Il Governo Berlusconi e l’Europa. Primi appunti sul
Libro Bianco
Nel Libro Bianco reso noto dal ministro
Maroni colpisce l’insistito, costante, ripetuto, quasi ossessivo richiamo all’Europa.
E’ evidente il tentativo di cercare una copertura nelle indicazioni di
Bruxelles, reso in parte possibile dalla circostanza, a tutti nota, che le
indicazioni comunitarie sono, assai spesso, espresse in termini generici ed
ambigui e, per questo stesso, si prestano ad essere “tirate” da una parte e
dall’altra, a sostegno delle politiche più diverse. Bisogna però aggiungere che
questa considerazione, vera in generale, non può valere, sempre e comunque, nei
confronti di qualsiasi prescrizione, regola o semplice suggerimento provenienti
dall’Europa. Non a caso, infatti, il Libro Bianco finisce con l’essere
costretto ad avvalersi del richiamo europeo in maniera del tutto peculiare:
manipolando, talvolta in maniera persino sfacciata, il significato delle norme
comunitarie; più spesso evitando riferimenti puntuali al diritto comunitario,
sostituiti dal richiamo a specifiche normative di singoli Stati membri dell’UE,
prescelte, cogliendo fior da fiore, con appassionata predilezione per quelle
che riconoscono alle imprese spazi estremi di flessibilità. Si aggiunga che,
laddove quest’impiego tendenzioso dell’“argomento europeo” non risulta
sufficiente, allora il richiamo all’Europa viene surrettiziamente relegato in
un angolo buio, per passare senz’altro alla prospettazione di idee, regole,
istituti che trovano riscontro soprattutto nel modello americano: valga, in
particolare, l’esempio dello staff
leasing, che si vorrebbe introdurre nell’ordinamento dilatando ed
estremizzando l’istituto del lavoro interinale.
1. La strategia
europea per l’occupazione è esaltata dal Libro Bianco ed addirittura
considerata fonte di obblighi, di impegni vincolanti per gli Stati membri (v.
pag. 26). Si tratta di un’evidente forzatura. E’ vero infatti che gli annuali
Orientamenti in materia di occupazione vengono incorporati in una decisione del
Consiglio. Ciò non toglie che il ricorso ad una fonte in sé di carattere
vincolante si spiega in ragione dell’intento di sostenere le indicazioni
comunitarie operando una più forte pressione sugli Stati membri; ma non
permette di considerare alla stregua di regole prescrittive quelle che restano
indicazioni di massima, espressive di obiettivi, suscettibili di
interpretazioni ed applicazioni differenziate nell’ambito dei singoli contesti nazionali.
Che si tratti di indicazioni multi-uso, del
resto, risulta evidente da una lettura appena non distratta. Il Libro Bianco
enfatizza l’obiettivo di perseguire un equilibrio fra flessibilità e sicurezza,
che è proprio del III pilastro (‘adattabilità’) delle guidelines comunitarie. Fatto è che, nell’ambito del III pilastro,
si può trovare tutto ed il suo contrario. In materia di orario di lavoro, ad
esempio, vi si menziona l’annualizzazione, ma anche la riduzione dell’orario di
lavoro: resta quindi impregiudicata la possibilità di adottare politiche che
impongano nuovi vincoli alle imprese (il che risulta completamente al di fuori
dell’orizzonte prospettico del Libro Bianco).
Né appare corretto enfatizzare il valore
delle raccomandazioni rivolte dall’UE alle politiche del lavoro sinora
praticate dal nostro paese. Si tratta, infatti, di rilievi che possono essere
più o meno fondati, ma in ogni caso non implicano nessun particolare
apprezzamento negativo. Ciò infatti potrebbe affermarsi se le raccomandazioni
fossero rivolte soltanto ad alcuni paesi e non ad altri: viceversa la prassi di
indirizzarle, seppure ovviamente con contenuti diversi, a tutti i paesi membri
ha notevolmente sminuito il significato delle raccomandazioni in questione.
Assolutizzare le indicazioni europee
nell’area delle politiche per l’occupazione, d’altro canto, è palesemente in
contraddizione con la natura di soft law
da tutti riconosciuta sia alle raccomandazioni, sia agli Orientamenti. Il Libro
Bianco per un verso incorre, in maniera strumentale, in questa contraddizione;
per altro verso esalta la soft law
come una sorta di nuova frontiera delle tecniche regolatorie, da applicarsi
anche con riguardo alla disciplina dei rapporti di lavoro (pag. 36/37):
evidentemente con l’obiettivo di produrre regole così evanescenti da risultare
del tutto innocue per le imprese, e soprattutto sfornite di sanzioni atte a
renderle credibili (in contrasto con tutte le indicazioni costantemente fornite
dalla Corte di Giustizia). Quest’orientamento di fondo percorre tutto il Libro
Bianco: così, ad esempio, per un verso si mettono anticipatamente le mani
avanti rispetto ad una regolazione comunitaria del lavoro interinale, che
dovrebbe essere tale da tenere “convenientemente in considerazione le
peculiarità dei diversi sistemi nazionali” (pag. 69); per altro verso, e più in
generale, ci si spinge ad affermare che non occorre “realizzare un’uniformità
regolatoria su scala transnazionale”, la quale non sarebbe più negli obiettivi
dell’ordinamento comunitario, soprattutto dopo il Trattato di Nizza, che
escluderebbe “ormai interventi di armonizzazione nell’area della politica
sociale”. Occorre dire subito che si tratta di affermazioni del tutto
fantasiose. Il Trattato di Nizza, infatti, non contiene alcuna innovazione di
sostanza rispetto alle competenze della Comunità nell’area delle politiche
sociali, essendosi limitato ad una modestissima riscrittura dell’art. 137 TCE.
Le competenze comunitarie nell’area in questione restano dunque confermate nei
termini molto ampi fissati dal Trattato di Amsterdam; mentre le scelte che in
concreto potranno essere assunte sulla base di quei fondamenti normativi
dipenderanno, come sempre, dalle volontà politiche di volta in volta
prevalenti.
2. A parte questi
riferimenti di carattere generale, merita di essere sottolineata la
spregiudicatezza con cui, all’occorrenza, le indicazioni europee vengono
capovolte e rovesciate nel loro contrario pur quando dovrebbero prestarsi a
minori incertezze interpretative. Tralasciando l’episodio fin troppo noto dei
contratti a termine, valgano soprattutto due esempi:
- nel caso degli
incentivi contributivi al part-time il Libro Bianco sposa puramente e
semplicemente la posizione sempre sostenuta da Confindustria, lamentando che
tali incentivi siano stati riconosciuti “solo alla stipula di part-time ad
incremento della base occupazionale” (pag. 68). Si ignora totalmente che il
governo di centrosinistra dovette negoziare il regime in questione con la
Commissione UE, e che il vincolo contestato fu previsto per evitare che
l’agevolazione potesse essere considerata contrastante con i criteri comunitari
in materia di ammissibilità di aiuti di Stato.
- Gravissimo è il
modo in cui il Libro Bianco mostra d’intendere il significato della direttiva
2000/78/CE, prefigurandone un recepimento in palese contrasto con i suoi
obiettivi e le sue indicazioni prescrittive. La direttiva, infatti, intende
stabilire un quadro normativo generale per la parità di trattamento in materia
di occupazione e di condizioni di lavoro. Secondo il Libro Bianco, viceversa,
essa consentirebbe di giustificare, valutandole addirittura come azioni
positive (v. pag. 78), trattamenti normativi sub standard, da riservarsi,
ad esempio, agli immigrati extracomunitari: non a caso viene citato come
modello positivo, rispetto a simile prospettiva, quello del Patto di Milano.
3. Qualche parola
infine va spesa sulla questione del dialogo sociale: anche in questo
caso, infatti, i riferimenti al modello europeo appaiono approssimativi,
confusi, se non proprio fuorvianti. Non è vero, in primo luogo, che “al dialogo
sociale, come dispone il Trattato dell’Unione europea, spetta il compito
primario di trasposizione delle direttive comunitarie” (pag. IX)). Il Trattato,
infatti, si limita a stabilire che “uno Stato membro può affidare alle
parti sociali, a loro richiesta congiunta, il compito di mettere in atto le
direttive…fermo restando che lo Stato membro interessato deve prendere le
misure necessarie che gli permettano di garantire in qualsiasi momento i
risultati imposti” dalle norme comunitarie (art. 137. 4. TCE, immutato dopo
Nizza). Di fatto, è rarissimo che una direttiva comunitaria venga recepita
mediante contratto collettivo: nel caso della direttiva sull’orario di lavoro,
ad esempio, ciò si è verificato soltanto in Danimarca (e persistono molti dubbi
sulla correttezza della trasposizione).
Lo scarso utilizzo del contratto collettivo dipende dalla circostanza
che, per potersi realizzare una trasposizione adeguata, è sempre necessario che
siano soddisfatte le condizioni richieste dalla Corte di Giustizia: in
particolare è necessario che al contratto collettivo sia riconosciuta nel
singolo ordinamento nazionale efficacia generale (v., di recente, Corte di
giustizia 28 ottobre 1999, causa C-187/98, Commissione
v. Grecia). Non a caso, del resto,
l’avviso comune in materia di orario di lavoro del 1997 non è valso ad evitare
una sentenza di condanna dell’Italia per mancata trasposizione nei termini
della relativa direttiva (v. Corte di Giustizia 9 marzo 2000, causa C-386/98, Commissione v. Repubblica italiana).
Resta vero,
naturalmente, che a livello nazionale le parti sociali possono comunque
negoziare intese sulle materie toccate da una direttiva comunitaria: intese che
poi possono essere trasfuse in un atto normativo formale di recepimento della
direttiva, ove risultino coerenti con le finalità ed i contenuti della stessa.
Con riguardo a questa possibilità, peraltro, appare singolare affermare da un
canto che “il modello del dialogo sociale, così come regolamentato e
sperimentato a livello comunitario, costituisce il punto di riferimento
più convincente”(pag. IX), per poi
additare come esempio di “esperienza positiva” (pag. 71) il negoziato
conclusosi con l’accordo separato sui contratti a termine. Al riguardo, non
pare casuale che il Libro Bianco si limiti ad affermazioni del tutto generiche
sul valore del dialogo sociale, trascurando anche solo di accennare ai
criteri che devono presiedervi secondo il modello europeo. Si deve
rammentare, allora, che le autorità comunitarie hanno avvertito tempestivamente
il problema della misurazione della rappresentatività sindacale ai fini della
stipulazione degli accordi collettivi prefigurati dall’Accordo sulla Politica
Sociale di Maastricht (ora trasfuso nel Trattato di Amsterdam); e che, a
seguito della contestazione della validità della direttiva sui congedi
parentali da parte di un’organizzazione datoriale minoritaria (UEAPME), il
giudice comunitario (per la precisione il Tribunale di primo grado) ha precisato
che, per poter essere recepito in una decisione del Consiglio, un accordo
collettivo europeo dev’essere stipulato da attori sociali che, sia sul versante
datoriale sia su quello sindacale, possano dimostrare di possedere, considerati
nel loro insieme, una rappresentatività cumulativa sufficiente. Si
tratta di un requisito la cui sussistenza Commissione e Consiglio devono sempre
preoccuparsi di verificare, come in effetti ormai costantemente avviene: si v.,
ad esempio, la proposta di direttiva del Consiglio relativa all’accordo europeo
sull’organizzazione dell’orario di lavoro del personale di volo nell’aviazione
civile (poi sfociata nella direttiva 2000/79/CE), la quale risulta addirittura
corredata da tabelle sulla consistenza numerica dei singoli sindacati
firmatari.
Si aggiunga
che, secondo il Tribunale di primo grado, “ogniqualvolta vi sia
rappresentatività cumulativa insufficiente la Commissione ed il Consiglio
devono negare l’attuazione dell’accordo concluso a livello comunitario”; e che
le organizzazioni, necessarie per integrare il requisito di rappresentatività
cumulativa sufficiente, “dispongono del diritto di impedire alla Commissione
e al Consiglio di garantire l’attuazione a livello comunitario dell’accordo con
un atto legislativo”.
Le implicazioni dei criteri comunitari
sulle relazioni industriali italiane dovrebbero essere di tutta evidenza: se si
applicassero quei criteri, ad “avvisi comuni” con le caratteristiche di quello
sui contratti a termine non si potrebbe riconoscere alcun valore giuridico,
stante la mancata adesione dell’organizzazione dei lavoratori di gran lunga più
rappresentativa nel settore del lavoro privato. La verità è che il Libro Bianco
tributa un omaggio formale al dialogo sociale europeo, ma poi intende tradurlo in
patria secondo regole del tutto diverse. Per questo si esclude qualsiasi
intervento legislativo sulla materia della rappresentatività sindacale,
sostenendo ancora una volta (ma senza fondamento) che ciò risponderebbe ai
criteri comunitari (v. a pag. 83); e soprattutto si pretende di governare
conflitti e dissensi applicando la regola della maggioranza (v. a pag.
33), limitandosi cioè a contare i singoli attori sociali, senza minimamente
preoccuparsi di saggiarne la consistenza rappresentativa. In questo modo, ad
esempio, potrebbe accadere che una coalizione formata da UGL, Cisal, Sindacato
padano e qualche altro sindacatino minore possa essere considerata tale da
formare una maggioranza rispetto a Cgil, Cisl e Uil: che ciò abbia qualcosa a
che vedere con l’Europa resta però una pretesa stravagante ed anzi,
francamente, alquanto indecorosa.
Ordinario di diritto del lavoro nell’Un. di Torino
Una
Repubblica contro il lavoro
1. Dal Libro
bianco alla delega sul mercato del lavoro
A
proposito del Libro bianco del
ministro Maroni si è rapidamente formata una vasta messe di commenti. Non vale
la pena di aggiungerne un altro, magari con quel tono paludato ed accademico,
da dialogo fra studiosi ed esperti della materia, che sembra tanto affascinare
anche certi intellettuali che si muovono nell’area del centro-sinistra.
L’atteggiamento dell’opposizione nei confronti delle proposte governative, in
effetti, è un punto di capitale importanza, sul quale merita di essere spesa
qualche considerazione. Prima, però, quelle proposte occorre esaminarle e
comprenderle per quello che sono: esercizio per il quale è opportuno mettere da
parte il Libro bianco e rivolgere
piuttosto l’attenzione ai contenuti del disegno di legge delega in materia di
mercato del lavoro, ove le idee, tracciate nel Libro bianco spesso in maniera vaga e generica, cominciano ad
acquistare una più corposa concretezza. Cominciano, è il caso di sottolineare.
Quel che veramente bolle in pentola, invero, potrà essere oggetto di più
ponderate valutazioni solo all’esito dell’esercizio della delega. Per il
momento ci si può limitare a rilevare che è già grave, e parzialmente
rivelatore, il ricorso allo strumento della delega per intervenire su un arco
di materie così ampio ed eterogeneo. Si tratta di uno strumento in questa forma
del tutto inusitato, pensato evidentemente allo scopo di evitare quegli
“incidenti di percorso” cui le proposte governative avrebbero potuto restare
esposte nella dialettica parlamentare se si fosse scelto il canale della legge
ordinaria; con il vantaggio aggiuntivo di poter manipolare a piacimento, nel
chiuso di qualche studiolo ministeriale, i criteri, non di rado alquanto
indeterminati e suscettibili di molteplici interpretazioni, cui il governo
dovrebbe attenersi in sede di emanazione dei decreti delegati.
2. La questione
dei licenziamenti e l’arbitrato in materia di lavoro
In
merito al disegno di legge delega discussioni e contrasti sembrano essersi
addensati soprattutto sulla ventilata modifica dell’art. 18 dello Statuto dei
lavoratori. Si tratta, in effetti, di proposte che meritano di essere
contrastate sino in fondo: avvertendo sin d’ora, peraltro, che eventuali
concessioni, che si riuscissero a strappare in materia di licenziamenti, non
farebbero venire meno la pericolosità del progetto di destrutturazione del
mercato del lavoro (e delle relazioni sindacali) che permea la filosofia di
fondo del disegno di legge delega.
L’attacco
alla normativa di tutela nei confronti del licenziamento illegittimo viene
portato apparentemente non in maniera frontale: si propongono aggiustamenti,
deroghe atte a consentire che, in determinate situazioni, al licenziamento,
ancorché illegittimo, consegua non la reintegrazione nel posto di lavoro, ma il
risarcimento dei danni. Senonché le “ragioni oggettive” che dovrebbero aprire
la strada alla disapplicazione della regola generale appaiono per un verso
socialmente inique, per l’altro notoriamente destituite di fondamento. Si
ipotizza, in primo luogo, che la tutela “forte” contro un licenziamento
ingiustificato possa essere sostituita da una misura risarcitoria nei confronti
di lavoratori coinvolti in vicende di regolarizzazione di lavoro sommerso: a
questi lavoratori, dunque, dopo un passato di illegalità e totale assenza di
garanzie, si prospetta un futuro di garanzie minime, cancellando in un colpo
solo anche ogni fondamento di equità e di razionalità economica alle cospicue
misure di incentivazione all’emersione elargite a piene mani dal ministro
Tremonti ai loro datori di lavoro, cui si vorrebbe adesso assicurare
un’ulteriore franchigia normativa sul versante della legislazione del lavoro,
con evidentissimi effetti distorsivi sul piano della concorrenza fra
imprese. Lo stesso trattamento, in
secondo luogo, andrebbe riservato ai lavoratori il cui rapporto a termine fosse
trasformato in rapporto a tempo indeterminato: in questo caso al nobile scopo
di favorire la “stabilizzazione” di rapporti precari. Ci si potrebbe chiedere
come mai, dopo aver contribuito a precarizzare il mercato del lavoro con la
liberalizzazione delle assunzioni termine, il governo della destra mostri tanta
sollecitudine nei confronti di quelle a tempo indeterminato. Un repentino
ripensamento? Neanche per idea: soltanto uno specchietto per le allodole. Il
riferimento alla natura a tempo indeterminato dell’assunzione non deve trarre
in inganno, né può essere considerato di per sé un obiettivo socialmente
condivisibile: lavoratori a tempo indeterminato privi di garanzie “reali” di
stabilità (come quelli che, in caso di licenziamento ingiustificato, risultano
privi del diritto di essere reintegrati nel proprio posto di lavoro) sono
altrettanto e, per certi versi, ancor più precari dei lavoratori a termine: dei
primi, infatti, un datore di lavoro può sbarazzarsi a piacimento anche un
momento dopo l’assunzione (col solo eventuale onere rappresentato dal
versamento dell’indennità risarcitoria), mentre i rapporti a termine assicurano
almeno una garanzia di stabilità per tutta la durata convenuta.
Ai
lavoratori a termine, dunque, si vorrebbe regalare una prospettiva di (ancor
maggiore) precarietà anche dopo la pretesa “stabilizzazione” del loro rapporto
di lavoro: una polpetta avvelenata che essi dovrebbero condividere con quei
lavoratori, assunti da imprese minori, le quali, a seguito di dette assunzioni,
superino la fatidica soglia dei quindici dipendenti oltre la quale si dovrebbe
applicare la normativa dello Statuto. Tutti i dipendenti di queste piccole
imprese (ancorché ormai non più tanto piccole) potrebbero essere licenziati
illegittimamente senza possibilità di beneficiare della reintegrazione nel
posto di lavoro: nel quadro di supposte “politiche di incoraggiamento della
crescita dimensionale delle imprese minori” a fronte delle quali si
giustificherebbe la terza “ragione oggettiva” di disapplicazione della
disciplina protettiva nei confronti del licenziamento ingiustificato. Coeteris paribus, dunque, vi sarebbero
le “vecchie” imprese con più di quindici dipendenti sottoposte al regime
generale dello Statuto, mentre le “nuove” ne sarebbero esentate. Ancora una
volta gli evidenti effetti distorsivi della concorrenza, che pure dovrebbero
preoccupare un governo “liberale”, appaiono completamente trascurati pur di
poter varare una misura il cui fondamento socio-economico è già stato da tempo
messo in discussione. A dirla tutta, anzi, è stata proprio un’accurata ricerca
del Centro studi di Confindustria a porre in luce che le cause del “nanismo”
imprenditoriale sono complesse e molteplici e che, fra esse, nessun rilievo
significativo può attribuirsi al cosiddetto “effetto soglia” proprio della
legislazione del lavoro [1] . E’ vero, quella ricerca, una volta portata a
termine, è stata accuratamente riposta in un cassetto; pur tuttavia resta
alquanto sorprendente che proprio su una questione così delicata i canali di
comunicazione fra il Cavaliere e il sig. D’Amato appaiano così ostruiti.
La
comunicazione fra governo e Confindustria, viceversa, torna a manifestarsi come
piena consonanza di sentimenti e di idee in tema di arbitrato: ove le soluzioni
abbozzate appaiono rilevanti di per sé ed anche per comprendere il senso reale
delle modifiche che si vorrebbero apportare al regime dei licenziamenti. Sul
punto il disegno di legge delega muove dall’implicito presupposto che, allo
stato, il nostro ordinamento giuridico ammette, come strumento di composizione
delle controversie di lavoro alternativo alla giustizia statale, soltanto il ricorso
all’arbitrato di diritto: confermando che aveva pienamente ragione chi ha
sostenuto che la riforma varata dai governi di centrosinistra si era ben
guardata dall’intenzione di legittimare, in sede di giudizio arbitrale, la
disapplicazione di leggi e contratti collettivi. A questa del tutto
condivisibile, ancorché probabilmente involontaria, ammissione si accompagna
purtroppo la piena accettazione delle richieste sempre tenacemente avanzate al
riguardo da Confindustria, prefigurandosi l’abrogazione della disciplina
vigente e la legittimazione, in sua vece, proprio dell’arbitrato di equità. Per
chi non abbia familiarità con il lessico giuridico, è il caso di ricordare che
l’arbitrato di equità, almeno nella materia del lavoro, non avrebbe proprio
nulla di equo. Esso, infatti, si sostanzierebbe nella facoltà, riconosciuta
all’arbitro, di pronunciarsi disapplicando le norme inderogabili di legge e di
contratto collettivo, che costituiscono il nucleo essenziale del diritto del
lavoro: non a caso questa forma arbitrale è sempre rimasta estranea alla nostra
tradizione giuridica in materia di risoluzione delle controversie di lavoro. Si
aggiunga che, con un ulteriore strappo rispetto a criteri di civiltà giuridica
sinora ritenuti intangibili, verrebbe incrinato anche il carattere volontario
dell’arbitrato. Sino ad oggi, infatti, per risolvere una controversia in via
arbitrale è necessario il previo consenso delle parti; domani un lavoratore,
del tutto ignaro delle scelte compiute dalla propria organizzazione sindacale,
risulterebbe vincolato da eventuali intese in materia di arbitrato concordate
nel contesto di un contratto collettivo.
L’arbitrato
di equità, infine, si applicherebbe, com’è ovvio, anche per risolvere le
controversie in materia di licenziamenti, pure, ed anzi soprattutto, quando non
si versi in una delle tre ipotesi per le quali si ipotizza una modifica diretta dell’art.18: a conferma che il
tentativo di sterilizzare quest’ultimo è solo apparentemente circoscritto. E
poiché qui si giunge alla polpa, è comprensibile l’accuratezza con cui si tiene
a precisare che l’arbitro, una volta accertata l’illegittimità del
licenziamento, potrebbe decidere in maniera pienamente discrezionale se optare
per la reintegrazione o per il risarcimento del danno: nel secondo caso
quantificando quest’ultimo senza alcun obbligo di attenersi a criteri legali
predeterminati.
Quest’ultimo
punto, invero, è di rilievo cruciale. Quello a cui si pensa infatti, quando si
propone di colpire un licenziamento illegittimo con una sanzione economica, non
è un vero risarcimento del danno, ovvero non è il risarcimento integrale dei
danni previsto in materia di licenziamenti, ad esempio, nel sistema francese,
ed in generale dal nostro codice civile a fronte della violazione di qualsiasi
vincolo contrattuale atta ad incidere sulla corretta circolazione dei beni.
Perché evidentemente per gli estensori del Libro
bianco e della delega governativa il lavoro non è soltanto una merce, ma
una merce di scarso valore: suscettibile di insindacabile apprezzamento ad
occhio, quand’anche da una parte vi sia un atto illegittimo e dall’altra la
sofferenza (economica e morale) indotta da un licenziamento arbitrario e dalla
conseguente disoccupazione.
3. La
mercificazione del lavoro
Si potrebbe
obiettare, naturalmente, che non v’è nulla di strano, ragionando per categorie
economiche, a considerare il lavoro come una merce. Purché non si trascuri che
la merce-lavoro è del tutto peculiare ed inseparabile dalla persona che la
produce. Per questo nell’atto fondativo dell’Organizzazione Internazionale del
Lavoro risulta scolpito l’assunto che “il lavoro non è una merce”: lo stesso
assunto che, alimentato dalla confluenza di motivi d’ispirazione socialista e
cristiano-sociale, si ritrova all’origine della nascita e dello sviluppo del
diritto del lavoro nel secolo che ci sta alle spalle.
In nome
di una modernizzazione senza aggettivi, viceversa, quella che viene proposta è
una concezione mercificata del lavoro da liberismo ottocentesco, illustrata in
maniera esemplare da alcuni aspetti del disegno di legge delega. Valga al
riguardo, in primo luogo, il proposito di cancellare la legge 1369 del 1960 che
ha sin qui rappresentato un argine, per quanto imperfetto, nei confronti
dell’appalto di manodopera, colpito con sanzioni sia civili sia penali. Il
divieto da essa sancito verrebbe abrogato e contestualmente si consentirebbe
alle agenzie private operanti nel mercato del lavoro, ivi comprese quelle di
lavoro interinale (che oggi possono fornire personale alle imprese solo per
esigenze di carattere temporaneo), di procedere alla “somministrazione di
manodopera” a tempo indeterminato. Gli estensori del Libro bianco, com’è noto,
si son fatti un punto d’onore di citare l’Europa ad ogni piè sospinto: nel caso
specifico, peraltro, hanno dimenticato di sottolineare che un modello del
genere è privo di fondamento nel diritto dell’Unione europea, né trova
riscontri nei paesi dell’Europa continentale. Lo staff leasing, invero, è praticato soprattutto negli Stati Uniti:
in quel contesto, peraltro, in maniera tutto sommato innocua, trattandosi di un
sistema dove tutti i lavoratori possono essere licenziati senza giustificazione
alcuna. Cosa accadrebbe viceversa da noi? Un imprenditore potrebbe impiegare
decine, se non anche centinaia di dipendenti, assumendone direttamente non più
di quindici e facendosi “somministrare” gli altri dall’apposita agenzia
(debitamente autorizzata, si capisce, dal ministero del lavoro), in modo da
sottrarsi ai fastidiosi vincoli dello Statuto dei lavoratori. Né si pensi che
vi sia qualche vantaggio per i lavoratori ad essere somministrati a tempo
indeterminato, anziché a termine (come accade nel lavoro interinale). A fronte
di una fornitura, non dissimile da quelle che consentono di utilizzare il gas o
l’energia elettrica, va da sé che il relativo contratto (fra impresa
utilizzatrice ed impresa fornitrice) potrebbe essere disdetto in ogni momento,
magari con un breve termine di preavviso; valendo poi questa disdetta, ci si
può scommettere, ad integrare gli estremi del giustificato motivo di
licenziamento da parte dell’agenzia (datore di lavoro formale) nei confronti
dei malcapitati lavoratori somministrati.
Come
merce ben avvolta in un pacco postale verrebbero poi trattati i lavoratori
coinvolti nella prospettata nuova disciplina del trasferimento d’azienda. La
normativa attuale, approvata dal centrosinistra in perfetta aderenza al diritto
comunitario di cui è attuazione, prevede che il ramo d’azienda che si vuole
trasferire ad altro imprenditore sia dotato di autonomia funzionale propria e
preesistente al trasferimento. Quella futura eliminerebbe il requisito
dell’autonomia funzionale col chiarissimo scopo di consentire il trasferimento
non di aziende, ma di singoli lavoratori in “esubero”, aggirando i vincoli esistenti
in materia di licenziamenti individuali e collettivi. L’escamotage è semplicissimo: l’imprenditore cedente potrebbe
costituire un ramo d’azienda ad hoc,
un momento prima del trasferimento, mettendo insieme in un’unità produttiva
fittizia i lavoratori di cui intende sbarazzarsi, per poi procedere alla
relativa cessione, magari nei confronti di altra impresa la cui consistenza
dimensionale non superi la soglia dei quindici dipendenti: davvero un
significativo contributo alla trasparenza del mercato del lavoro.
Non si
dica, ad ogni modo, che gli autori del Libro
bianco e gli estensori della delega non sanno distinguere: il lavoro è una
merce di scarsa qualità, ma se si tratta di lavoro delle donne il suo valore è
ancora minore e lo si può trattare a pesci in faccia senza remore di sorta. Il
modo con cui si pensa di regolare il part-time,
che notoriamente, come tutti sanno, è soprattutto lavoro delle donne, è al
riguardo davvero illuminante. La riforma, a suo tempo fortemente voluta dal
ministro Salvi, e varata dal governo di centrosinistra in puntuale attuazione
del diritto comunitario, senza trascurare legittime esigenze di elasticità
organizzativa delle imprese, aveva saputo difendere, ed anzi irrobustire i
diritti dei lavoratori, subordinando al consenso dei singoli sia il loro
impiego in prestazioni orarie supplementari, sia la possibilità di variarne il
turno di lavoro: con la garanzia forte, nel secondo caso, di un “diritto di
ripensamento” che consente, al part-timer
non più in grado per ragioni familiari (od altre ancora) di mantenere ferma la
propria disponibilità ad orari flessibili, di riottenere una collocazione
oraria predefinita della propria attività lavorativa. L’Unione europea ha mai
contestato, esplicitamente o anche solo implicitamente, simile assetto
regolativo? Non lo ha mai fatto, né lo potrebbe: giacché è del tutto evidente
la portata antidiscriminatoria delle regole attuali, che sono state scritte a
tutela soprattutto del lavoro delle donne, notoriamente meno in grado, in
particolare in certe fasce di età, di assicurare quella disponibilità a
variazioni orarie che le forme elastiche di part-time
richiedono. Con perfetta tecnica berlusconiana, ovvero rovesciando il nero
in bianco senza andare tanto per il sottile, si dice adesso che l’Europa
reclama una riforma e che questa riforma dovrebbe servire ad agevolare il
lavoro delle donne, eliminando ogni ostacolo alla diffusione del part-time: dopo di che, si confeziona
una controriforma, facendo tabula rasa
dei contenuti essenziali della normativa vigente (a partire dal diritto di
ripensamento); proponendosi di introdurre nell’ordinamento il lavoro a chiamata
(il job-on-call, già sonoramente
bocciato a suo tempo dai lavoratori della Zanussi); ed infine arrivando a
mordere il frutto proibito, quel part-time
“a zero ore”, ultima spiaggia della precarizzazione del mercato del lavoro,
pudicamente chiamato lavoro intermittente, a fronte del quale un lavoratore
dovrebbe stare in perenne attesa di una convocazione dell’impresa, senz’altra
garanzia se non quella di una (non quantificata) indennità di disponibilità. Il
tutto, come si è detto, motivato dalla lodevolissima intenzione di favorire il
lavoro delle donne (e di altri soggetti deboli, come i giovani con meno di 25
anni, ed i “vecchi”, ovvero gli ultraquarantacinquenni colpiti da un
licenziamento collettivo).
4. Il
rovesciamento dei rapporti sindacali
Al
progetto di destrutturazione del mercato del lavoro sembrerebbe volersi accompagnare
anche il ribaltamento di quei criteri che regolano nel nostro sistema i
rapporti sindacali: senza dare nell’occhio, ma con la semplice cancellazione di
una parolina di tre sole lettere. Da tempo l’ordinamento giuridico riconosce
(parziali) poteri di regolazione del mercato del lavoro alle organizzazioni
sindacali: non a tutte, ma soltanto a quelle comparativamente più rappresentative, con l’evidente
obiettivo di evitare che la disciplina di materie delicate, come ad esempio
quella del part-time o del lavoro
interinale, sia posta da contratti collettivi “pirata”, conclusi con
sindacatini privi di genuina consistenza rappresentativa. La stessa tecnica è
ripresa ora nell’articolato governativo: ove peraltro l’attribuzione di
cruciali poteri d’intervento nella regolazione del mercato del lavoro è
effettuata nei confronti dei sindacati comparativamente
rappresentativi. La parola più è
stata cancellata con un tratto di penna. Una semplice svista, quasi un
ossimoro? Niente del genere. Tutto, al contrario, lascia pensare che si tratti
del tentativo di dare puntuale svolgimento ad idee enunciate nel Libro bianco, in contrasto con la
costituzione, con gli orientamenti comunitari in materia [2] e persino con elementari criteri di logica (e di
decenza). Si tratta, in due parole, della pretesa di governare conflitti e
dissensi intersindacali applicando la regola della maggioranza: da intendersi
però non come maggioranza dei lavoratori, ma limitandosi alla conta dei singoli
attori sociali, senza minimamente preoccuparsi di saggiarne la consistenza
rappresentativa. Il dissenso di un’organizzazione sindacale, ancorché
maggioritaria in termini di aderenti, potrebbe così essere reso irrilevante
dalla firma apposta in calce ad un contratto collettivo da altre due organizzazioni
sindacali: a questa stregua per definizione comparativamente rappresentative
(giacché due, si sa, vale più di uno).
Il
tentativo di lanciare un’esca nei confronti di Cisl e Uil è sin troppo
scoperto; ed è auspicabile che sia respinto dal sindacalismo confederale
unitariamente. Dev’essere chiaro, infatti, che quel che nell’immediato potrebbe
essere utilizzato per mettere fuori gioco la Cgil, domani potrebbe ritorcersi
contro le stesse Cisl ed Uil. Impiegando i medesimi aberranti criteri, infatti,
cosa impedirebbe che una coalizione formata da Ugl, Cisal, Sindacato padano e
qualche altro pseudo-sindacato possa essere considerata comparativamente
rappresentativa (ovvero tale da formare una maggioranza) rispetto alle tre
“sole” Cgil, Cisl ed Uil?
5. E
l’opposizione?
Non è
ben chiaro sino a che punto l’opposizione abbia compreso la portata regressiva
delle proposte governative e voglia conseguentemente contrastarle. Certo è che
quelle proposte hanno già sortito l’effetto di provocare divisioni al suo interno.
Parte del centrosinistra, e degli stessi DS, sembra guardarle con attenzione,
dando in qualche caso segnali di (più o meno aperta) condivisione. Si condivide
fondamentalmente l’asse propositivo del Libro
bianco, ovvero il forte spostamento di enfasi dalle tutele nel rapporto di
lavoro a quelle nel mercato, che dovrebbe improntare le politiche del lavoro,
secondo questa corrente di pensiero, anche qualora al governo vi fossero i
partiti dell’Ulivo: lamentando soltanto che le proposte governative non prevedano
le risorse che sarebbero necessarie per sostenere una svolta del genere e
comunque invitando le forze di opposizione ad atteggiamenti “propositivi” [3].
Ora, è del tutto evidente che le tutele nel mercato del lavoro possono avere significativo rilievo: quando però si aggiungano, e non si sostituiscano, a quelle operanti in costanza di rapporto di lavoro. La contrapposizione fra le une e le altre, viceversa, è tipica, con varie gradazioni, della politica della destra in tutti i paesi industriali maturi: costituisce l’essenza del modello liberista, o “americano” che dir si voglia, di regolazione sociale, ancorché i suoi sostenitori di casa nostra si astengano dal dichiararlo apertamente e preferiscano piuttosto condire i propri assunti con diffusi (e confusi) riferimenti all’Europa.
Nel
riproporre al centrosinistra, ed alla sinistra in particolare, le idee
ultra-liberiste di Pietro Ichino[4],
Michele Salvati si compiace della consonanza con quelle del Libro bianco, forse senza neppure
accorgersi del carattere, paradossale e rivelatore, dell’affermazione che “ora
è la destra a prendere in mano le idee di Ichino”[5].
La
predicazione di idee del genere, purtroppo, ha già gravemente nuociuto al
centrosinistra durante gli anni di governo; il fatto che si continui
tenacemente a riproporle rischia davvero di essere una trappola in cui
l’opposizione potrebbe imbucarsi senza più riuscire ad intravedere la luce del
sole.
A
guardar bene, in fondo, le cose sono sempre più semplici di come si cerchi di
farle apparire. Il centrosinistra può credere, per usare l’elegante espressione
di Michele Salvati, che la “legislazione del lavoro…è greppia per avvocati”[6];
oppure guardare al diritto del lavoro, con Luciano Gallino, come ad “un quadro
etico e normativo a un tempo…un’irrinunciabile acquisizione della modernità”[7]. Si capisce, naturalmente, che dall’uno
e dall’altro convincimento discendono modi ben diversi di stare all’opposizione
oggi, e ben diverse chances di
riconquistare domani il governo del paese.
Massimo Roccella
Ordinario di diritto
del lavoro nell’Un. di Torino
(Questo articolo è tratto da "La rivista
del manifesto", in edicola e nelle librerie dall'8 gennaio 2002. Si
ringrazia la direzione della rivista e la casa editrice per aver consentito la
riproduzione)
NOTE
[2] Chi fosse interessato a saperne di più può leggere, nel sito
della consulta giuridica della Cgil, il mio scritto Il governo Berlusconi e l’Europa. Primi appunti sul Libro bianco
(da noi soprariportato, n.d.r.).
[3] Il succo di questo ragionamento è esemplarmente espresso da M.
Salvati, Lavoro, una trappola per il
centrosinistra, ne la Repubblica,
20 ottobre 2001.
[4] P. Ichino, Il lavoro e il
mercato, Milano, Mondadori, 1996.
[5] M. Salvati, op.cit. Per
irrobustire le proprie tesi, a dire il vero, Salvati accosta le idee di Ichino
(che ha proposto di eliminare persino il requisito della giusta causa nel
licenziamento) a quelle di Gino Giugni (cui una cosa del genere non è mai
passata per la mente). Ma Salvati, si sa, è un autorevolissimo economista: la
sua confusione di idee su banali questioni di diritto è del tutto
comprensibile.
[6] M. Salvati, op. cit.
[7] L. Gallino, Il costo umano
della flessibilità, Bari, Laterza, 2001, p. 15.
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