanti per gli Stati membri (v. pag. 26). Si tratta di un’evidente forzatura. E’ vero infatti che gli annuali Orientamenti in materia di occupazione vengono incorporati in una decisione del Consiglio. Ciò non toglie che il ricorso ad una fonte in sé di carattere vincolante si spiega in ragione dell’intento di sostenere le indicazioni comunitarie operando una più forte pressione sugli Stati membri; ma non permette di considerare alla stregua di regole prescrittive quelle che restano indicazioni di massima, espressive di obiettivi, suscettibili di interpretazioni ed applicazioni differenziate nell’ambito dei singoli contesti nazionali.

Che si tratti di indicazioni multi-uso, del resto, risulta evidente da una lettura appena non distratta. Il Libro Bianco enfatizza l’obiettivo di perseguire un equilibrio fra flessibilità e sicurezza, che è proprio del III pilastro (‘adattabilità’) delle guidelines comunitarie. Fatto è che, nell’ambito del III pilastro, si può trovare tutto ed il suo contrario. In materia di orario di lavoro, ad esempio, vi si menziona l’annualizzazione, ma anche la riduzione dell’orario di lavoro: resta quindi impregiudicata la possibilità di adottare politiche che impongano nuovi vincoli alle imprese (il che risulta completamente al di fuori dell’orizzonte prospettico del Libro Bianco).

Né appare corretto enfatizzare il valore delle raccomandazioni rivolte dall’UE alle politiche del lavoro sinora praticate dal nostro paese. Si tratta, infatti, di rilievi che possono essere più o meno fondati, ma in ogni caso non implicano nessun particolare apprezzamento negativo. Ciò infatti potrebbe affermarsi se le raccomandazioni fossero rivolte soltanto ad alcuni paesi e non ad altri: viceversa la prassi di indirizzarle, seppure ovviamente con contenuti diversi, a tutti i paesi membri ha notevolmente sminuito il significato delle raccomandazioni in questione.

Assolutizzare le indicazioni europee nell’area delle politiche per l’occupazione, d’altro canto, è palesemente in contraddizione con la natura di soft law da tutti riconosciuta sia alle raccomandazioni, sia agli Orientamenti. Il Libro Bianco per un verso incorre, in maniera strumentale, in questa contraddizione; per altro verso esalta la soft law come una sorta di nuova frontiera delle tecniche regolatorie, da applicarsi anche con riguardo alla disciplina dei rapporti di lavoro (pag. 36/37): evidentemente con l’obiettivo di produrre regole così evanescenti da risultare del tutto innocue per le imprese, e soprattutto sfornite di sanzioni atte a renderle credibili (in contrasto con tutte le indicazioni costantemente fornite dalla Corte di Giustizia). Quest’orientamento di fondo percorre tutto il Libro Bianco: così, ad esempio, per un verso si mettono anticipatamente le mani avanti rispetto ad una regolazione comunitaria del lavoro interinale, che dovrebbe essere tale da tenere “convenientemente in considerazione le peculiarità dei diversi sistemi nazionali” (pag. 69); per altro verso, e più in generale, ci si spinge ad affermare che non occorre “realizzare un’uniformità regolatoria su scala transnazionale”, la quale non sarebbe più negli obiettivi dell’ordinamento comunitario, soprattutto dopo il Trattato di Nizza, che escluderebbe “ormai interventi di armonizzazione nell’area della politica sociale”. Occorre dire subito che si tratta di affermazioni del tutto fantasiose. Il Trattato di Nizza, infatti, non contiene alcuna innovazione di sostanza rispetto alle competenze della Comunità nell’area delle politiche sociali, essendosi limitato ad una modestissima riscrittura dell’art. 137 TCE. Le competenze comunitarie nell’area in questione restano dunque confermate nei termini molto ampi fissati dal Trattato di Amsterdam; mentre le scelte che in concreto potranno essere assunte sulla base di quei fondamenti normativi dipenderanno, come sempre, dalle volontà politiche di volta in volta prevalenti.

 

2.     A parte questi riferimenti di carattere generale, merita di essere sottolineata la spregiudicatezza con cui, all’occorrenza, le indicazioni europee vengono capovolte e rovesciate nel loro contrario pur quando dovrebbero prestarsi a minori incertezze interpretative. Tralasciando l’episodio fin troppo noto dei contratti a termine, valgano soprattutto due esempi:

-  nel caso degli incentivi contributivi al part-time il Libro Bianco sposa puramente e semplicemente la posizione sempre sostenuta da Confindustria, lamentando che tali incentivi siano stati riconosciuti “solo alla stipula di part-time ad incremento della base occupazionale” (pag. 68). Si ignora totalmente che il governo di centrosinistra dovette negoziare il regime in questione con la Commissione UE, e che il vincolo contestato fu previsto per evitare che l’agevolazione potesse essere considerata contrastante con i criteri comunitari in materia di ammissibilità di aiuti di Stato.

-  Gravissimo è il modo in cui il Libro Bianco mostra d’intendere il significato della direttiva 2000/78/CE, prefigurandone un recepimento in palese contrasto con i suoi obiettivi e le sue indicazioni prescrittive. La direttiva, infatti, intende stabilire un quadro normativo generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Secondo il Libro Bianco, viceversa, essa consentirebbe di giustificare, valutandole addirittura come azioni positive (v. pag. 78), trattamenti normativi sub standard, da riservarsi, ad esempio, agli immigrati extracomunitari: non a caso viene citato come modello positivo, rispetto a simile prospettiva, quello del Patto di Milano.

 

3.     Qualche parola infine va spesa sulla questione del dialogo sociale: anche in questo caso, infatti, i riferimenti al modello europeo appaiono approssimativi, confusi, se non proprio fuorvianti. Non è vero, in primo luogo, che “al dialogo sociale, come dispone il Trattato dell’Unione europea, spetta il compito primario di trasposizione delle direttive comunitarie” (pag. IX)). Il Trattato, infatti, si limita a stabilire che “uno Stato membro può affidare alle parti sociali, a loro richiesta congiunta, il compito di mettere in atto le direttive…fermo restando che lo Stato membro interessato deve prendere le misure necessarie che gli permettano di garantire in qualsiasi momento i risultati imposti” dalle norme comunitarie (art. 137. 4. TCE, immutato dopo Nizza). Di fatto, è rarissimo che una direttiva comunitaria venga recepita mediante contratto collettivo: nel caso della direttiva sull’orario di lavoro, ad esempio, ciò si è verificato soltanto in Danimarca (e persistono molti dubbi sulla correttezza della trasposizione).  Lo scarso utilizzo del contratto collettivo dipende dalla circostanza che, per potersi realizzare una trasposizione adeguata, è sempre necessario che siano soddisfatte le condizioni richieste dalla Corte di Giustizia: in particolare è necessario che al contratto collettivo sia riconosciuta nel singolo ordinamento nazionale efficacia generale (v., di recente, Corte di giustizia 28 ottobre 1999, causa C-187/98, Commissione v. Grecia).  Non a caso, del resto, l’avviso comune in materia di orario di lavoro del 1997 non è valso ad evitare una sentenza di condanna dell’Italia per mancata trasposizione nei termini della relativa direttiva (v. Corte di Giustizia 9 marzo 2000, causa C-386/98, Commissione v. Repubblica italiana).

      Resta vero, naturalmente, che a livello nazionale le parti sociali possono comunque negoziare intese sulle materie toccate da una direttiva comunitaria: intese che poi possono essere trasfuse in un atto normativo formale di recepimento della direttiva, ove risultino coerenti con le finalità ed i contenuti della stessa. Con riguardo a questa possibilità, peraltro, appare singolare affermare da un canto che “il modello del dialogo sociale, così come regolamentato e sperimentato a livello comunitario, costituisce il punto di riferimento più  convincente”(pag. IX), per poi additare come esempio di “esperienza positiva” (pag. 71) il negoziato conclusosi con l’accordo separato sui contratti a termine. Al riguardo, non pare casuale che il Libro Bianco si limiti ad affermazioni del tutto generiche sul valore del dialogo sociale, trascurando anche solo di accennare ai criteri che devono presiedervi secondo il modello europeo. Si deve rammentare, allora, che le autorità comunitarie hanno avvertito tempestivamente il problema della misurazione della rappresentatività sindacale ai fini della stipulazione degli accordi collettivi prefigurati dall’Accordo sulla Politica Sociale di Maastricht (ora trasfuso nel Trattato di Amsterdam); e che, a seguito della contestazione della validità della direttiva sui congedi parentali da parte di un’organizzazione datoriale minoritaria (UEAPME), il giudice comunitario (per la precisione il Tribunale di primo grado) ha precisato che, per poter essere recepito in una decisione del Consiglio, un accordo collettivo europeo dev’essere stipulato da attori sociali che, sia sul versante datoriale sia su quello sindacale, possano dimostrare di possedere, considerati nel loro insieme, una rappresentatività cumulativa sufficiente. Si tratta di un requisito la cui sussistenza Commissione e Consiglio devono sempre preoccuparsi di verificare, come in effetti ormai costantemente avviene: si v., ad esempio, la proposta di direttiva del Consiglio relativa all’accordo europeo sull’organizzazione dell’orario di lavoro del personale di volo nell’aviazione civile (poi sfociata nella direttiva 2000/79/CE), la quale risulta addirittura corredata da tabelle sulla consistenza numerica dei singoli sindacati firmatari.

      Si aggiunga che, secondo il Tribunale di primo grado, “ogniqualvolta vi sia rappresentatività cumulativa insufficiente la Commissione ed il Consiglio devono negare l’attuazione dell’accordo concluso a livello comunitario”; e che le organizzazioni, necessarie per integrare il requisito di rappresentatività cumulativa sufficiente, “dispongono del diritto di impedire alla Commissione e al Consiglio di garantire l’attuazione a livello comunitario dell’accordo con un atto legislativo”.

Le implicazioni dei criteri comunitari sulle relazioni industriali italiane dovrebbero essere di tutta evidenza: se si applicassero quei criteri, ad “avvisi comuni” con le caratteristiche di quello sui contratti a termine non si potrebbe riconoscere alcun valore giuridico, stante la mancata adesione dell’organizzazione dei lavoratori di gran lunga più rappresentativa nel settore del lavoro privato. La verità è che il Libro Bianco tributa un omaggio formale al dialogo sociale europeo, ma poi intende tradurlo in patria secondo regole del tutto diverse. Per questo si esclude qualsiasi intervento legislativo sulla materia della rappresentatività sindacale, sostenendo ancora una volta (ma senza fondamento) che ciò risponderebbe ai criteri comunitari (v. a pag. 83); e soprattutto si pretende di governare conflitti e dissensi applicando la regola della maggioranza (v. a pag. 33), limitandosi cioè a contare i singoli attori sociali, senza minimamente preoccuparsi di saggiarne la consistenza rappresentativa. In questo modo, ad esempio, potrebbe accadere che una coalizione formata da UGL, Cisal, Sindacato padano e qualche altro sindacatino minore possa essere considerata tale da formare una maggioranza rispetto a Cgil, Cisl e Uil: che ciò abbia qualcosa a che vedere con l’Europa resta però una pretesa stravagante ed anzi, francamente, alquanto indecorosa.

 

Massimo Roccella

Ordinario di diritto del lavoro nell’Un. di Torino

 

 

Una Repubblica contro il lavoro

 

1. Dal Libro bianco alla delega sul mercato del lavoro

A proposito del Libro bianco del ministro Maroni si è rapidamente formata una vasta messe di commenti. Non vale la pena di aggiungerne un altro, magari con quel tono paludato ed accademico, da dialogo fra studiosi ed esperti della materia, che sembra tanto affascinare anche certi intellettuali che si muovono nell’area del centro-sinistra. L’atteggiamento dell’opposizione nei confronti delle proposte governative, in effetti, è un punto di capitale importanza, sul quale merita di essere spesa qualche considerazione. Prima, però, quelle proposte occorre esaminarle e comprenderle per quello che sono: esercizio per il quale è opportuno mettere da parte il Libro bianco e rivolgere piuttosto l’attenzione ai contenuti del disegno di legge delega in materia di mercato del lavoro, ove le idee, tracciate nel Libro bianco spesso in maniera vaga e generica, cominciano ad acquistare una più corposa concretezza. Cominciano, è il caso di sottolineare. Quel che veramente bolle in pentola, invero, potrà essere oggetto di più ponderate valutazioni solo all’esito dell’esercizio della delega. Per il momento ci si può limitare a rilevare che è già grave, e parzialmente rivelatore, il ricorso allo strumento della delega per intervenire su un arco di materie così ampio ed eterogeneo. Si tratta di uno strumento in questa forma del tutto inusitato, pensato evidentemente allo scopo di evitare quegli “incidenti di percorso” cui le proposte governative avrebbero potuto restare esposte nella dialettica parlamentare se si fosse scelto il canale della legge ordinaria; con il vantaggio aggiuntivo di poter manipolare a piacimento, nel chiuso di qualche studiolo ministeriale, i criteri, non di rado alquanto indeterminati e suscettibili di molteplici interpretazioni, cui il governo dovrebbe attenersi in sede di emanazione dei decreti delegati.

 

2. La questione dei licenziamenti e l’arbitrato in materia di lavoro

In merito al disegno di legge delega discussioni e contrasti sembrano essersi addensati soprattutto sulla ventilata modifica dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Si tratta, in effetti, di proposte che meritano di essere contrastate sino in fondo: avvertendo sin d’ora, peraltro, che eventuali concessioni, che si riuscissero a strappare in materia di licenziamenti, non farebbero venire meno la pericolosità del progetto di destrutturazione del mercato del lavoro (e delle relazioni sindacali) che permea la filosofia di fondo del disegno di legge delega.

L’attacco alla normativa di tutela nei confronti del licenziamento illegittimo viene portato apparentemente non in maniera frontale: si propongono aggiustamenti, deroghe atte a consentire che, in determinate situazioni, al licenziamento, ancorché illegittimo, consegua non la reintegrazione nel posto di lavoro, ma il risarcimento dei danni. Senonché le “ragioni oggettive” che dovrebbero aprire la strada alla disapplicazione della regola generale appaiono per un verso socialmente inique, per l’altro notoriamente destituite di fondamento. Si ipotizza, in primo luogo, che la tutela “forte” contro un licenziamento ingiustificato possa essere sostituita da una misura risarcitoria nei confronti di lavoratori coinvolti in vicende di regolarizzazione di lavoro sommerso: a questi lavoratori, dunque, dopo un passato di illegalità e totale assenza di garanzie, si prospetta un futuro di garanzie minime, cancellando in un colpo solo anche ogni fondamento di equità e di razionalità economica alle cospicue misure di incentivazione all’emersione elargite a piene mani dal ministro Tremonti ai loro datori di lavoro, cui si vorrebbe adesso assicurare un’ulteriore franchigia normativa sul versante della legislazione del lavoro, con evidentissimi effetti distorsivi sul piano della concorrenza fra imprese.  Lo stesso trattamento, in secondo luogo, andrebbe riservato ai lavoratori il cui rapporto a termine fosse trasformato in rapporto a tempo indeterminato: in questo caso al nobile scopo di favorire la “stabilizzazione” di rapporti precari. Ci si potrebbe chiedere come mai, dopo aver contribuito a precarizzare il mercato del lavoro con la liberalizzazione delle assunzioni termine, il governo della destra mostri tanta sollecitudine nei confronti di quelle a tempo indeterminato. Un repentino ripensamento? Neanche per idea: soltanto uno specchietto per le allodole. Il riferimento alla natura a tempo indeterminato dell’assunzione non deve trarre in inganno, né può essere considerato di per sé un obiettivo socialmente condivisibile: lavoratori a tempo indeterminato privi di garanzie “reali” di stabilità (come quelli che, in caso di licenziamento ingiustificato, risultano privi del diritto di essere reintegrati nel proprio posto di lavoro) sono altrettanto e, per certi versi, ancor più precari dei lavoratori a termine: dei primi, infatti, un datore di lavoro può sbarazzarsi a piacimento anche un momento dopo l’assunzione (col solo eventuale onere rappresentato dal versamento dell’indennità risarcitoria), mentre i rapporti a termine assicurano almeno una garanzia di stabilità per tutta la durata convenuta.

Ai lavoratori a termine, dunque, si vorrebbe regalare una prospettiva di (ancor maggiore) precarietà anche dopo la pretesa “stabilizzazione” del loro rapporto di lavoro: una polpetta avvelenata che essi dovrebbero condividere con quei lavoratori, assunti da imprese minori, le quali, a seguito di dette assunzioni, superino la fatidica soglia dei quindici dipendenti oltre la quale si dovrebbe applicare la normativa dello Statuto. Tutti i dipendenti di queste piccole imprese (ancorché ormai non più tanto piccole) potrebbero essere licenziati illegittimamente senza possibilità di beneficiare della reintegrazione nel posto di lavoro: nel quadro di supposte “politiche di incoraggiamento della crescita dimensionale delle imprese minori” a fronte delle quali si giustificherebbe la terza “ragione oggettiva” di disapplicazione della disciplina protettiva nei confronti del licenziamento ingiustificato. Coeteris paribus, dunque, vi sarebbero le “vecchie” imprese con più di quindici dipendenti sottoposte al regime generale dello Statuto, mentre le “nuove” ne sarebbero esentate. Ancora una volta gli evidenti effetti distorsivi della concorrenza, che pure dovrebbero preoccupare un governo “liberale”, appaiono completamente trascurati pur di poter varare una misura il cui fondamento socio-economico è già stato da tempo messo in discussione. A dirla tutta, anzi, è stata proprio un’accurata ricerca del Centro studi di Confindustria a porre in luce che le cause del “nanismo” imprenditoriale sono complesse e molteplici e che, fra esse, nessun rilievo significativo può attribuirsi al cosiddetto “effetto soglia” proprio della legislazione del lavoro [1] . E’ vero, quella ricerca, una volta portata a termine, è stata accuratamente riposta in un cassetto; pur tuttavia resta alquanto sorprendente che proprio su una questione così delicata i canali di comunicazione fra il Cavaliere e il sig. D’Amato appaiano così ostruiti.

La comunicazione fra governo e Confindustria, viceversa, torna a manifestarsi come piena consonanza di sentimenti e di idee in tema di arbitrato: ove le soluzioni abbozzate appaiono rilevanti di per sé ed anche per comprendere il senso reale delle modifiche che si vorrebbero apportare al regime dei licenziamenti. Sul punto il disegno di legge delega muove dall’implicito presupposto che, allo stato, il nostro ordinamento giuridico ammette, come strumento di composizione delle controversie di lavoro alternativo alla giustizia statale, soltanto il ricorso all’arbitrato di diritto: confermando che aveva pienamente ragione chi ha sostenuto che la riforma varata dai governi di centrosinistra si era ben guardata dall’intenzione di legittimare, in sede di giudizio arbitrale, la disapplicazione di leggi e contratti collettivi. A questa del tutto condivisibile, ancorché probabilmente involontaria, ammissione si accompagna purtroppo la piena accettazione delle richieste sempre tenacemente avanzate al riguardo da Confindustria, prefigurandosi l’abrogazione della disciplina vigente e la legittimazione, in sua vece, proprio dell’arbitrato di equità. Per chi non abbia familiarità con il lessico giuridico, è il caso di ricordare che l’arbitrato di equità, almeno nella materia del lavoro, non avrebbe proprio nulla di equo. Esso, infatti, si sostanzierebbe nella facoltà, riconosciuta all’arbitro, di pronunciarsi disapplicando le norme inderogabili di legge e di contratto collettivo, che costituiscono il nucleo essenziale del diritto del lavoro: non a caso questa forma arbitrale è sempre rimasta estranea alla nostra tradizione giuridica in materia di risoluzione delle controversie di lavoro. Si aggiunga che, con un ulteriore strappo rispetto a criteri di civiltà giuridica sinora ritenuti intangibili, verrebbe incrinato anche il carattere volontario dell’arbitrato. Sino ad oggi, infatti, per risolvere una controversia in via arbitrale è necessario il previo consenso delle parti; domani un lavoratore, del tutto ignaro delle scelte compiute dalla propria organizzazione sindacale, risulterebbe vincolato da eventuali intese in materia di arbitrato concordate nel contesto di un contratto collettivo.

L’arbitrato di equità, infine, si applicherebbe, com’è ovvio, anche per risolvere le controversie in materia di licenziamenti, pure, ed anzi soprattutto, quando non si versi in una delle tre ipotesi per le quali si ipotizza una modifica diretta dell’art.18: a conferma che il tentativo di sterilizzare quest’ultimo è solo apparentemente circoscritto. E poiché qui si giunge alla polpa, è comprensibile l’accuratezza con cui si tiene a precisare che l’arbitro, una volta accertata l’illegittimità del licenziamento, potrebbe decidere in maniera pienamente discrezionale se optare per la reintegrazione o per il risarcimento del danno: nel secondo caso quantificando quest’ultimo senza alcun obbligo di attenersi a criteri legali predeterminati.

Quest’ultimo punto, invero, è di rilievo cruciale. Quello a cui si pensa infatti, quando si propone di colpire un licenziamento illegittimo con una sanzione economica, non è un vero risarcimento del danno, ovvero non è il risarcimento integrale dei danni previsto in materia di licenziamenti, ad esempio, nel sistema francese, ed in generale dal nostro codice civile a fronte della violazione di qualsiasi vincolo contrattuale atta ad incidere sulla corretta circolazione dei beni. Perché evidentemente per gli estensori del Libro bianco e della delega governativa il lavoro non è soltanto una merce, ma una merce di scarso valore: suscettibile di insindacabile apprezzamento ad occhio, quand’anche da una parte vi sia un atto illegittimo e dall’altra la sofferenza (economica e morale) indotta da un licenziamento arbitrario e dalla conseguente disoccupazione.

 

3. La mercificazione del lavoro

Si  potrebbe obiettare, naturalmente, che non v’è nulla di strano, ragionando per categorie economiche, a considerare il lavoro come una merce. Purché non si trascuri che la merce-lavoro è del tutto peculiare ed inseparabile dalla persona che la produce. Per questo nell’atto fondativo dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro risulta scolpito l’assunto che “il lavoro non è una merce”: lo stesso assunto che, alimentato dalla confluenza di motivi d’ispirazione socialista e cristiano-sociale, si ritrova all’origine della nascita e dello sviluppo del diritto del lavoro nel secolo che ci sta alle spalle.

In nome di una modernizzazione senza aggettivi, viceversa, quella che viene proposta è una concezione mercificata del lavoro da liberismo ottocentesco, illustrata in maniera esemplare da alcuni aspetti del disegno di legge delega. Valga al riguardo, in primo luogo, il proposito di cancellare la legge 1369 del 1960 che ha sin qui rappresentato un argine, per quanto imperfetto, nei confronti dell’appalto di manodopera, colpito con sanzioni sia civili sia penali. Il divieto da essa sancito verrebbe abrogato e contestualmente si consentirebbe alle agenzie private operanti nel mercato del lavoro, ivi comprese quelle di lavoro interinale (che oggi possono fornire personale alle imprese solo per esigenze di carattere temporaneo), di procedere alla “somministrazione di manodopera” a tempo indeterminato. Gli estensori del Libro bianco, com’è noto, si son fatti un punto d’onore di citare l’Europa ad ogni piè sospinto: nel caso specifico, peraltro, hanno dimenticato di sottolineare che un modello del genere è privo di fondamento nel diritto dell’Unione europea, né trova riscontri nei paesi dell’Europa continentale. Lo staff leasing, invero, è praticato soprattutto negli Stati Uniti: in quel contesto, peraltro, in maniera tutto sommato innocua, trattandosi di un sistema dove tutti i lavoratori possono essere licenziati senza giustificazione alcuna. Cosa accadrebbe viceversa da noi? Un imprenditore potrebbe impiegare decine, se non anche centinaia di dipendenti, assumendone direttamente non più di quindici e facendosi “somministrare” gli altri dall’apposita agenzia (debitamente autorizzata, si capisce, dal ministero del lavoro), in modo da sottrarsi ai fastidiosi vincoli dello Statuto dei lavoratori. Né si pensi che vi sia qualche vantaggio per i lavoratori ad essere somministrati a tempo indeterminato, anziché a termine (come accade nel lavoro interinale). A fronte di una fornitura, non dissimile da quelle che consentono di utilizzare il gas o l’energia elettrica, va da sé che il relativo contratto (fra impresa utilizzatrice ed impresa fornitrice) potrebbe essere disdetto in ogni momento, magari con un breve termine di preavviso; valendo poi questa disdetta, ci si può scommettere, ad integrare gli estremi del giustificato motivo di licenziamento da parte dell’agenzia (datore di lavoro formale) nei confronti dei malcapitati lavoratori somministrati.

Come merce ben avvolta in un pacco postale verrebbero poi trattati i lavoratori coinvolti nella prospettata nuova disciplina del trasferimento d’azienda. La normativa attuale, approvata dal centrosinistra in perfetta aderenza al diritto comunitario di cui è attuazione, prevede che il ramo d’azienda che si vuole trasferire ad altro imprenditore sia dotato di autonomia funzionale propria e preesistente al trasferimento. Quella futura eliminerebbe il requisito dell’autonomia funzionale col chiarissimo scopo di consentire il trasferimento non di aziende, ma di singoli lavoratori in “esubero”, aggirando i vincoli esistenti in materia di licenziamenti individuali e collettivi. L’escamotage è semplicissimo: l’imprenditore cedente potrebbe costituire un ramo d’azienda ad hoc, un momento prima del trasferimento, mettendo insieme in un’unità produttiva fittizia i lavoratori di cui intende sbarazzarsi, per poi procedere alla relativa cessione, magari nei confronti di altra impresa la cui consistenza dimensionale non superi la soglia dei quindici dipendenti: davvero un significativo contributo alla trasparenza del mercato del lavoro.

Non si dica, ad ogni modo, che gli autori del Libro bianco e gli estensori della delega non sanno distinguere: il lavoro è una merce di scarsa qualità, ma se si tratta di lavoro delle donne il suo valore è ancora minore e lo si può trattare a pesci in faccia senza remore di sorta. Il modo con cui si pensa di regolare il part-time, che notoriamente, come tutti sanno, è soprattutto lavoro delle donne, è al riguardo davvero illuminante. La riforma, a suo tempo fortemente voluta dal ministro Salvi, e varata dal governo di centrosinistra in puntuale attuazione del diritto comunitario, senza trascurare legittime esigenze di elasticità organizzativa delle imprese, aveva saputo difendere, ed anzi irrobustire i diritti dei lavoratori, subordinando al consenso dei singoli sia il loro impiego in prestazioni orarie supplementari, sia la possibilità di variarne il turno di lavoro: con la garanzia forte, nel secondo caso, di un “diritto di ripensamento” che consente, al part-timer non più in grado per ragioni familiari (od altre ancora) di mantenere ferma la propria disponibilità ad orari flessibili, di riottenere una collocazione oraria predefinita della propria attività lavorativa. L’Unione europea ha mai contestato, esplicitamente o anche solo implicitamente, simile assetto regolativo? Non lo ha mai fatto, né lo potrebbe: giacché è del tutto evidente la portata antidiscriminatoria delle regole attuali, che sono state scritte a tutela soprattutto del lavoro delle donne, notoriamente meno in grado, in particolare in certe fasce di età, di assicurare quella disponibilità a variazioni orarie che le forme elastiche di part-time richiedono. Con perfetta tecnica berlusconiana, ovvero rovesciando il nero in bianco senza andare tanto per il sottile, si dice adesso che l’Europa reclama una riforma e che questa riforma dovrebbe servire ad agevolare il lavoro delle donne, eliminando ogni ostacolo alla diffusione del part-time: dopo di che, si confeziona una controriforma, facendo tabula rasa dei contenuti essenziali della normativa vigente (a partire dal diritto di ripensamento); proponendosi di introdurre nell’ordinamento il lavoro a chiamata (il job-on-call, già sonoramente bocciato a suo tempo dai lavoratori della Zanussi); ed infine arrivando a mordere il frutto proibito, quel part-time “a zero ore”, ultima spiaggia della precarizzazione del mercato del lavoro, pudicamente chiamato lavoro intermittente, a fronte del quale un lavoratore dovrebbe stare in perenne attesa di una convocazione dell’impresa, senz’altra garanzia se non quella di una (non quantificata) indennità di disponibilità. Il tutto, come si è detto, motivato dalla lodevolissima intenzione di favorire il lavoro delle donne (e di altri soggetti deboli, come i giovani con meno di 25 anni, ed i “vecchi”, ovvero gli ultraquarantacinquenni colpiti da un licenziamento collettivo).

 

4. Il rovesciamento dei rapporti sindacali

Al progetto di destrutturazione del mercato del lavoro sembrerebbe volersi accompagnare anche il ribaltamento di quei criteri che regolano nel nostro sistema i rapporti sindacali: senza dare nell’occhio, ma con la semplice cancellazione di una parolina di tre sole lettere. Da tempo l’ordinamento giuridico riconosce (parziali) poteri di regolazione del mercato del lavoro alle organizzazioni sindacali: non a tutte, ma soltanto a quelle comparativamente più rappresentative, con l’evidente obiettivo di evitare che la disciplina di materie delicate, come ad esempio quella del part-time o del lavoro interinale, sia posta da contratti collettivi “pirata”, conclusi con sindacatini privi di genuina consistenza rappresentativa. La stessa tecnica è ripresa ora nell’articolato governativo: ove peraltro l’attribuzione di cruciali poteri d’intervento nella regolazione del mercato del lavoro è effettuata nei confronti dei sindacati comparativamente rappresentativi. La parola più è stata cancellata con un tratto di penna. Una semplice svista, quasi un ossimoro? Niente del genere. Tutto, al contrario, lascia pensare che si tratti del tentativo di dare puntuale svolgimento ad idee enunciate nel Libro bianco, in contrasto con la costituzione, con gli orientamenti comunitari in materia [2] e persino con elementari criteri di logica (e di decenza). Si tratta, in due parole, della pretesa di governare conflitti e dissensi intersindacali applicando la regola della maggioranza: da intendersi però non come maggioranza dei lavoratori, ma limitandosi alla conta dei singoli attori sociali, senza minimamente preoccuparsi di saggiarne la consistenza rappresentativa. Il dissenso di un’organizzazione sindacale, ancorché maggioritaria in termini di aderenti, potrebbe così essere reso irrilevante dalla firma apposta in calce ad un contratto collettivo da altre due organizzazioni sindacali: a questa stregua per definizione comparativamente rappresentative (giacché due, si sa, vale più di uno).

Il tentativo di lanciare un’esca nei confronti di Cisl e Uil è sin troppo scoperto; ed è auspicabile che sia respinto dal sindacalismo confederale unitariamente. Dev’essere chiaro, infatti, che quel che nell’immediato potrebbe essere utilizzato per mettere fuori gioco la Cgil, domani potrebbe ritorcersi contro le stesse Cisl ed Uil. Impiegando i medesimi aberranti criteri, infatti, cosa impedirebbe che una coalizione formata da Ugl, Cisal, Sindacato padano e qualche altro pseudo-sindacato possa essere considerata comparativamente rappresentativa (ovvero tale da formare una maggioranza) rispetto alle tre “sole” Cgil, Cisl ed Uil?

 

5. E l’opposizione?

Non è ben chiaro sino a che punto l’opposizione abbia compreso la portata regressiva delle proposte governative e voglia conseguentemente contrastarle. Certo è che quelle proposte hanno già sortito l’effetto di provocare divisioni al suo interno. Parte del centrosinistra, e degli stessi DS, sembra guardarle con attenzione, dando in qualche caso segnali di (più o meno aperta) condivisione. Si condivide fondamentalmente l’asse propositivo del Libro bianco, ovvero il forte spostamento di enfasi dalle tutele nel rapporto di lavoro a quelle nel mercato, che dovrebbe improntare le politiche del lavoro, secondo questa corrente di pensiero, anche qualora al governo vi fossero i partiti dell’Ulivo: lamentando soltanto che le proposte governative non prevedano le risorse che sarebbero necessarie per sostenere una svolta del genere e comunque invitando le forze di opposizione ad atteggiamenti “propositivi” [3].

Ora, è del tutto evidente che le tutele nel mercato del lavoro possono avere significativo rilievo: quando però si aggiungano, e non si sostituiscano, a quelle operanti in costanza di rapporto di lavoro. La contrapposizione fra le une e le altre, viceversa, è tipica, con varie gradazioni, della politica della destra in tutti i paesi industriali maturi: costituisce l’essenza del modello liberista, o “americano” che dir si voglia, di regolazione sociale, ancorché i suoi sostenitori di casa nostra si astengano dal dichiararlo apertamente e preferiscano piuttosto condire i propri assunti con diffusi (e confusi) riferimenti all’Europa.

Nel riproporre al centrosinistra, ed alla sinistra in particolare, le idee ultra-liberiste di Pietro Ichino[4], Michele Salvati si compiace della consonanza con quelle del Libro bianco, forse senza neppure accorgersi del carattere, paradossale e rivelatore, dell’affermazione che “ora è la destra a prendere in mano le idee di Ichino”[5].

La predicazione di idee del genere, purtroppo, ha già gravemente nuociuto al centrosinistra durante gli anni di governo; il fatto che si continui tenacemente a riproporle rischia davvero di essere una trappola in cui l’opposizione potrebbe imbucarsi senza più riuscire ad intravedere la luce del sole.

A guardar bene, in fondo, le cose sono sempre più semplici di come si cerchi di farle apparire. Il centrosinistra può credere, per usare l’elegante espressione di Michele Salvati, che la “legislazione del lavoro…è greppia per avvocati”[6]; oppure guardare al diritto del lavoro, con Luciano Gallino, come ad “un quadro etico e normativo a un tempo…un’irrinunciabile acquisizione della modernità”[7]. Si capisce, naturalmente, che dall’uno e dall’altro convincimento discendono modi ben diversi di stare all’opposizione oggi, e ben diverse chances di riconquistare domani il governo del paese.

 

Massimo Roccella

Ordinario di diritto del lavoro nell’Un. di Torino

 

(Questo articolo è tratto da "La rivista del manifesto", in edicola e nelle librerie dall'8 gennaio 2002. Si ringrazia la direzione della rivista e la casa editrice per aver consentito la riproduzione)

 

NOTE

 [1] F. Traù (a cura di), La “questione dimensionale” nell’industria italiana, Bologna, il Mulino,  1999.

[2] Chi fosse interessato a saperne di più può leggere, nel sito della consulta giuridica della Cgil, il mio scritto Il governo Berlusconi e l’Europa. Primi appunti sul Libro bianco (da noi soprariportato, n.d.r.).

[3] Il succo di questo ragionamento è esemplarmente espresso da M. Salvati, Lavoro, una trappola per il centrosinistra, ne la Repubblica, 20 ottobre 2001.

[4] P. Ichino, Il lavoro e il mercato, Milano, Mondadori, 1996.

[5] M. Salvati, op.cit. Per irrobustire le proprie tesi, a dire il vero, Salvati accosta le idee di Ichino (che ha proposto di eliminare persino il requisito della giusta causa nel licenziamento) a quelle di Gino Giugni (cui una cosa del genere non è mai passata per la mente). Ma Salvati, si sa, è un autorevolissimo economista: la sua confusione di idee su banali questioni di diritto è del tutto comprensibile.

[6] M. Salvati, op. cit.

[7] L. Gallino, Il costo umano della flessibilità, Bari, Laterza, 2001, p. 15.

 

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