GLI ASPETTI PENALISTICI DEL MOBBING
di
Andrea Castelnuovo
avvocato in Torino (www.avvocati-mcca.com)
SOMMARIO:
1. La rilevanza penale del mobbing in assenza di una specifica norma
incriminatrice. 2. La antesignana giurisprudenza sulle molestie sessuali. 3. La
prima pronuncia della Cassazione penale in tema di mobbing configura i delitti
di violenza privata e maltrattamenti in famiglia. 4. Mobbing e imputazione per
il reato di lesioni a carico del datore. 5. Il caso della Palazzina L.A.F.
dell’Ilva di Taranto. 6. Il mobbing nel pubblico impiego: l’abuso
d’ufficio. 7. Il reato di molestie per le ipotesi meno gravi di mobbing.
1.
La rilevanza penale del mobbing in assenza di una specifica norma incriminatrice
In un sistema dominato dal principio di stretta legalità e di tassatività come il nostro ordinamento penale è difficile trovare una collocazione sicura ad un fenomeno quale il mobbing, caratterizzato da una connaturata indeterminatezza di contorni: se accediamo alla nozione di mobbing come “cornice” - il legal framework di cui parlano Monateri, Bona e Oliva [1] - all’interno della quale trovano coesiva reductio ad unum condotte certamente illecite e condotte di per se neutre che si colorano di illiceità per esser finalizzate ad una strategia mobbizzante, che in ambito civilistico costituisce un bell’aiuto nel superare certe rigidezze probatorie e definitorie, in campo penale l’utilità di siffatta operazione di ermeneutica (ma anche di creatività) giuridica si scontra con l’esigenza di tipicità delle fattispecie, e corre il rischio di perdere quel fascinoso appeal con cui negli ultimi anni ha chiamato attorno a se i civilisti.
Dunque,
posto che non esiste un “reato di mobbing” ma esistono varie
fattispecie criminose che il mobber può porre in essere in esecuzione del
proprio disegno - e ponendosi nella prospettiva di esaminare lo stato delle cose
anziché affrontare (neppure consentendolo i limiti del presente intervento) un
periglioso discorso de iure condendo, o tentare di offrire una interpretazione
creativa di categorizzazione destinata a rimanere mera esercitazione
intellettuale credo si possano individuare almeno
tre accezioni in cui la nozione di mobbing trovi utilità in diritto penale:
-
la condotta
mobbizzante ante quale elemento costitutivo del reato, come vedremo più
avanti nel disaminare i precedenti giurisprudenziali che, a fronte di varie
specie di condotte mobbizzanti, hanno ritenuto sussistere diverse ipotesi di
reato, dalle lesioni alla violenza privata, dall’abuso d’ufficio ai
maltratamenti;
- il mobbing quale movente [2] d’ispirazione del disegno criminoso del mobber [3], quasi a recuperare nel penale la funzione di legal framework che viene dal civile. La finalizzazione ad una strategia mobbizzante può valere ad individuare, con riferimento ad una condotta, la sussistenza d’un dolo specifico tale inquadrare il fatto in una fattispecie di reato piuttosto che in un’altra. Vedremo che, per esempio, alcune sentenze hanno qualificato certe condotte mobbizzanti nell’ambito del delitto di violenza privata, fattispecie di carattere generico e sussidiario che resta esclusa, in base al principio di specialità, qualora sussista un dolo specifico che renda configurabile una ipotesi delittuosa più grave: se il fine perseguito dal mobber, attuato con atti violenti o minatorii, fosse quello di procurarsi un ingiusto profitto con altrui danno (per esempio, liberarsi del mobbizzato costringendolo alle dimissioni), si potrebbe individuare più facilmente il reato di estorsione piuttosto che quello di mera violenza privata.
- il mobbing quale circostanza aggravante del reato posto in essere dal mobber, circostanza che di volta in volta potrà assumere i connotati del motivo abietto [4] (non v’è forse abiezione nel caso del bossing finalizzato a indurre il mobbizzato alle dimissioni o ad accettare trattamenti inumani o mansioni sgradevoli o pericolose ?) o del motivo futile (come potrebbe essere il caso del mobbing orizzontale posto in essere da colleghi al solo scopo di attaccarne un altro, per divertimento o per sfogare frustrazioni proprie, un po’ come capita nel nonnismo da caserma o nel bullying scolastico); altre volte il mobbing si configurerà quale circostanza di stampo soggettivo ai sensi del n.11 dell’art. 61, laddove la condotta venga posta in essere con abuso del rapporto gerarchico lavorativo, o con abuso di pubblici poteri nel caso di mobbing nel pubblico impiego posto in essere da soggetti titolari di cariche pubbliche la cui posizione apicale sia tale da incutere sul soggetto passivo una doppia soggezione, quella derivante dalla subordinazione lavorativa e quella connessa al “potere”; non escluderei la possibilità di far rientrare certe condotte vessatorie particolarmente dure nell’ambito della circostanza aggravante di cui al n.4 dell’art. 61, quella che sanziona chi agisca con crudeltà verso le persone [5] (esamineremo poco oltre il primo precedente di cassazione, in cui il comportamento dei colpevoli pare davvero ammantato da un totale disprezzo per la persona dei dipendenti, ingiuriati, umiliati, molestati, tenuti in stato di sostanziale schiavitù).
2.
La antesignana giurisprudenza sulle molestie sessuali
Alla ricerca di un orientamento cui ispirarsi per tentare un inquadramento in termini di fattispecie criminose del fenomeno che ci interessa, non si può prescindere dal menzionare la casistica giurisprudenziale in tema di molestie sessuali, piaga tanto antica quanto è antico il lavoro stesso, anche perché nel catalogo delle condotte che il mobber può utilizzare rientrano spesso anche quelle di harassment. Non per caso, negli Stati Uniti lo studio del fenomeno del bullying at work-place è stato improntato almeno inizialmente sull’approfondimento della condizione del lavoro femminile e sulla tutela dalla molestia di natura sessuale che con maggior facilità può colpire le donne.
Civilisticamente,
per la raffinata ricostruzione in termini di rapporto tra azione contrattuale ed
extracontrattuale, il leading case è la sentenza della sezione lavoro della
Cassazione, la n. 7768 del 17 luglio 1995, avente ad oggetto il caso di
tre lavoratrici costrette a dimettersi per essere state oggetto, durante
l'orario di lavoro, di molestie sessuali e di veri e propri atti di libidine
violenti da parte del datore; costui, sottoposto a processo penale, aveva
patteggiato la pena di un anno di reclusione per il reato di atti di libidine
violenti, previsto dall’art 521 C.P., norma ormai abrogata dalla legge n.66
del 1996 che ha riformulato l’intera materia dei reati a sfondo sessuale,
traslandoli dall’angusto spazio che occupavano nel titolo dei delitti contro
la moralità pubblica ed il buon costume al titolo dei delitti contro la
persona. Citiamo anche Cass. sez. III penale, 26 maggio 2003 n. 22927: qui, il
direttore di un ufficio postale era stato condannato ad un ano e tre mesi di
reclusione per il reato di cui all’art 609 bis C.P. nella forma lieve di cui
all'ultimo comma, per avere compiuto atti sessuali su alcune proprie dipendenti;
ed anche Cass. Sez. III penale, 15 gennaio 2001 n. 255, in cui il direttore
sanitario d’un ospedale e direttore generale dell'Asl di zona, nell'esercizio
delle sue funzioni e con violenza, minaccia e abuso di autorità compiva atti o
molestie sessuali nei confronti di alcune donne dipendenti, per cui veniva
condannato per i reati di cui agli artt. 660 e 609 bis e septies C.P.
Al di là dei casi di vera e propria violenza carnale che trovano sanzione nelle norme di cui agli artt. 609 bis e seguenti del Codice Penale, vediamo come in giurisprudenza sono stati trattati i casi di mobbing con utilizzo di molestie sessuali, posto che il legislatore del ’96 non ha introdotto una autonoma previsione incriminatrice per tali condotte che, pertanto, devono essere inquadrate in altre fattispecie (ingiuria, molestia o disturbo alle persone, violenza privata).
Molto
interessante la sentenza n. 58/2001 depositata dal Tribunale penale di Modena
(Pres. Pasquariello) il 1° febbraio 2002.
Il
caso: una impiegata presso la filiale italiana di una multinazionale querela un
dirigente col quale lavora a stretto contatto per i reati di cui agli artt. 81 e
609 bis CP “perché, con più azioni esecutive del il medesimo disegno
criminoso, con violenza (consistita nel carattere repentino del gesto e nel
trattenere la persona offesa cingendo la alla vita e alle braccia e impedendole
per alcuni secondi i movimenti), costringeva ... a subire atti sessuali, e in
particolare, abbracci lascivi e toccamento del seno, accompagnati o preceduti da
turpiloqui concernenti la sfera sessuale nonché nel mostrare alla persona
offesa immagini ritraesti scene di contenuto esplicitamente pornografico”.
L’impiegata
aveva denunciato il progressivo trascendere del comportamento del dirigente,
iniziato con allusioni sessuali, continuato con ripetute avances volgari, fino
ad arrivare a molestie fisiche, di natura sempre sessuale, ed a concretizzare un
quotidiano "assedio" sessuale.
Il
rifiuto opposto dalla lavoratrice alle avances del dirigente lo avevano indotto
a vendicarsi accusandola nei confronti dei
vertici aziendali di varie inadempienze sul lavoro e dell’uso del
computer aziendale per collegamenti a siti pornografici: la società, di
conseguenza, licenziava la donna. Dunque la lavoratrice non solo aveva subito ripetute molestie sessuali ma, per effetto del suo
comportamento non condiscendente verso il molestatore, aveva anche perso il
lavoro. Il Tribunale ha affrontato il problema della prova delle condotte
di molestia, avvenute tutte senza la presenza di testimoni, stabilendo un
principio importante (già fatto proprio dalla Cassazione) che può valere come regula
iuris nei casi di mobbing, dove spesso la vittima non ha altro che la
propria parola contro quella del mobber: ebbene, laddove la narrazione della
persona offesa si scontri con quella narrazione non è preclusa a priori la
possibilità di positiva verificazione processuale della tesi accusatoria, ma si
“impone al giudice una rigorosa e cauta (nel senso della presunzione di
innocenza che non può essere superata da un generico attestato di credibilità
per la testimone d'accusa) valutazione della credibilità delle opposte
narrazioni, valutazione che pertanto trova momenti di rilievo anche in fatti non
strettamente contemplati dall'imputazione; a tale fine la vicenda del rapporto
di lavoro e del licenziamento della denunciante può configurarsi come causa di
dichiarazioni ritorsive ed incriminanti, ovvero come capitolo conclusivo del "mobbing"
sessuale che la ... ha dovuto patire, ma non è in dubbio che dalla stessa
si possano trarre elementi di giudizio per la valutazione di attendibilità
delle parti "contrapposte". Nei contenuti concreti ora precisati il
collegio ha pertanto aderito al costante orientamento della giurisprudenza di
legittimità, secondo la quale da un lato "le dichiarazioni del testimone e
persona offesa, per essere positivamente utilizzate dal giudice, devono
risultare credibili, oltreché avere ad oggetto fatti di diretta cognizione e
specificamente indicati, con la conseguenza che, contrariamente ad altre fonti
di conoscenza, come le dichiarazioni rese da coimputati o da imputati in reati
connessi, esse non abbisognano di riscontri esterni, il ricorso eventuale ai
quali è funzionale soltanto al vaglio di credibilità del testimone"
(nella specie la Corte ha precisato che, in tema di testimonianza della persona
offesa, lo scrutinio del giudice di merito deve essere più accurato e
approfondito, ma solo ai fini della credibilità oggettiva e soggettiva:
Cassazione penale sez. III, 26 agosto 1999, n. 11829, A.), e dall'altro la
testimonianza della persona offesa dal reato deve essere sottoposta ad un vaglio
di attendibilità intrinseca particolarmente rigoroso, non essendo la stessa
immune da sospetti in quanto portatrice di interessi antagonistici con quelli dell'imputato
(ex multis Cass. Pen. sez. VI, 6 ottobre 1999, n. 1423, D.)”. L’attività
d’indagine aveva consentito di accertare che in realtà l’uso del computer
della lavoratrice per i collegamenti ai siti porno fosse imputabile al dirigente
(il quale lo usava anche nei giorni di assenza della vittima), il che secondo il
giudice costituisce un forte indice di attendibilità e di credibilità della
parte offesa, e specularmene di smentita del dirigente: “l'unica
verificazione oggettiva possibile ha offerto pieno riscontro al racconto
accusatorio, del resto offerto in sede dibattimentale, con una valutazione
secondo parametri intrinseci e soggettivi, con apparente
accentuata sincerità, congruità di toni ed assenza di contraddizioni”. Nonostante
l’accertamento dei fatti, il Tribunale ha ritenuto non superata la soglia
di rilevanza penale posta dall'art. 609 bis contestato in quanto le avances
sessuali, consistendo in gesti solo accennati, non hanno comportato una apprezzabile
materiale violenta invasione della libertà fisica e quindi sessuale della persona
offesa.
La
soluzione residuale che il giudice ha fatto propria è stata di ritenere che il
turpiloquio concernente la sfera sessuale e l’aver mostrato "alla
persona offesa immagini ritraesti scene di contenuto esplicitamente
pornografico" integrasse il reato di ingiuria di cui all’art. 594
C.P.: “è indiscutibile che, secondo i parametri comunemente accettati
della convivenza civile e del rispetto dell'altrui integrità morale, sottoporre una persona ad apprezzamenti volgari sul proprio corpo
e sulla propria sessualità, ed imporle la visione non consenziente di
immagini pornografiche, costituisca comportamento ingiurioso, ovvero offensivo
dell'onore e del decoro, e lesivo di uno degli aspetti più intimi della libertà
morale, relativo alla sfera sessuale”.
3.
La prima pronuncia della Cassazione penale in
tema di mobbing
configura
i delitti di violenza privata e maltrattamenti in famiglia Prendiamo ora
in esame la prima pronuncia con cui i giudici di legittimità si sono occupati ex
professo del problema mobbing, la sentenza n. 10090 del 12 marzo 2001
(Cass. Pen.VI sez., ud. 22 gennaio 2001 – Pres. Sansone – Rel. Garribba).
Questo il caso giunto alle cure della Suprema Corte: la Corte d’Appello di
Milano aveva confermato la condanna alla pena di cinque anni di reclusione
inflitta al capogruppo responsabile di zona di una impresa di vendite porta a
porta di prodotti per la casa, dichiarato colpevole dei reati continuati di cui
agli artt. 572 C.P. (maltrattamenti) e 610 C.P. (violenza privata) per
avere maltrattato alcuni giovani collaboratori costringendoli a intensificare
l’impegno lavorativo oltre ogni limite di
accettabilità con atti di vessazione fisica e morale; il titolare della ditta
era invece stato condannato alla pena di quattro anni di reclusione per
il reato continuato di cui all’art. 610 C.P. per avere costretto quegli stessi
giovani ad aumentare l’impegno lavorativo oltre il tollerabile, avvalendosi
del clima di intimidazione creato dai suoi
capigruppo e omettendo di reprimere i loro eccessi.
Si tratta di una pronuncia su di un caso di notevole gravità per cui non riterrei corretto sostenere tout court che la Cassazione punisce il mobbing con le pene previste per i reati di maltrattamenti e di violenza privata: certo che in casi estremi come questo o come quello portato alle cure del Tribunale di Taranto di cui infra il precedente è di tutto interesse, ma non offre una via operativa relativamente ai casi di mobbing strisciante, in cui il mobber pone in essere condotte meno eclatanti. Il vero problema è che, in assenza di una disciplina ad hoc, il giudice penale non può far altro che reperire nell’ambito del codice le fattispecie più idonee ad inquadrare i vari comportamenti, senza poter spaziare con la maggior libertà concessa al giudice civile.
Quanto
alla qualificazione dei fatti nell’ambito della fattispecie di maltrattamenti,
la Corte “osserva che, anche se l’ipotesi di reato di più frequente
verificazione è quella che dà il nome alla rubrica dell’art. 572 cod. pen.
(maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli [6]
), la norma incriminatrice prevede altresì le ipotesi di chi
commette maltrattamenti in danno di persona sottoposta alla sua autorità, o
a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o
custodia, per l’esercizio di una professione o di un’arte. Si tratta di
ipotesi di reato, in questi ultimi casi, in cui non è richiesta, a differenza
della prima, la coabitazione o convivenza
tra il soggetto attivo e quello passivo, ma solo un rapporto continuativo dipendente
da cause diverse da quella familiare. Venendo al caso in esame, non v’è
dubbio che il rapporto intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro e
lavoratore subordinato, essendo caratterizzato dal potere direttivo e
disciplinare che la legge attribuisce al datore nei confronti del lavoratore
dipendente, pone quest’ultimo nella condizione, specificamente prevista dalla
norma penale testé richiamata, di persona sottoposta alla sua autorità, il
che, sussistendo gli altri elementi previsti
dalla legge, permette di configurare a carico del datore di lavoro il reato
di maltrattamenti in danno dal lavoratore dipendente. Vi è da aggiungere che nel
caso di specie il rapporto interpersonale che legava autore del reato e vittime
era particolarmente intenso, poiché, a parte il contatto quotidiano dovuto a
ragioni di lavoro, nel corso delle lunghe trasferte, viaggiando su un unico
pulmino, consumando insieme i pasti e
alloggiando nello stesso albergo, si realizzava tra le parti un’assidua
comunanza di vita. Ma l’aspetto saliente della presente vicenda sta nel fatto,
diffusamente illustrato dai giudici del merito, che l’imputato, con ripetute e
sistematiche vessazioni fisiche e morali, consistite in schiaffi, calci, pugni,
morsi, insulti, molestie sessuali e, non ultima, la ricorrente minaccia di
troncare il rapporto di lavoro senza pagare le retribuzioni pattuite (minaccia
assai cogente, dato che il lavoro era svolto in nero e le retribuzioni venivano
depositate su libretti di risparmio intestati ai lavoratori, ma tenuti dal
datore di lavoro), aveva ridotto i suoi dipendenti, tra i quali una minorenne,
in uno stato di penosa sottomissione e umiliazione, al fine di costringerli a
sopportare ritmi di lavoro forsennati, essendo il profitto dell’impresa
direttamente proporzionale al volume delle vendite effettuate. Ne risulta,
dunque, una serie di atti volontari, idonei a produrre quello stato di abituale
sofferenza fisica e morale, lesivo della dignità della persona, che la legge penale designa col termine di maltrattamenti.“
La Corte ha anche approfondito la questione
dell'elemento soggettivo del reato rilevando come, accanto alla provata
sussistenza del dolo (la coscienza e volontà di ledere in modo abituale
l'integrità fisica e morale dei soggetti passivi) i giudici di merito avessero
anche correttamente individuato nella ricerca del massimo profitto il movente
dell`azione criminosa, movente tale da costituire l`humus sul quale si è
sviluppato il disegno sottostante ai singoli fatti di violenza e minaccia.
Nessun rilevo è stato attribuito alla prospettazione difensiva secondo la quale
i lavoratori si trovassero in realtà in situazione di sostanziale libertà,
potendo rassegnare le proprie dimissioni in qualunque momento con ciò facendo
cessare le vessazioni: la Corte ha confermato trattarsi di una libertà
puramente apparente, in considerazione del meccanismo con il quale il datore
effettuava (?!) il pagamento delle retribuzioni, ossia
depositando Ile relative somme su libretti di risparmio trattenuti da lui
stesso, laddove del tutto fondato poteva ritenersi il timore manifestato dalle
vittime che, in caso di dimissioni, si sarebbe verificato quanto era stato loro
minacciato, cioè la perdita delle retribuzioni già maturate. Sul punto si
potrebbe aggiungere che I`imputazione avrebbe potuto comprendere anche la
contestazione del reato di appropriazione indebita, essendo certamente
illegittimo il trattenimento da parte del datore di somme spettanti ai
dipendenti, o addiritura di estorsione sussistendone tutti gli estremi.
La Corte, sulla questione sollevata dalla
difesa degli imputati circa la possibilità di qualificare i fatti nell'ambito
del meno grave reato previsto dall'art. 571 C.P., abuso dei mezzi di correzione
e disciplina, ha escluso che le minacce costituissero manifestazione, seppure
abnorme, del potere disciplinare che competeva al datore quale responsabile
dell'attività produttiva, poiché l'abuso punito dall'art. 571 ha per
presupposto logico necessario l'esistenza di un uso lecito dei poteri di
correzione e disciplina, e quindi si verifica quando l'uso venga effettuato
fuori dei casi consentiti o con mezzi e modalità non ammesse dall'ordinamento,
laddove nel caso del rapporto di lavoro è assolutamente vietato il ricorso alla
violenza da parte del datore. D'altro canto mancherebbe, per potersi applicare
l'art. 571, anche la finalità di esercizio dello jus corrigendi, poichè in realtà gli
imputati perpetravano le vessazioni fisiche e morali non come punizione per
l'erronea esecuzione del lavoro o per episodi di indisciplina o per altri fatti
inerenti allo svolgimento dell'attività lavorativa, ma per costringerli a
sopportare ritmi di lavoro altrimenti intollerabili, riducendoli di tal guisa in
una condizione di sfruttamento di tipo schiavistico. La condotta afflittiva
posta in essere dagli imputati non perseguiva dunque il fine
educativo-correttivo che deve contraddistinguere l'uso dei mezzi di correzione,
ma mirava soltanto a scopi di lucro personale. Quanto al reato di violenza
privata, il titolare dell'impresa è stato ritenuto colpevole in applicazione
del principio stabilito dall'art. 40 C.P. secondo cui non impedire un evento che
si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo: quale sia l'obbligo
in questione emerge dal disposto dell'art. 2087 C.C., che impone ex contractu al
datore di adottare ogni misura necessaria a tutelare l'integrità fisica e la
personalità morale dei prestatori di lavoro. Non aver posto fine alle
vessazioni attuate dai capigruppo
sui lavoratori dipendenti pur essendone consapevole (ed addirittura traendone
lucro) integra omissione a tali doveri e quindi reato.
Anche in
ambito civilistico [7]
la giurisprudenza ritiene che la norma di imputazione prevista dal 2087
non configuri un'ipotesi di responsabilità oggettiva [8],
essendo necessario che l’evento dannoso occorso al lavoratore sia
ricollegabile ad un comportamento colposo del datore: “il requisito
soggettivo della colpa o del dolo rappresenta in entrambi i casi un elemento
costitutivo della fattispecie di illecito, dovendo comunque escludersi la
configurabilità di una responsabilità risarcitoria in base ad un criterio
puramente oggettivo per l’evento collegato al rischio dell’attività svolta
nell’interesse del datore di lavoro” [9].
Trattandosi di responsabilità colposa diventa necessario accertare se il
datore, con un giudizio di prognosi postuma, fosse in grado di rappresentarsi
l’evento dannoso al quale ha dato causa vuoi per colpa specifica (non avendo
osservato “leggi o discipline” tra le quali certamente v’è l’art. 2087 [10]
) vuoi per colpa generica (avendo posto in essere condotte od
omissioni connotate da imperizia, imprudenza o negligenza) vuoi per dolo
(essendosi rappresentato l’evento ed avendolo anche voluto nel caso di dolo
diretto, oppure avendo accettato il rischio che il danno si verificasse nel caso
del dolo eventuale). In linea di massima il difetto di rappresentazione ex ante
dell’evento dannoso da parte del datore lo assolve da responsabilità [11],
purché naturalmente egli sia in grado di dimostrare di aver assolto a
tutti gli obblighi di predisporre misure
tecniche idonee ad evitare il danno.
In
sede penale, le modalità operative con cui si applica civilisticamente il
criterio di imputazione ex art. 2087 dovranno invece fare i conti con un
autonomo atteggiarsi dell’elemento psicologico del reato: nel caso esaminato
dalla Cassazione, trattandosi di imputazione per il delitto di violenza privata
che è reato doloso, è stato necessario provare la sussistenza del dolo in capo
al datore di lavoro, non potendo il giudice penale limitarsi ad imputargli a
titolo di colpa l’omessa predisposizione
degli strumenti di tutela, o l’omessa vigilanza.
4.
Mobbing e imputazione per il reato di lesioni a carico del datore
Il
criterio di imputazione della responsabilità ai sensi dell’art 2087 CC può assumere
rilevo in sede penale nel caso in cui venga contestato al datore il delitto di lesioni
colpose per violazione delle norme di tutela laburistiche.
L'art. 2087, che pur non contiene prescrizioni di dettaglio, non si risolve in una mera norma di principio ma deve considerarsi inserito a pieno titolo nella legislazione antinfortunistica di cui costituisce norma di chiusura, peraltro comportante a carico del datore di lavoro precisi obblighi di garanzia e protezione ai fini individuali. La norma, per il richiamo alla tutela dell'integrità fisica del lavoratore e alla particolarità del lavoro, rende specifico l'illecito consumato in una sua violazione sia rispetto alla colpa generica richiamata nell'art. 2043 che rispetto a quella di rilievo penalistico e, in tal caso, aggrava il reato, rendendolo pure perseguibile d’ufficio: ogni violazione colposa comunque riconducibile all'obbligo generico posto dall'art. 2087 integra infatti, secondo la giurisprudenza [12], l’elemento della colpa specifica tale per cui, laddove dall’omissione della cautele preventive sia derivato un danno al lavoratore, si giustifica l’imputazione del delitto di lesioni colpose a carico del datore di lavoro.
Sul punto, rilevo anche la condivisibile posizione di chi [13] ricostruisce la disposizione di cui all’art. 2087 in termini di colpa generica partendo dal presupposto per cui la norma, a ben vedere, altro non prevede se non la declaratoria dell’obbligo generale di diligenza, sicché non basta la circostanza formale che tale obbligo sia trasposto in una norma di legge per elevarlo da criterio di colpa generica a criterio di colpa specifica.
Venendo alla materia che ci interessa, se poniamo mente ai casi in cui la condotta del mobber è di efficacia lesiva tale da cagionare alla vittima una condizione patologica, di natura vuoi fisica vuoi - come più facilmente può accadere- psichica, ci troviamo certamente nell’ambito di un delitto di lesioni. A seconda dell’atteggiarsi dell’elemento soggettivo da valutarsi caso per caso, il reato potrà essere ascritto al soggetto agente (il mobber diretto, che può anche essere il datore di lavoro nel caso di mobbing verticale così come un collega nel caso del mobbing orizzontale) a titolo di dolo o di colpa e quindi configurarsi come delitto di lesioni dolose ex art 582 C.P. o di lesioni colpose ex art 590 C.P.; a carico del datore di lavoro, sempre che la condotta non sia gli sia direttamente attribuibile per esserne stato l’autore od il coautore in concorso con altri, potranno configurarsi gli stremi del reato di lesioni colpose per violazione del dovere di garantire la sicurezza e la salubrità del luogo di lavoro, oltre che di vigilare affinché non si creino situazioni ambientali tali da nuocere alla salute psico-fisica dei dipendenti. In questi casi la norma di imputazione non potrà che essere, ancora una volta, quella di cui all’art. 2087 C.C.
Queste considerazioni ci introducono ad esaminare una interessante sentenza del Tribunale di Torino [14] che, pur non riguardando un canonico caso di mobbing, tuttavia fa esplicito riferimento alla fattispecie ad ai precedenti giurisprudenziali in materia citandoli in un obiter dictum.
Ciò che manca per qualificare “mobbing” la storia lavorativa estrema portata alle cure del giudice torinese è la sussistenza di un disegno teso a logorare il dipendente al fine di eliminarlo dall’organigramma, vuoi con licenziamento (che pure in quel caso c’è stato) vuoi con induzione alle dimissioni: qui si trattava di un lavoratore costretto per vent’anni, nonostante lo stato salute malfermo, a turni di lavoro massacranti, senza però che ciò fosse un trattamento a lui solo riservato per una delle finalità tipiche del bossing (o anche del mobbing orizzontale) poiché si trattava dell’unica modalità che la società datrice conosceva per far fronte in economa al notevole carico di lavoro. Un caso di sfruttamento del lavoro, se vogliamo, ma non di vero e proprio mobbing.
La sentenza è comunque interessante perché rappresenta uno spaccato di vita lavorativa in cui il valore dell’uomo ha ormai perduto irrimediabilmente ogni peso, che è il terreno nel quale il mobbing trova il proprio ambiente ideale.
La
sentenza - con la quale, diciamolo subito, il Tribunale ha condannato il
presidente e direttore generale della società datrice di lavoro a 6 mesi di
reclusione per il reato di lesioni colpose ex art. 590 C.P. [15]
- riguarda il
caso di una guardia giurata di un importante istituto di vigilanza la quale, per
tutta la durata del ventennale rapporto lavorativo terminato con licenziamento,
era stata sottoposta a turni di lavoro stressanti, che prevedevano, oltre ai
servizi di piantonamento effettuati prevalentemente di notte, un numero di ore
di straordinario assai elevato e senza soluzione di continuità rispetto ai
turni di notte oltre che, quasi sempre, senza concessione del giorno di riposo
e, soprattutto, le ferie durante il periodo estivo. Periodo che, anzi, il
Tribunale ha accertato essere, unitamente a quello natalizio, il “più
massacrante”.
Il
giudice ha altresì accertato che la società, nell’affidare le varie
destinazioni alle proprie guardie giurate (servizi interni od esterni, notturni
o diurni), non teneva in alcuna considerazione le capacità e le condizioni di
salute dei lavoratori, omettendo sia di sottoporli ad un regolare controllo
sanitario in funzione dei rischi specifici cui essi venivano esposti, sia di
porre a loro disposizione i necessari strumenti di protezione individuale, sia
di tenere in qualche conto le certificazioni mediche che attestavano la natura
professionale di certi stati morbosi in cui alcuni dipendenti erano caduti per
via delle mansioni cui continuativamente venivano adibiti. Nel caso specifico
della guardia giurata di cui si discuteva nel processo, la direzione aveva
atteso che questa subisse parecchi infortuni (dovuti alle condizioni di lavoro)
sino a patire un infarto, prima di sottoporla ad un accertamento sanitario
urgente da parte del responsabile del servizio di medicina legale della U.S.L. a
seguito del quale era risultato come il dipendente fosse “inidoneo in modo
permanente a servizi armati tipo guardia giurata, soprattutto in turni
lavorativi notturni, ma ricollocabile in attività che richiedono minor impegno
psico fisico e minor impegno di energie e/o minore stress, come i lavori di
ufficio e similari”. D’altra parte quel lavoratore era stato assunto dalla
società che, come risultava dalla visita medica pre-assunzione, già era a
conoscenza della sua inidoneità all’esercizio delle mansioni tipiche degli
addetti ad un corpo di vigilanza privata, essendo invalido al 40% in conseguenza
di un incidente stradale avvenuto anni prima.
Ebbene,
ad un soggetto di tal costituzione fisica venivano imposti turni di dodici ore
continuative di lavoro che normalmente diventavano diciotto col meccanismo degli
straordinari de facto obbligatori, a pena di “ritorsioni e ripicche” consistenti
nel “non proporre lo straordinario quando eventualmente il lavoratore
avesse avuto urgente bisogno di guadagnare di più o nel mandare il lavoratore
nei posti più scomodi, dall’altra parte della città, oppure nell’assegnare
turni nei quali il dipendente terminava la notte da una parte e doveva
intraprendere subito dopo il diurno dall’altra parte di Torino”.
Il dipendente, per via delle patologie di cui soffriva e delle modalità
stressanti delle prestazioni
lavorative impostegli “in uno situazione di terrorismo psicologico che
costringeva il dipendente a non richiedere ciò che gli spettava, a non farsi
mai avanti, a non polemizzare sui turni di notte e sulle mancate ferie, per
paura di essere licenziato”, era caduto in uno stato di depressione sempre
più grave; e secondo il Tribunale, “il datore di lavoro che non si fa
carico di salvaguardare la dignità, la salute e la sicurezza del proprio
dipendente, mortificando le sue aspettative e, omettendo di adeguare
l’organico aziendale alle effettive necessità, impone un superlavoro con
orari e turni che ledono quei diritti fondamentali; contribuisce a produrre nel
lavoratore una progressiva sfiducia nelle proprie capacità, nonché stati di
depressione che, in alcuni casi, possono condurlo anche al pensiero di gesti
anticonservativi…e si può rendere responsabile, con il proprio comportamento
omissivo, di eventuali malattie professionali che eventualmente ne scaturiscano.
E che consistono, come è stato evidenziato, in quelle patologie che, a
differenza degli infortuni, dipendono da un’azione lesiva operante non con
rapidità, bensì con gradualità”.
Il
giudice sgombera il campo delle eccezioni formulate dagli imputati circa la
predisposizione e le preesistenze patologiche del lavoratore, facendo corretta
applicazione dei principi espressi dalla più recente giurisprudenza in tema di
concorso tra fattori dipendenti da condotta umana e fattori naturali nella
causazione di un evento, laddove le cause naturali non assumono rilevanza
dirimente o diminuente rispetto alle concorrenti concause umane [16]
, e scrive:“ il datore
di lavoro, nel momento in cui decide di assumere un soggetto che presenta una
labilità psicologica, deve tenerne conto nell’affidamento al medesimo delle
mansioni da svolgere. La destinazione di quel tipo di soggetto a turni di lavoro
massacranti, infatti, può esporre lo stesso al rischio di insorgenza di
patologie più gravi – come è avvenuto nel caso di specie – ed in tal modo
costituire, se non la causa determinante, almeno una concausa di quelle
patologie. Invero, una infermità generica, da cui un soggetto sia affetto, può
avere una evoluzione in senso peggiorativo a causa delle modalità di
svolgimento di un lavoro che, pur non essendo di per sé particolarmente
stressante, può, comunque, influire sul determinismo di particolari patologie,
assumendo un ruolo di concausa necessaria e determinante dell’evento, senza
che, in contrario, rilevi la naturale predisposizione
del soggetto all’insorgenza della patologia”. Per tali ragioni,
il Tribunale ha attributo a responsabilità del datore l’infarto subito dal
lavoratore durante uno di quei turni massacranti cui era adibito, condannandolo
per il reato di lesioni colpose.
5.
Il caso della Palazzina L.A.F. dell’Ilva di Taranto
Una
sentenza che ha avuto ad oggetto in sede penale un angosciante caso di mobbing
è la sentenza n. 742 pronunciata dalla seconda sezione penale del
Tribunale
di Taranto il 7 marzo 2002 (giudice Chiarelli) [17] , con
la quale sono stati giudicati con le seguenti imputazioni per il reato di tentata
violenza privata (art. 610 C.P.) i vertici amministrativi e dirigenziali
dell’I.L.V.A. [18]
: aver compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco ad
indurre mediante minacce un impiegato a rinunciare a proseguire nella causa di
lavoro precedentemente instaurata nei confronti della società datrice di
lavoro, ed una cinquantina di impiegati ad accettare la novazione del rapporto
di lavoro subordinato con declassamento dalla qualifica professionale di
impiegato a quella di operaio, senza riuscire nell'intento a causa
del diniego opposto dalle persone offese; la minaccia - poi attuata - consisteva
in tutti i casi e sistematicamente nella prospettazione che, ove non si fosse
piegato a rinunciare alla causa, sarebbe stato trasferito alla
"Palazzina Laf" (Laminati a Freddo), ove era sicuramente prevedibile
la inevitabile sottoposizione ad un regime lavorativo umiliante e peggiorativo
rispetto alle aspirazioni legittime del dipendente, al miglioramento e alla
tutela delle sue attitudini professionali e consistente nella mancata
assegnazione di qualunque tipo di incarico e attività operativa,
sì da dover trascorrere, peraltro in un ambiente non decoroso e trascurato, le
ore prescritte in una situazione di assoluta inerzia, lesiva della dignità del
lavoratore stesso, con ciò determinando da un lato il prevedibile ed
inevitabile peggioramento delle sue capacità professionali e, dall'altra,
l'avvilimento del suo legittimo diritto ad espletare un'attività lavorativa
decorosa e confacente ai principi tipici di un equilibrato rapporto di lavoro,
subordinando il ripristino di un normale rapporto alla accettazione della
proposta di rinuncia alla causa di lavoro, lasciando perdurare a tempo
indeterminato la negativa situazione descritta a fronte del perdurante
diniego opposto dall'interessato.
Il
giudice si rende conto di avere a che fare con un caso quasi da manuale (nella
sua tragicità) di bossing e mostra di conoscerne con sicurezza i lineamenti ma,
nell’ampia motivazione, tiene a precisare che “ritiene comunque non
praticabile la via della qualificazione e classificazione dei fatti oggetto del
processo secondo schemi e definizioni che
non siano stati fatti propri dal legislatore, lasciando ad altri le
valutazioni sul se e sul come il caso in esame integri una ipotesi tipica di
mobbing o di bossing. Occorrerà, piuttosto, soffermarsi su quelli che sono
stati i fatti emersi al processo e sulla loro qualificazione giuridica in
termini di diritto esistente e codificato, rilevando subito come tale diritto si
sia rivelato più che sufficiente a coprire i fatti oggetto di contestazione.
Con l'enfasi che normalmente accompagna le richieste delle parti pubbliche e
private, è stata invocata una pronuncia severa, una pronuncia che coniughi la
legge con la giustizia intesa anche in senso
morale ed etico, una pronuncia che ristabilisca il senso della legge e
ridia dignità a tutto il sistema, gravemente leso dalle condotte degli
imputati. Anche sotto questo aspetto, chi giudica, molto più semplicemente,
ritiene che il suo compito sia solamente quello riconosciutogli dalla legge, di
decidere cioè se certi fatti integrino meno le fattispecie contestate e, in
caso affermativo, di comminare la pena giusta e congrua, alla luce dei criteri
dalla legge indicati, al di là di ogni altra possibile valutazione.”
Non si può non apprezzare, da operatori pratici, l’atteggiamento col quale il giudice ha approcciato il caso, dichiarando sin da subito di non voler dare alle stampe un leading case e di sentire il bisogno di “dire la sua” a tutti i costi: la scelta di stile merita di non esser sottaciuta perché in un settore in cui la consapevolezza di trovarsi in zona di frontiera inesplorata potrebbe muovere alcuni giudici a sforzarsi di parlar di mobbing più per esprimere la propria opinione sui se sui come della nuova fattispecie che per definire il giudizio con una pronuncia giurisdizionale. L’apprezzamento di chi scrive per l’uno (più asettico) come per l’altro (più “impegnato”) approccio è comunque totale, posto che ci troviamo in un settore come quello del mobbing in cui è ancora di formazione pretoria sia il momento delle definizioni e dell’inquadramento sia quello della disciplina, per cui ben venga la maggior varietà di sentenze sulle quali calibrare gli studi scientifici e le strategie processuali.
Bisognerebbe piuttosto augurarsi che il legislatore - laddove un giorno intendesse intervenire a far “chiarezza” con risultati un po’ più esaltanti di quelli a suo tempo ottenuti da un legislatore regionale pioniere e coraggioso con un atto che (com’era prevedibile) è stato prontamente spedito mittente dalla Consulta - prendesse esempio dalle corti che per prime hanno affrontato il problema con approccio scientifico e multidisciplinare, tenendo conto del background della migliore psicologia del lavoro e degli arresti della giurisprudenza. Mi riferisco, tre le tante sentenze degne di nota che sono state via via pubblicate e di cui il lettore troverà ampia documentazione in questo stesso trattato, per esempio alle due pronunce del 1999 del Tribunale di Torino (est. Ciocchetti), a quella del Tribunale di Forlì del 2001, a quella del Tribunale di Tempio Pausania del 2002, alle due sentenze del Tribunale di Pinerolo del 2003 (est. Reynaud).
Ma
torniamo alla sentenza del Tribunale di Taranto.
Che cosa succedeva alla Palazzina Laf ? Secondo accordi presi a livello ministeriale al momento del passaggio al gruppo Riva della titolarità dello stabilimento Ilva di Taranto, la nuova proprietà si era impegnata a mantenere un certo livello occupazionale assorbendo il personale di tre società collegate. Ebbene, sin da subito si erano manifestati dissidi tali da comportare la rottura delle relazioni sindacali: i nuovi titolari dello stabilimento, che entro il termine di un anno dalla messa in mobilità dei dipendenti delle tre consociate avrebbero dovuto procedere alle assunzioni, avevano unilateralmente rimesso tutto in discussione rifiutandosi di assorbire quegli impiegati se non a seguito di specifici provvedimenti giurisdizionali richiesti dalle associazioni sindacali; una volta eseguite obtorto collo le assunzioni, i vertici aziendali avevano dato vita ad odiosi sistemi di pressione per convincere i nuovi impiegati ad accettare una “retrocessione” alla qualifica di operaio. Ebbene, il mezzo di pressione principale era il trasferimento alla palazzina Laf, una struttura fatiscente in cui gli impiegati “riottosi” venivano ghettizzati, del tutto privati di effettive mansioni.
Come
dice il giudice, la funzione intimidatoria della Palazzina “non era tanto e
solo ricollegabile all'idea di un luogo dove non si lavorava, dove concetti
quali mansioni e professionalità certo non potevano albergare, ma era anche
simbolica, in quanto rappresentava l'allontanamento traumatico dal mondo del
lavoro, il precipitare di una situazione lavorativa sino ad allora normale, la
possibile anticamera del licenziamento, la fine di ogni possibilità di
continuare a fare ciò per il quale si era stati assunti. Ecco il fulcro del
senso intimidatorio della palazzina laf, la sua forza di coazione, il
significato di prospettazione di un male ingiusto, poi concretamente
realizzatosi. Male ingiusto rappresentato da quello che, paradossalmente, poteva
essere visto per i dipendenti come la fine della parentesi buia, come l'uscita
dal tunnel della laf e cioè il ricollocamento all'interno dell'azienda in una
qualifica diversa ed inferiore rispetto alla propria; da un lato, cioè vi era
la prospettata impossibilità di continuare a lavorare secondo la propria
qualifica di appartenenza. accompagnata dall'effettivo, immediato, brusco ed
immorale allontanamento dalla realtà produttiva, dall'altro l'alternativa di
potervi rientrare alla sola condizione umiliante di accettare un forte
declassamento professionale. In questo meccanismo sottile, pertanto, pare
davvero lampante la sussistenza della coartazione, pare davvero evidente il
subdolo condizionamento, posto al lavoratore, al fine di fargli accettare la
novazione.”
Vediamo ora come il Tribunale ha inserito le condotte accertate nell’alveo del delitto di violenza privata, fattispecie posta a tutela della liberà morale di autodeterminazione sia nel momento della formazione e manifestazione della volontà del soggetto passivo sia nel momento successivo dell’attuazione della volontà.
Posto che la minaccia deve consistere nella prospettazione di un male ingiusto, ossia nella lesione o messa in pericolo di un “bene della vita” materiale o immateriale, è l’elemento della coartazione nella volontà a distinguere per specificazione il delitto di violenza privata da quello meno grave di minaccia: mentre per la sussistenza della minaccia è sufficiente che l'agente eserciti la sua azione intimidatoria in senso generico, trattandosi di reato formale con evento di pericolo, immanente nella stessa azione, la violenza privata presenta un quid pluris, essendo la minaccia diretta a costringere taluno a fare, tollerare od omettere qualcosa, con evento di danno, costituito dall'essersi l’altrui volontà estrinsecata in un comportamento coartato.
Se il male ingiusto minacciato ha i connotati del danno patrimoniale e se vi si correla un ingiusto profitto anche non patrimoniale in capo all’agente, in base ad una ulteriore specificazione il reato sarà non più quello violenza privata ma il più grave di estorsione.
“Quando
si parla di condotta di coartazione nel delitto di violenza privata. secondo
nozioni generali di diritto penale, con riferimento alla violenza, sia assoluta
che relativa, si intende l'uso di qualsiasi energia fisica da cui derivi una
coazione personale; con riferimento alla minaccia, si intende la prospettazione
di un male futuro, il cui verificarsi dipende dalla volontà dell'agente, che
riguardi non solo la vita e l'incolumità della persona, ma che può anche
riguardare la libertà, il pudore, l'onore ecc. del soggetto passivo. La
minaccia utile a configurare il reato di violenza privata, quindi, consiste in
un'attività del soggetto agente che pone le condizioni necessarie per la
verificazione del male prospettato e dipendenti dalla sua volontà, per evitare
il quale la vittima è costretta ad un determinato comportamento. Quando poi si
parla di minaccia implicita, si ritiene sufficiente a configurarla un
atteggiamento intimidatorio, quando questo, in considerazione delle condizioni
ambientali in cui l'episodio si svolge. sia idoneo ad eliminare o ridurre
sensibilmente nella vittima la capacità di determinarsi liberamente. Nel caso
di specie sono state riscontrate, oltre alla illegittimità della condotta e
alla sua finalizzazione alla creazione di un danno ingiusto, il carattere,
quanto meno, minaccioso di detta condotta: si potrebbe sostenere, a ragione, che
la condotta degli imputati abbia anche integrato gli estremi della violenza
relativa, "della vis compulsiva", invece che quelli della minaccia
pura e semplice, o che, addirittura, abbia integrato entrambe tali forme. Nei
casi di "vis compulsiva", infatti, la persona offesa dal reato viene
spinta ad un determinato comportamento, sotto la pressione della causazione di
un male attuale (l'effettivo invio alla palazzina laf nel caso concreto),
producendo nel soggetto passivo quel perturbamento psichico che lo spinga a
tenere quella azione (la novazione del contratto) od omissione che altrimenti
non avrebbe tenuto. Per cui, pur se è innegabile che la "vis compulsiva"
contenga per lo più elementi di minaccia, essa si distingue dalla mera
minaccia: quest'ultima, infatti, si concreta in una causazione eventuale di un
male futuro, dipendente dalla volontà del soggetto agente, che è solo
annunciata, mentre la prima consiste nella predisposizione dei presupposti per
una verificazione immediata del male. Potrebbe anche dirsi che nel caso di
minaccia "si ha una angoscia anticipatoria per un evento percepito come
pericoloso o dannoso per la vittima, mentre la violenza implica come conseguenza
una destrutturazione della personalità in atto reale o effettiva".
Qualunque soluzione si intenda prediligere, e sembra davvero possibile dire che
la condotta di tutti gli imputati abbia integrato prima gli estremi della mera
minaccia e poi quella della coazione relativa, quel che è certo è che detta
condotta, adeguatamente specificata in contestazione (dove si è letto sia della
mera minaccia di andare a finire alla palazzina Laf e sia dell'effettivo
trasferimento a detta palazzina - coazione relativa -), è apparsa assolutamente
idonea a configurare quella lesione alla libertà di autodeterminazione delle
vittime del reato.”
Nessun
dubbio, secondo il Tribunale, circa l’efficacia della minaccia: quasi tutti
gli inviati alla palazzina Laf erano impiegati cinquantenni di alto livello con
anzianità lavorativa trentennale e famiglia a carico, una posizione così poco
appetibile in un mercato del lavoro asfittico come quello locale da porli in
condizione di oggettiva debolezza e quindi di particolare sensibilità alla
minaccia. La minaccia dunque era la possibile espulsione dal mondo del lavoro
attraverso l'invio alla palazzina intesa come punto di non ritorno e come regime
umiliante, dal quale si poteva uscire solo accettando il demansionamento: “la
palazzina Laf…rappresenta quel "girone dantesco", per usare una
efficace espressione usata nel corso della discussione del PM, "quel luogo
senza tempo", “quel purgatorio in terra”, "quel marchio
dell'inutilità e dell'infamia" (per ricorrere a delle espressioni usate in
sede di discussione delle parti civili), nel quale si era sottoposti ad un
regime di vita umiliante a "tempo indeterminato" e dal quale si poteva
uscire solo accettando la novazione.”
Il
delitto di violenza privata, quale reato di evento, si consuma nel momento in
cui il soggetto passivo ha compiuto l'azione
richiesta dall'autore sotto l'effetto dei mezzi coercitivi: nel caso di
specie il giudice ha ritenuto che le minacce cui erano stati sottoposti i
lavoratori fossero tali da rendere inequivocabilmente prevedibile che dalle
stesse sarebbe potuto derivare l'evento lesivo finale, rappresentato dalla coartazione
della volontà dei lavoratori e dall'accettazione della novazione. Il
Tribunale ha individuato il momento consumativo del reato di tentata violenza
privata nel primo colloquio [19] con cui agli
impiegati veniva prospettata l’alternativa tra accettare la novazione in peius
od essere sottoposti ad libitum al regime mobbizzante vigente nella palazzina;
nei casi in cui la minaccia era stata meno esplicita, la consumazione del reato
cade nel momento dell'effettivo invio alla palazzina,
ossia quando alla minaccia si è aggiunta la predisposizione concreta dello strumento idoneo al verificarsi immediato ed attuale del male. Quanto
all’elemento psicologico del reato in capo ai vertici aziendali, il Tribunale
non ha avuto bisogno di ricorrere alla costruzione logica del “non poteva non
sapere” per ritenerne provata la responsabilità a titolo di concorso, essendo
emerso un loro coinvolgimento diretto nel
realizzare le condotte criminose.
In un caso come quello esaminato e deciso del Tribunale di Taranto si sarebbe forse potuto individuare, anziché il delitto di violenza privata, quello più grave di estorsione di cui all'art. 629 C.P. il quale, come osservato poco sopra, a parità di condotta se ne distingue per il fine specifico di conseguire un ingiusto profitto, con la consapevolezza che quanto preteso non è giuridicamente dovuto, con danno altrui[20].
Nel caso
in esame infatti il fine perseguito dai vertici aziendali era certamente quello
di procurasi l’ingiusto profitto patrimoniale (pari all’ingiusto danno patrimoniale
per i lavoratori) consistente nella minore retribuzione che gli impiegati avrebbero
percepito se avessero accettato la degradazione alla qualifica operaia; nei casi
più gravi in cui le condotte mobbizzanti avessero portato il lavoratore alle
dimissioni, il profitto (ed il correlato danno) sarebbe consistito nel liberarsi
del dipendente e quindi dell’onere di
retribuirlo.
A
tal proposito, pare più condivisibile Cass. pen. 18 marzo 1986 che individuava
il delitto di estorsione anziché quello di violenza privata in un caso
in cui “le persone offese, coartate, vessate, maltrattate e suggestionate,
erano state costrette, alle dipendenze dell'imputato, a lavori ingrati per conto
di questi, senza ricavarne alcuna retribuzione, salvo il minimo di sostentamento
per una mera sopravvivenza”, piuttosto
che la pronuncia più recente del Tribunale di Camerino, 4 giugno 1993 la
cui massima recita “rispondono del reato di violenza privata (e non anche
di tentata estorsione) i datori di lavoro che, con continue minacce, vessazioni
e offese, abbiano costretto una lavoratrice dipendente a dimettersi dopo che era
rimasta incinta, al fine di evitare gli oneri economici conseguenti alla
maternità”.
Osserviamo infine che la giurisprudenza della sezione lavoro della Cassazione [21] in tema di dimissioni “sollecitate” con la minaccia di licenziamento è costantemente nel senso che, per annullare le dimissioni perché estorte con violenza morale, è necessario accertare se sussista o meno l’inadempimento che il datore abbia addebitato al dipendente: la minaccia del licenziamento per giusta causa si configura come prospettazione di un male ingiusto di per sé, invece che come minaccia di far valere un diritto (art. 1438 c.c.), solo ove si accerti l'inesistenza del diritto del datore di lavoro al licenziamento, per l'insussistenza dell'inadempienza addebitabile al dipendente.
Se invece il risultato perseguito dall’autore della minaccia si riveli abnorme o diverso da quello conseguibile attraverso il legittimo esercizio d’un diritto o comunque esorbitante ed iniquo rispetto al suo oggetto, si potrà parlare di dimissioni estorte.
6.
Il mobbing nel pubblico impiego: l’abuso d’ufficio
Riteniamo
prospettabile l’ipotesi per cui, nell’ambito del pubblico impiego e laddove
il mobber rivesta la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico
servizio, la condotta mobbizzante possa integrare il reato di abuso
d’ufficio [22] :l’art
323 C.P. punisce tali soggetti sia laddove agiscano in violazione di precisi
doveri stabiliti da leggi o regolamenti (anche di contenuto disciplinare e
procedimentale), sia quando non ottemperino
ad obblighi di astensione previsti dalla legge.
La
giurisprudenza [23] specifica che
la violazione di "norme di legge o di regolamento" deve comportare la
riconoscibile sussistenza di un nesso di derivazione causale fra detta
violazione e l'evento costitutivo dell'ingiusto vantaggio patrimoniale proprio o
altrui e dall'ingiusto danno altrui; il che può verificarsi solo con
riferimento a norme che siano dotate di specifico contenuto precettivo, la cui
inosservanza vada ad incidere su posizioni soggettive "sostanziali" (o
finali), con esclusione, per converso, dei casi in cui l'inosservanza abbia ad
oggetto norme meramente programmatiche (come quella dettata dall'art. 97 cost.
sul buon andamento e l'imparzialità della p.a.) [24]
, ovvero norme procedurali destinate a svolgere la loro
funzione solo all'interno del procedimento, senza
incidere in modo diretto o mediato sulla c.d. fase decisoria di
composizione del
conflitto di interessi materiali oggetto di valutazione amministrativa, e ciò
tenendo inoltre presente che l'ingiustizia della condotta, in quanto costituita
da violazione di norme di legge o di regolamento ovvero da omessa astensione nei
casi in cui questa è obbligatoria, può non dar luogo alla ingiustizia
dell'evento, parimenti necessaria per la sussistenza del reato, quando quell'evento
(vantaggio proprio o altrui ovvero danno del terzo), corrisponda a una posizione
soggettiva meritevole di essere giuridicamente tutelata, quale, ad esempio, un
potere della p.a., un diritto soggettivo o un interesse legittimo del terzo o
del soggetto attivo considerato nello
"status" di p.u. o di incaricato di pubblico servizio.
La Suprema Corte [25], quando ancora la tematica del mobbing non si era affacciata alla ribalta delle aule giudiziarie, aveva avuto modo di chiarire che in tema di abuso d'ufficio, la modifica legislativa operata dalla legge 26 aprile 1990, n. 86 ha introdotto nella struttura del reato il requisito della doppia ingiustizia, nel senso che deve essere contra legem non solo la condotta, ma anche il fine perseguito dall'agente, sicchè il reato in esame non sussiste quando, pur essendo illegittimo il mezzo impiegato, il fine di danno o di vantaggio non sia di per sè ingiusto. Tale interpretazione deriva sia dal tenore letterale della norma, che menziona separatamente l'abusività della condotta e l'ingiustizia del fine, sia dalla ratio di sottrarre alla sanzione penale quelle ipotesi in cui, sia pure attraverso un comportamento materiale formalmente illegittimo (perchè viziato da incompetenza relativa o da violazione di legge), si persegua un fine di per sè legittimo. Abbiamo osservato, nel paragrafo introduttivo, che il fine perseguito dal mobber di per sè non può mai ritenersi legittimo, sia quando egli mira ad indurre la vittima alle dimissioni o ad accettare condizioni altrimenti inaccettabili, sia quando ci si trovi davanti ad un caso di mobbing “ludico”, di nonnismo lavorativo, dove l’agente è mosso dal mero, abietto, fine di divertirsi alle spalle del mobbizzato. Se così stanno le cose, se la strategia mobbizzante è tale da connotare di illiceità tanto la condotta quanto il fine perseguito, nel settore pubblico potrebbe diventare facile individuare nell’art 323 C.P. quella specifica norma incriminatrice del mobbing che invece manca nell’ambito del lavoro alle dipendenze di un datore privato.
Segnalo
sul punto due pronunce di notevole interesse, aventi ad oggetto la stessa vicenda
dapprima in fase di merito, poi di legittimità.
Con
sentenza del 10 giugno 1996 il Tribunale di Modena (Pres.
Berlettano, Est. Plazzi;, imp. Genazzani) così ha statuito: “risponde di
abuso d'ufficio il direttore di una clinica universitaria il quale,
nell'impartire le direttive relative alla definizione dei turni, non si sia
attenuto ai criteri oggettivi di competenza, di equa distribuzione del lavoro,
di rotazione nei vari settori di pertinenza, che traducono i più generali
principi d'imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa, escludendo
dall'attività di sala operatoria l'aiuto primario, intendendo arrecargli un
danno ingiusto, per ragioni di personale inimicizia.”
Questo il caso: un medico del policlinico universitario, professore associato di clinica ostetrica-ginecologica, accusa il direttore della clinica di ginecologia ed ostetricia di aver abusato del proprio pubblico ufficio di al fine di arrecargli un ingiusto danno escludendolo dall'attività di sala operatoria (fatto per il quale il direttore viene poi condannato) oltre che di una serie di altre condotte, per le quali tuttavia il Tribunale non ha ravvisato profili di illiceità - non avendo riscontrato un esercizio dei poteri del pubblico ufficiale per scopi diversi da quello del pubblico interesse e segnatamente per scopi di ritorsione e vendetta - quali la revoca al denunciante delle funzioni apicali e dell'incarico di responsabile tecnico dei consultori familiari della Usl, la revoca dell'incarico di responsabile del servizio di diagnosi prenatale, l’inserimento discriminante del professore associato in turni di guardia festiva o prefestiva e/o notturna più gravosi rispetto ad altri colleghi. L’inimicizia tra i due medici, da sempre in contrasto sulle modalità di gestione dei servizi della clinica cui erano addetti, era scoppiata in maniera dirompente quando, a seguito della pubblicazione su giornalistica della notizia del decesso di un feto durante il parto avvenuto nella clinica ostetrica di alcune interviste rilasciate su tale vicenda dal professore associato il quale aveva incolpato del fatto l’intera organizzazione ospedaliera, il direttore della clinica aveva comunicato al rettore dell'università di non intendere confermare la propria fiducia quale suo sostituto nella gestione del rapporto con la struttura consultoriale, ed aveva fatto sì che il consiglio di facoltà non gli rinnovasse l’attribuzione delle funzioni apicali. L’associato dunque riteneva che il direttore, stizzito per la pubblicità negativa derivata a lui ed alla clinica dalla diffusione della notizia della morte del feto, avesse colto l’occasione per porre fine ad una sorta di contrasto antagonistico sviluppatosi nel corso degli anni precedenti mediante l’adozione deal descritta serie di misure ritorsive ai suoi danni.
Vediamo
in base a quale ragionamento giuridico il Tribunale ha ritenuto che, almeno per
una delle condotte del direttore, ossia l’esclusione del professore associato
dall’attività di sala operatoria, fosse ravvisabile la violazione dell'art.
323 C.P : “va in primo luogo rilevato che figurano violazioni dell'art. 323
c.p. non solo il porre in essere atti o provvedimenti amministrativi ma pure
tutti quei comportamenti di fatto costituenti manifestazioni dell'attività
amministrativa, che concretizzano un uso deviato o distorto dei poteri
funzionali. Nel caso in esame infatti non risulta che esistessero formali
provvedimenti del primario in ordine alla formazione dei turni di sala
operatoria: si è tuttavia accertato che le materiali operazioni di compilazione
di tali turni venivano effettuate sulla base delle direttive impartite dal
primario al quale peraltro spetta, tra l'altro, l'attività di programmazione e
di direzione dell'unità operativa affidatagli al cui fine «cura la
preparazione dei piani di lavoro e la loro attuazione... nel rispetto
dell'autonomia professionale operativa del personale», secondo quanto
stabilisce l'art. 63 d.p.r. 20 dicembre 1979 n. 761 (stato giuridico del
personale delle unità sanitarie locali) che per il richiamo operato dall'art.
31 dello stesso d.p.r. e dall'art. 102 d.p.r. 11 luglio 1980 n. 382 si applica
anche al personale docente universitario che esplica attività assistenziale in
convenzione con la Usl. Rientrava dunque tra i poteri-doveri dell'imputato anche
la definizione dei criteri per la formazione dei turni di sala operatoria
rispetto ai quali però, in base al combinato disposto delle norme già citate
nonché degli art. 7 d.p.r. 27 marzo 1969 n. 128 e 29 d.p.r. 20 dicembre 1979 n.
761 doveva esser sua cura, nelle modalità di assegnazione dei pazienti, il
rispetto di «criteri oggettivi di competenza, di equa distribuzione del lavoro,
di rotazione nei vari settori di pertinenza» e quindi il rispetto del diritto
del medico con qualifica
di aiuto all'esercizio «delle mansioni inerenti al suo profilo e posizione
funzionale». I fatti emersi nel corso dell'istruttoria denunciano un uso dei
poteri di direzione da parte del primario … immotivatamente difforme dai
criteri così espressamente indicati dalla
legge e che costituiscono traduzione del più generale principio di imparzialità
cui deve rispondere l'azione della pubblica amministrazione, in particolar modo
in un settore, quello della sanità pubblica, in cui i profili di pubblico
interesse si caratterizzano come di estrema rilevanza. Non è dunque
giustificabile che scelte indotte da una personale inimicizia influiscano sul
diritto della collettività a fruire pienamente delle professionalità in
servizio presso l'amministrazione sanitaria, escludendo un medico con qualifica
di aiuto primario dall'attività di sua specifica competenza.” Il
Tribunale ha quindi ritenuto dimostrata la sussistenza del dolo specifico di
procurare a sé od altri un ingiusto vantaggio non patrimoniale ovvero di
arrecare ad altri un danno ingiusto, dallo stretto collegamento temporale tra la
vicenda della morte del feto e l'immediata reazione del primario di escludere
l’associato dalle attività che gli competevano, nelle espressioni negative
formulate nei confronti del professore in presenza dei colleghi, nella
indifferenza alle richieste del professore di accedere agli ordinari turni della
sala operatoria: “da tali elementi può ben evincersi come l'imputato
avesse palesemente tradotto l'esercizio dei suoi poteri direttivi in una forma
di sanzione ai danni del M., colpevole di aver manifestato pubblicamente un
atteggiamento critico nei suoi confronti, e dunque avesse consapevolmente
utilizzato tali poteri per finalità individuali, diverse da quelle previste
dalla legge”.
In sede di giudizio di legittimità la Cassazione [26] ha poi dato una migliore e più moderna impostazione al problema della violazione di legge quale elemento costitutivo del reato di abuso d’ufficio, che peraltro si dimostra particolarmente utile nel nostro campo d’indagine: in sostanza, l’art. 2043 C.C. assurge ad una di quelle norme di legge la cui violazione comporta responsabilità penale per abuso d’ufficio.
“Alla
luce del recente orientamento giurisprudenziale espresso dalle sezioni unite
civili della Corte di cassazione (sent. n. 500 del 22 luglio 1999) secondo cui
deve riconoscersi all'art. 2043 c.c. il rango non più di norma
secondaria, volta a sanzionare con l'obbligo del risarcimento una condotta
vietata da altre norme, sebbene di norma primaria, volta a garantire la
riparazione di qualsivoglia danno ingiusto, identificabile nella lesione, non
giustificata da altre norme, di un interesse rilevante per l'ordinamento, deve
ritenersi configurabile il reato di abuso di ufficio, sotto il profilo della
produzione a taluno di un danno ingiusto, ogni qual volta il soggetto che
esplica una funzione o un servizio pubblico abbia posto in essere un'attività
da riguardarsi come illegittima dalla quale sia derivata non la lesione di un
interesse legittimo in sè considerato, ma la lesione dell'interesse al bene
della vita che risulta meritevole di protezione alla stregua dell'ordinamento ed
al quale l'interesse legittimo, secondo il concreto
atteggiarsi del suo contenuto, si collega”.
La
Corte osserva come la nuova formulazione dell’art 323 C.P., con
l’introduzione dell’inciso “in
violazione di norme di legge o di regolamento”, sia tesa ad escludere
dall’area della sanzionabilità penale le condotte dei pubblici
ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio poste in essere senza un
formale contrasto con positive disposizioni di normazione primaria o secondaria,
con “l’obiettivo precipuo, che si coglie in non equivoca dai lavori
preparatori della L.234/97, era di sottrarre all’intervento penale i
comportamenti affetti solo dal vizio dell’eccesso di potere, per i quali più
alti apparivano i cennati rischi di indeterminatezza previsionale e
(correlativa) impropria invadenza giudiziaria.”.
Ebbene,
le norme la cui violazione rilevi agli effetti del reato di abuso d’ufficio
non sono solo quelle la medesima alle sole norme che vietino puntualmente il
comportamento sostanziale del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico
servizio, poiché l’ingiusto vantaggio o il danno ingiusto possono causalmente
correlarsi anche alla violazione di norme di natura procedimentale atte ad
incidere sull’esito finale dell’attività amministrativa, con la sola
esclusione di norme puramente programmatiche come quella di cui all’art. 97
Cost. o altre di analogo contenuto (in tal senso, fra le altre, Cass. 11
febbraio 1999, Chirico). Ciò detto, vediamo come la Corte include l’art. 2043
C.C. nell’ambito delle norme al cui violazione può integrare abuso
d’ufficio, questione che “merita approfondimento con riguardo alla
particolare ipotesi dell’abuso “in danno”, e ciò alla luce della recente
evoluzione giurisprudenziale in tema di risarcibilità (del danno conseguente
alla violazione) degli interessi legittimi. Com’è noto, le Sezioni unite
civili di questa Corte, con la sentenza n. 500 del 22 luglio 1999, ribaltando un
orientamento consolidato da decenni , hanno ricostruito la norma dell’ art.
2043 c.c. in termini, non più (come in passato) di norma secondaria volta a
sanzionare una condotta vietata dalle altre norme (primarie), bensì di norma
primaria volta ad apprestare una riparazione del danno ingiustamente sofferto da
un soggetto per effetto dell’attività altrui. In tale ottica l’ingiustizia
del danno è correlata solo al presupposto che esso sia arrecato non iure, e cioè
attraverso la lesione, non giustificata da altra norma, di un interesse
rilevante per l’ordinamento. Tale interesse va riconosciuto attraverso la
comparazione fra lo stesso e quello perseguito dall’autore del fatto lesivo.
Nel caso del conflitto fra interesse individuale perseguito dal privato e
interesse sovraindividuale perseguito dall’autore del fatto lesivo. Nel caso
del conflitto fra interesse individuale perseguito dal privato e interesse
sovraindividuale perseguito dalla pubblica amministrazione, quest’ultimo
prevale, con sacrificio del primo, solo se l’azione amministrativa è
legittima. In caso contrario, quando l’attività illegittima abbia determinato
la lesione (non dell’interesse legittimo in sè considerato bensì)
dell’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo, secondo il
concreto atteggiarsi del suo contenuto, si collega, e che risulta meritevole di
protezione alla stregua dell’ordinamento,
il danno in tal guisa causato è risarcibile. Il comportamento del soggetto esplicante una funzione o servizi pubblici,
che causi un danno nei termini suddescritti, ricade dunque nell’ambito
operativo della norma primaria di cui all’
art. 2043 c.c. Ora questa, letta in congiunzione con le specifiche previsioni
inerenti all’interesse protetto di volta in volta leso, risponde certamente ai
requisiti di positività delle “norme di legge o di regolamento”, la cui
violazione rileva ai fini del novellato art. 323 c.p. Né in contrario, agli
effetti di un presunto contrasto con le illustrate esigenze di
“determinatezza” della nuova fattispecie incriminatrice, può richiamarsi la
circostanza della ricollegabilità della illegittimità dell’azione
amministrativa posta in essere dal soggetto al solo superamento dei limiti posti
al suo discrezionale espletamento, posto che, in tal caso, detta illegittimità
non rileva direttamente in sè ai fini del precetto penale, ma si pone come un
mero presupposto storico-logico della violazione surriferita. Calando tali
principi al caso concreto, si deve rimarcare che in esso viene sicuramente in
rilievo, nell’ipotesi accusatoria, e alla stregua della normativa di
riferimento, la risarcibile lesione dell’interesse del M. ad una compiuta
estrinsecazione della propria professionalità, cui si correla il suo interesse
legittimo ad una assegnazione, da parte del primario, delle mansioni espletande
nella struttura di appartenenza, qualitativamente non discriminatoria (e, in
particolare, non esclusiva della partecipazione alla importante attività di
sala operatoria). Dal coord. Disp. degli artt. 3 e 7 del D.P.R. 27 marzo 1969, n.129;
102 del D.P.R. 11 luglio 1980, n. 382; 29 e
63 del D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, emergono, infatti, con chiarezza
sia il riconosciuto valore della posizione professionale del personale medico
operante nelle strutture universitarie espletanti servizio assimilato a quello
ospedaliero, sia il dovere, per il direttore , di organizzare (anche in
correlazione al valore predetto e in attuazione del generale principio di cui
all’art. 97 Cost.) il servizio relativo ai pazienti, rispettando
criteri oggettivi di competenza, di equa distribuzione
del lavoro, di rotazione nei vari settori di pertinenza””
7.
Il reato di molestie per le ipotesi meno gravi di mobbing
Chiudiamo
la carrellata con una ipotesi di reato contravvenzionale che, nei casi meno
gravi e soprattutto in quelli di mobbing orizzontale motivato dal sadismo del
mobber o dal solo scopo di divertirsi alle spalle ed a spese della vittima,
potrebbe rivelarsi utile strumento di tutela: l’art. 660 C.P. (molestia o
disturbo alle persone), che punisce gli atti di molestia e disturbo arrecati
in un luogo pubblico o aperto al pubblico o col mezzo del telefono, per
petulanza o per altro biasimevole motivo [27]
. Molto spesso i comportamenti del mobber si sostanziano in
atti molesti compiuti certamente per motivi biasimevoli, quali sono quelli che
ispirano il disegno mobbizzante. Benché in giurisprudenza si segnalino
soprattutto precedenti aventi ad oggetto molestie di carattere sessuale, oggi,
alla luce della nuova sensibilità delle corti per il fenomeno del mobbing, i
principi potrebbero attagliarsi a tutto il catalogo delle condotte moleste del
mobber: segnalo Trib. Napoli, 22 aprile 2002, la cui massima recita “sussiste
il reato di cui all'art. 660 c.p. nel fatto del dirigente dell'ufficio che reca
molestie a sfondo sessuale alle dipendenti del suo ufficio, approfittando della
sua posizione gerarchica (cd. bullyng)”; Cass. pen., sez. III, 11 ottobre
1995 secondo la quale “in tema di atti di libidine violenta due fugaci baci
sulla guancia e sul collo, dati fuggevolmente e senza insistenza, sia pure dal
datore di lavoro ad una sua dipendente, non integrano gli estremi del reato di
atti di libidine violenta e potrebbero integrare, se fatti in luogo aperto al
pubblico o pubblico, gli estremi del reato
contravvenzionale di molestia o quello di ingiuria, se sussiste
l'elemento psicologico” [28]
; Pretore di Milano, 31 gennaio 1997 (Frecchiami c. Soc. S.
Andrea 9) per cui “ove sia accertato in fatto che un incaricato del datore
di lavoro, nell'esercizio delle proprie mansioni, abbia tenuto per petulanza,
nei confronti di una dipendente, reiterati e intenzionali comportamenti
sessualmente molesti, in luogo di lavoro aperto al pubblico, e che il datore di
lavoro, posto a conoscenza della condotta del preposto, non abbia adottato alcun
provvedimento a tutela dell'integrità psicofisica e morale della dipendente, va
ritenuta la responsabilità del preposto, sia penale per il reato di cui
all'art. 660 c.p., sia civile ai sensi dell'art. 2043 c.c., nonchè la
responsabilità civile del datore di lavoro, sia per illecito extracontrattuale
ex art. 2049 c.c., sia per illecito contrattuale per violazione dell'art. 2087
c.c. Ove dall'anzi descritto comportamento del preposto sia derivata causalmente
alla dipendente una temporanea patologia psichica, consistita in disturbi
dell'adattamento, sia il preposto che il datore di lavoro sono entrambi tenuti
al risarcimento, tanto del danno biologico temporaneo quanto del danno morale,
in via fra loro solidale anche in relazione al danno morale, per il combinato
disposto degli anni 2049 c.c. e 185 c.p.”.
(Torna all'elenco Articoli nel sito)