GLI ASPETTI PENALISTICI DEL MOBBING

di

 Andrea Castelnuovo

avvocato in Torino (www.avvocati-mcca.com)

 

SOMMARIO: 1. La rilevanza penale del mobbing in assenza di una specifica norma incriminatrice. 2. La antesignana giurisprudenza sulle molestie sessuali. 3. La prima pronuncia della Cassazione penale in tema di mobbing configura i delitti di violenza privata e maltrattamenti in famiglia. 4. Mobbing e imputazione per il reato di lesioni a carico del datore. 5. Il caso della Palazzina L.A.F. dell’Ilva di Taranto. 6. Il mobbing nel pubblico impiego: l’abuso d’ufficio. 7. Il reato di molestie per le ipotesi meno gravi di mobbing.

 

1. La rilevanza penale del mobbing in assenza di una specifica norma incriminatrice

In un sistema dominato dal principio di stretta legalità e di tassatività come il nostro ordinamento penale è difficile trovare una collocazione sicura ad un fenomeno quale il mobbing, caratterizzato da una connaturata indeterminatezza di contorni: se accediamo alla nozione di mobbing come “cornice” - il legal framework di cui parlano Monateri, Bona e Oliva [1] - all’interno della quale trovano coesiva reductio ad unum condotte certamente illecite e condotte di per se neutre che si colorano di illiceità per esser finalizzate ad una strategia mobbizzante, che in ambito civilistico costituisce un bell’aiuto nel superare certe rigidezze probatorie e definitorie, in campo penale l’utilità di siffatta operazione di ermeneutica (ma anche di creatività) giuridica si scontra con l’esigenza di tipicità delle fattispecie, e corre il rischio di perdere quel fascinoso appeal con cui negli ultimi anni ha chiamato attorno a se i civilisti.

Dunque, posto che non esiste un “reato di mobbing” ma esistono varie fattispecie criminose che il mobber può porre in essere in esecuzione del proprio disegno - e ponendosi nella prospettiva di esaminare lo stato delle cose anziché affrontare (neppure consentendolo i limiti del presente intervento) un periglioso discorso de iure condendo, o tentare di offrire una interpretazione creativa di categorizzazione destinata a rimanere mera esercitazione intellettuale credo si possano individuare almeno tre accezioni in cui la nozione di mobbing trovi utilità in diritto penale:

-     la condotta mobbizzante ante quale elemento costitutivo del reato, come vedremo più avanti nel disaminare i precedenti giurisprudenziali che, a fronte di varie specie di condotte mobbizzanti, hanno ritenuto sussistere diverse ipotesi di reato, dalle lesioni alla violenza privata, dall’abuso d’ufficio ai maltratamenti;

-     il mobbing quale movente [2] d’ispirazione del disegno criminoso del mobber [3], quasi a recuperare nel penale la funzione di legal framework che viene dal civile. La finalizzazione ad una strategia mobbizzante può valere ad individuare, con riferimento ad una condotta, la sussistenza d’un dolo specifico tale inquadrare il fatto in una fattispecie di reato piuttosto che in un’altra. Vedremo che, per esempio, alcune sentenze hanno qualificato certe condotte mobbizzanti nell’ambito del delitto di violenza privata, fattispecie di carattere generico e sussidiario che resta esclusa, in base al principio di specialità, qualora sussista un dolo specifico che renda configurabile una ipotesi delittuosa più grave: se il fine perseguito dal mobber, attuato con atti violenti o minatorii, fosse quello di procurarsi un ingiusto profitto con altrui danno (per esempio, liberarsi del mobbizzato costringendolo alle dimissioni), si potrebbe individuare più facilmente il reato di estorsione piuttosto che quello di mera violenza privata.

-    il mobbing quale circostanza aggravante del reato posto in essere dal mobber, circostanza che di volta in volta potrà assumere i connotati del motivo abietto [4] (non v’è forse abiezione nel caso del bossing finalizzato a indurre il mobbizzato alle dimissioni o ad accettare trattamenti inumani o mansioni sgradevoli o pericolose ?) o del motivo futile (come potrebbe essere il caso del mobbing orizzontale posto in essere da colleghi al solo scopo di attaccarne un altro, per divertimento o per sfogare frustrazioni proprie, un po’ come capita nel nonnismo da caserma o nel bullying scolastico); altre volte il mobbing si configurerà quale circostanza di stampo soggettivo ai sensi del n.11 dell’art. 61, laddove la condotta venga posta in essere con abuso del rapporto gerarchico lavorativo, o con abuso di pubblici poteri nel caso di mobbing nel pubblico impiego posto in essere da soggetti titolari di cariche pubbliche la cui posizione apicale sia tale da incutere sul soggetto passivo una doppia soggezione, quella derivante dalla subordinazione lavorativa e quella connessa al “potere”; non escluderei la possibilità di far rientrare certe condotte vessatorie particolarmente dure nell’ambito della circostanza aggravante di cui al n.4 dell’art. 61, quella che sanziona chi agisca con crudeltà verso le persone [5] (esamineremo poco oltre il primo precedente di cassazione, in cui il comportamento dei colpevoli pare davvero ammantato da un totale disprezzo per la persona dei dipendenti, ingiuriati, umiliati, molestati, tenuti in stato di sostanziale schiavitù).

 

2. La antesignana giurisprudenza sulle molestie sessuali

Alla ricerca di un orientamento cui ispirarsi per tentare un inquadramento in termini di fattispecie criminose del fenomeno che ci interessa, non si può prescindere dal menzionare la casistica giurisprudenziale in tema di molestie sessuali, piaga tanto antica quanto è antico il lavoro stesso, anche perché nel catalogo delle condotte che il mobber può utilizzare rientrano spesso anche quelle di harassment. Non per caso, negli Stati Uniti lo studio del fenomeno del bullying at work-place è stato improntato almeno inizialmente sull’approfondimento della condizione del lavoro femminile e sulla tutela dalla molestia di natura sessuale che con maggior facilità può colpire le donne.

Civilisticamente, per la raffinata ricostruzione in termini di rapporto tra azione contrattuale ed extracontrattuale, il leading case è la sentenza della sezione lavoro della Cassazione, la n. 7768 del 17 luglio 1995, avente ad oggetto il caso di tre lavoratrici costrette a dimettersi per essere state oggetto, durante l'orario di lavoro, di molestie sessuali e di veri e propri atti di libidine violenti da parte del datore; costui, sottoposto a processo penale, aveva patteggiato la pena di un anno di reclusione per il reato di atti di libidine violenti, previsto dall’art 521 C.P., norma ormai abrogata dalla legge n.66 del 1996 che ha riformulato l’intera materia dei reati a sfondo sessuale, traslandoli dall’angusto spazio che occupavano nel titolo dei delitti contro la moralità pubblica ed il buon costume al titolo dei delitti contro la persona. Citiamo anche Cass. sez. III penale, 26 maggio 2003 n. 22927: qui, il direttore di un ufficio postale era stato condannato ad un ano e tre mesi di reclusione per il reato di cui all’art 609 bis C.P. nella forma lieve di cui all'ultimo comma, per avere compiuto atti sessuali su alcune proprie dipendenti; ed anche Cass. Sez. III penale, 15 gennaio 2001 n. 255, in cui il direttore sanitario d’un ospedale e direttore generale dell'Asl di zona, nell'esercizio delle sue funzioni e con violenza, minaccia e abuso di autorità compiva atti o molestie sessuali nei confronti di alcune donne dipendenti, per cui veniva condannato per i reati di cui agli artt. 660 e 609 bis e septies C.P.

Al di là dei casi di vera e propria violenza carnale che trovano sanzione nelle norme di cui agli artt. 609 bis e seguenti del Codice Penale, vediamo come in giurisprudenza sono stati trattati i casi di mobbing con utilizzo di molestie sessuali, posto che il legislatore del ’96 non ha introdotto una autonoma previsione incriminatrice per tali condotte che, pertanto, devono essere inquadrate in altre fattispecie (ingiuria, molestia o disturbo alle persone, violenza privata).

Molto interessante la sentenza n. 58/2001 depositata dal Tribunale penale di Modena (Pres. Pasquariello) il 1° febbraio 2002.

Il caso: una impiegata presso la filiale italiana di una multinazionale querela un dirigente col quale lavora a stretto contatto per i reati di cui agli artt. 81 e 609 bis CP “perché, con più azioni esecutive del il medesimo disegno criminoso, con violenza (consistita nel carattere repentino del gesto e nel trattenere la persona offesa cingendo la alla vita e alle braccia e impedendole per alcuni secondi i movimenti), costringeva ... a subire atti sessuali, e in particolare, abbracci lascivi e toccamento del seno, accompagnati o preceduti da turpiloqui concernenti la sfera sessuale nonché nel mostrare alla persona offesa immagini ritraesti scene di contenuto esplicitamente pornografico”.

L’impiegata aveva denunciato il progressivo trascendere del comportamento del dirigente, iniziato con allusioni sessuali, continuato con ripetute avances volgari, fino ad arrivare a molestie fisiche, di natura sempre sessuale, ed a concretizzare un quotidiano "assedio" sessuale.

Il rifiuto opposto dalla lavoratrice alle avances del dirigente lo avevano indotto a vendicarsi accusandola nei confronti dei vertici aziendali di varie inadempienze sul lavoro e dell’uso del computer aziendale per collegamenti a siti pornografici: la società, di conseguenza, licenziava la donna. Dunque la lavoratrice non solo aveva subito ripetute molestie sessuali ma, per effetto del suo comportamento non condiscendente verso il molestatore, aveva anche perso il lavoro. Il Tribunale ha affrontato il problema della prova delle condotte di molestia, avvenute tutte senza la presenza di testimoni, stabilendo un principio importante (già fatto proprio dalla Cassazione) che può valere come regula iuris nei casi di mobbing, dove spesso la vittima non ha altro che la propria parola contro quella del mobber: ebbene, laddove la narrazione della persona offesa si scontri con quella narrazione non è preclusa a priori la possibilità di positiva verificazione processuale della tesi accusatoria, ma si “impone al giudice una rigorosa e cauta (nel senso della presunzione di innocenza che non può essere superata da un generico attestato di credibilità per la testimone d'accusa) valutazione della credibilità delle opposte narrazioni, valutazione che pertanto trova momenti di rilievo anche in fatti non strettamente contemplati dall'imputazione; a tale fine la vicenda del rapporto di lavoro e del licenziamento della denunciante può configurarsi come causa di dichiarazioni ritorsive ed incriminanti, ovvero come capitolo conclusivo del "mobbing" sessuale che la ... ha dovuto patire, ma non è in dubbio che dalla stessa si possano trarre elementi di giudizio per la valutazione di attendibilità delle parti "contrapposte". Nei contenuti concreti ora precisati il collegio ha pertanto aderito al costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo la quale da un lato "le dichiarazioni del testimone e persona offesa, per essere positivamente utilizzate dal giudice, devono risultare credibili, oltreché avere ad oggetto fatti di diretta cognizione e specificamente indicati, con la conseguenza che, contrariamente ad altre fonti di conoscenza, come le dichiarazioni rese da coimputati o da imputati in reati connessi, esse non abbisognano di riscontri esterni, il ricorso eventuale ai quali è funzionale soltanto al vaglio di credibilità del testimone" (nella specie la Corte ha precisato che, in tema di testimonianza della persona offesa, lo scrutinio del giudice di merito deve essere più accurato e approfondito, ma solo ai fini della credibilità oggettiva e soggettiva: Cassazione penale sez. III, 26 agosto 1999, n. 11829, A.), e dall'altro la testimonianza della persona offesa dal reato deve essere sottoposta ad un vaglio di attendibilità intrinseca particolarmente rigoroso, non essendo la stessa immune da sospetti in quanto portatrice di interessi antagonistici con quelli dell'imputato (ex multis Cass. Pen. sez. VI, 6 ottobre 1999, n. 1423, D.)”. L’attività d’indagine aveva consentito di accertare che in realtà l’uso del computer della lavoratrice per i collegamenti ai siti porno fosse imputabile al dirigente (il quale lo usava anche nei giorni di assenza della vittima), il che secondo il giudice costituisce un forte indice di attendibilità e di credibilità della parte offesa, e specularmene di smentita del dirigente: “l'unica verificazione oggettiva possibile ha offerto pieno riscontro al racconto accusatorio, del resto offerto in sede dibattimentale, con una valutazione secondo parametri intrinseci e soggettivi, con apparente accentuata sincerità, congruità di toni ed assenza di contraddizioni”. Nonostante l’accertamento dei fatti, il Tribunale ha ritenuto non superata la soglia di rilevanza penale posta dall'art. 609 bis contestato in quanto le avances sessuali, consistendo in gesti solo accennati, non hanno comportato una apprezzabile materiale violenta invasione della libertà fisica e quindi sessuale della persona offesa.

La soluzione residuale che il giudice ha fatto propria è stata di ritenere che il turpiloquio concernente la sfera sessuale e l’aver mostrato "alla persona offesa immagini ritraesti scene di contenuto esplicitamente pornografico" integrasse il reato di ingiuria di cui all’art. 594 C.P.: “è indiscutibile che, secondo i parametri comunemente accettati della convivenza civile e del rispetto dell'altrui integrità morale, sottoporre una persona ad apprezzamenti volgari sul proprio corpo e sulla propria sessualità, ed imporle la visione non consenziente di immagini pornografiche, costituisca comportamento ingiurioso, ovvero offensivo dell'onore e del decoro, e lesivo di uno degli aspetti più intimi della libertà morale, relativo alla sfera sessuale”.

 

3. La prima pronuncia della Cassazione penale in tema di mobbing

configura i delitti di violenza privata e maltrattamenti in famiglia Prendiamo ora in esame la prima pronuncia con cui i giudici di legittimità si sono occupati ex professo del problema mobbing, la sentenza n. 10090 del 12 marzo 2001 (Cass. Pen.VI sez., ud. 22 gennaio 2001 – Pres. Sansone – Rel. Garribba). Questo il caso giunto alle cure della Suprema Corte: la Corte d’Appello di Milano aveva confermato la condanna alla pena di cinque anni di reclusione inflitta al capogruppo responsabile di zona di una impresa di vendite porta a porta di prodotti per la casa, dichiarato colpevole dei reati continuati di cui agli artt. 572 C.P. (maltrattamenti) e 610 C.P. (violenza privata) per avere maltrattato alcuni giovani collaboratori costringendoli a intensificare l’impegno lavorativo oltre ogni limite di accettabilità con atti di vessazione fisica e morale; il titolare della ditta era invece stato condannato alla pena di quattro anni di reclusione per il reato continuato di cui all’art. 610 C.P. per avere costretto quegli stessi giovani ad aumentare l’impegno lavorativo oltre il tollerabile, avvalendosi del clima di intimidazione creato dai suoi capigruppo e omettendo di reprimere i loro eccessi.

Si tratta di una pronuncia su di un caso di notevole gravità per cui non riterrei corretto sostenere tout court che la Cassazione punisce il mobbing con le pene previste per i reati di maltrattamenti e di violenza privata: certo che in casi estremi come questo o come quello portato alle cure del Tribunale di Taranto di cui infra il precedente è di tutto interesse, ma non offre una via operativa relativamente ai casi di mobbing strisciante, in cui il mobber pone in essere condotte meno eclatanti. Il vero problema è che, in assenza di una disciplina ad hoc, il giudice penale non può far altro che reperire nell’ambito del codice le fattispecie più idonee ad inquadrare i vari comportamenti, senza poter spaziare con la maggior libertà concessa al giudice civile.

Quanto alla qualificazione dei fatti nell’ambito della fattispecie di maltrattamenti, la Corte “osserva che, anche se l’ipotesi di reato di più frequente verificazione è quella che dà il nome alla rubrica dell’art. 572 cod. pen. (maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli [6] ), la norma incriminatrice prevede altresì le ipotesi di chi commette maltrattamenti in danno di persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, per l’esercizio di una professione o di un’arte. Si tratta di ipotesi di reato, in questi ultimi casi, in cui non è richiesta, a differenza della prima, la coabitazione o convivenza tra il soggetto attivo e quello passivo, ma solo un rapporto continuativo dipendente da cause diverse da quella familiare. Venendo al caso in esame, non v’è dubbio che il rapporto intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro e lavoratore subordinato, essendo caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al datore nei confronti del lavoratore dipendente, pone quest’ultimo nella condizione, specificamente prevista dalla norma penale testé richiamata, di persona sottoposta alla sua autorità, il che, sussistendo gli altri elementi previsti dalla legge, permette di configurare a carico del datore di lavoro il reato di maltrattamenti in danno dal lavoratore dipendente. Vi è da aggiungere che nel caso di specie il rapporto interpersonale che legava autore del reato e vittime era particolarmente intenso, poiché, a parte il contatto quotidiano dovuto a ragioni di lavoro, nel corso delle lunghe trasferte, viaggiando su un unico pulmino, consumando insieme i pasti e alloggiando nello stesso albergo, si realizzava tra le parti un’assidua comunanza di vita. Ma l’aspetto saliente della presente vicenda sta nel fatto, diffusamente illustrato dai giudici del merito, che l’imputato, con ripetute e sistematiche vessazioni fisiche e morali, consistite in schiaffi, calci, pugni, morsi, insulti, molestie sessuali e, non ultima, la ricorrente minaccia di troncare il rapporto di lavoro senza pagare le retribuzioni pattuite (minaccia assai cogente, dato che il lavoro era svolto in nero e le retribuzioni venivano depositate su libretti di risparmio intestati ai lavoratori, ma tenuti dal datore di lavoro), aveva ridotto i suoi dipendenti, tra i quali una minorenne, in uno stato di penosa sottomissione e umiliazione, al fine di costringerli a sopportare ritmi di lavoro forsennati, essendo il profitto dell’impresa direttamente proporzionale al volume delle vendite effettuate. Ne risulta, dunque, una serie di atti volontari, idonei a produrre quello stato di abituale sofferenza fisica e morale, lesivo della dignità della persona, che la legge penale designa col termine di maltrattamenti.“

La Corte ha anche approfondito la questione dell'elemento soggettivo del reato rilevando come, accanto alla provata sussistenza del dolo (la coscienza e volontà di ledere in modo abituale l'integrità fisica e morale dei soggetti passivi) i giudici di merito avessero anche correttamente individuato nella ricerca del massimo profitto il movente dell`azione criminosa, movente tale da costituire l`humus sul quale si è sviluppato il disegno sottostante ai singoli fatti di violenza e minaccia. Nessun rilevo è stato attribuito alla prospettazione difensiva secondo la quale i lavoratori si trovassero in realtà in situazione di sostanziale libertà, potendo rassegnare le proprie dimissioni in qualunque momento con ciò facendo cessare le vessazioni: la Corte ha confermato trattarsi di una libertà puramente apparente, in considerazione del meccanismo con il quale il datore effettuava (?!) il pagamento delle retribuzioni, ossia depositando Ile relative somme su libretti di risparmio trattenuti da lui stesso, laddove del tutto fondato poteva ritenersi il timore manifestato dalle vittime che, in caso di dimissioni, si sarebbe verificato quanto era stato loro minacciato, cioè la perdita delle retribuzioni già maturate. Sul punto si potrebbe aggiungere che I`imputazione avrebbe potuto comprendere anche la contestazione del reato di appropriazione indebita, essendo certamente illegittimo il trattenimento da parte del datore di somme spettanti ai dipendenti, o addiritura di estorsione sussistendone tutti gli estremi.

La Corte, sulla questione sollevata dalla difesa degli imputati circa la possibilità di qualificare i fatti nell'ambito del meno grave reato previsto dall'art. 571 C.P., abuso dei mezzi di correzione e disciplina, ha escluso che le minacce costituissero manifestazione, seppure abnorme, del potere disciplinare che competeva al datore quale responsabile dell'attività produttiva, poiché l'abuso punito dall'art. 571 ha per presupposto logico necessario l'esistenza di un uso lecito dei poteri di correzione e disciplina, e quindi si verifica quando l'uso venga effettuato fuori dei casi consentiti o con mezzi e modalità non ammesse dall'ordinamento, laddove nel caso del rapporto di lavoro è assolutamente vietato il ricorso alla violenza da parte del datore. D'altro canto mancherebbe, per potersi applicare l'art. 571, anche la finalità di esercizio dello jus corrigendi, poichè in realtà gli imputati perpetravano le vessazioni fisiche e morali non come punizione per l'erronea esecuzione del lavoro o per episodi di indisciplina o per altri fatti inerenti allo svolgimento dell'attività lavorativa, ma per costringerli a sopportare ritmi di lavoro altrimenti intollerabili, riducendoli di tal guisa in una condizione di sfruttamento di tipo schiavistico. La condotta afflittiva posta in essere dagli imputati non perseguiva dunque il fine educativo-correttivo che deve contraddistinguere l'uso dei mezzi di correzione, ma mirava soltanto a scopi di lucro personale. Quanto al reato di violenza privata, il titolare dell'impresa è stato ritenuto colpevole in applicazione del principio stabilito dall'art. 40 C.P. secondo cui non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo: quale sia l'obbligo in questione emerge dal disposto dell'art. 2087 C.C., che impone ex contractu al datore di adottare ogni misura necessaria a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Non aver posto fine alle vessazioni attuate dai capigruppo sui lavoratori dipendenti pur essendone consapevole (ed addirittura traendone lucro) integra omissione a tali doveri e quindi reato.

Anche in ambito civilistico [7] la giurisprudenza ritiene che la norma di imputazione prevista dal 2087 non configuri un'ipotesi di responsabilità oggettiva [8], essendo necessario che l’evento dannoso occorso al lavoratore sia ricollegabile ad un comportamento colposo del datore: “il requisito soggettivo della colpa o del dolo rappresenta in entrambi i casi un elemento costitutivo della fattispecie di illecito, dovendo comunque escludersi la configurabilità di una responsabilità risarcitoria in base ad un criterio puramente oggettivo per l’evento collegato al rischio dell’attività svolta nell’interesse del datore di lavoro” [9]. Trattandosi di responsabilità colposa diventa necessario accertare se il datore, con un giudizio di prognosi postuma, fosse in grado di rappresentarsi l’evento dannoso al quale ha dato causa vuoi per colpa specifica (non avendo osservato “leggi o discipline” tra le quali certamente v’è l’art. 2087 [10] ) vuoi per colpa generica (avendo posto in essere condotte od omissioni connotate da imperizia, imprudenza o negligenza) vuoi per dolo (essendosi rappresentato l’evento ed avendolo anche voluto nel caso di dolo diretto, oppure avendo accettato il rischio che il danno si verificasse nel caso del dolo eventuale). In linea di massima il difetto di rappresentazione ex ante dell’evento dannoso da parte del datore lo assolve da responsabilità [11], purché naturalmente egli sia in grado di dimostrare di aver assolto a tutti gli obblighi di predisporre misure tecniche idonee ad evitare il danno.

In sede penale, le modalità operative con cui si applica civilisticamente il criterio di imputazione ex art. 2087 dovranno invece fare i conti con un autonomo atteggiarsi dell’elemento psicologico del reato: nel caso esaminato dalla Cassazione, trattandosi di imputazione per il delitto di violenza privata che è reato doloso, è stato necessario provare la sussistenza del dolo in capo al datore di lavoro, non potendo il giudice penale limitarsi ad imputargli a titolo di colpa l’omessa predisposizione degli strumenti di tutela, o l’omessa vigilanza.

 

4. Mobbing e imputazione per il reato di lesioni a carico del datore

Il criterio di imputazione della responsabilità ai sensi dell’art 2087 CC può assumere rilevo in sede penale nel caso in cui venga contestato al datore il delitto di lesioni colpose per violazione delle norme di tutela laburistiche.

L'art. 2087, che pur non contiene prescrizioni di dettaglio, non si risolve in una mera norma di principio ma deve considerarsi inserito a pieno titolo nella legislazione antinfortunistica di cui costituisce norma di chiusura, peraltro comportante a carico del datore di lavoro precisi obblighi di garanzia e protezione ai fini individuali. La norma, per il richiamo alla tutela dell'integrità fisica del lavoratore e alla particolarità del lavoro, rende specifico l'illecito consumato in una sua violazione sia rispetto alla colpa generica richiamata nell'art. 2043 che rispetto a quella di rilievo penalistico e, in tal caso, aggrava il reato, rendendolo pure perseguibile d’ufficio: ogni violazione colposa comunque riconducibile all'obbligo generico posto dall'art. 2087 integra infatti, secondo la giurisprudenza [12], l’elemento della colpa specifica tale per cui, laddove dall’omissione della cautele preventive sia derivato un danno al lavoratore, si giustifica l’imputazione del delitto di lesioni colpose a carico del datore di lavoro.

Sul punto, rilevo anche la condivisibile posizione di chi [13] ricostruisce la disposizione di cui all’art. 2087 in termini di colpa generica partendo dal presupposto per cui la norma, a ben vedere, altro non prevede se non la declaratoria dell’obbligo generale di diligenza, sicché non basta la circostanza formale che tale obbligo sia trasposto in una norma di legge per elevarlo da criterio di colpa generica a criterio di colpa specifica.

Venendo alla materia che ci interessa, se poniamo mente ai casi in cui la condotta del mobber è di efficacia lesiva tale da cagionare alla vittima una condizione patologica, di natura vuoi fisica vuoi - come più facilmente può accadere- psichica, ci troviamo certamente nell’ambito di un delitto di lesioni. A seconda dell’atteggiarsi dell’elemento soggettivo da valutarsi caso per caso, il reato potrà essere ascritto al soggetto agente (il mobber diretto, che può anche essere il datore di lavoro nel caso di mobbing verticale così come un collega nel caso del mobbing orizzontale) a titolo di dolo o di colpa e quindi configurarsi come delitto di lesioni dolose ex art 582 C.P. o di lesioni colpose ex art 590 C.P.; a carico del datore di lavoro, sempre che la condotta non sia gli sia direttamente attribuibile per esserne stato l’autore od il coautore in concorso con altri, potranno configurarsi gli stremi del reato di lesioni colpose per violazione del dovere di garantire la sicurezza e la salubrità del luogo di lavoro, oltre che di vigilare affinché non si creino situazioni ambientali tali da nuocere alla salute psico-fisica dei dipendenti. In questi casi la norma di imputazione non potrà che essere, ancora una volta, quella di cui all’art. 2087 C.C.

Queste considerazioni ci introducono ad esaminare una interessante sentenza del Tribunale di Torino  [14] che, pur non riguardando un canonico caso di mobbing, tuttavia fa esplicito riferimento alla fattispecie ad ai precedenti giurisprudenziali in materia citandoli in un obiter dictum.

Ciò che manca per qualificare “mobbing” la storia lavorativa estrema portata alle cure del giudice torinese è la sussistenza di un disegno teso a logorare il dipendente al fine di eliminarlo dall’organigramma, vuoi con licenziamento (che pure in quel caso c’è stato) vuoi con induzione alle dimissioni: qui si trattava di un lavoratore costretto per vent’anni, nonostante lo stato salute malfermo, a turni di lavoro massacranti, senza però che ciò fosse un trattamento a lui solo riservato per una delle finalità tipiche del bossing (o anche del mobbing orizzontale) poiché si trattava dell’unica modalità che la società datrice conosceva per far fronte in economa al notevole carico di lavoro. Un caso di sfruttamento del lavoro, se vogliamo, ma non di vero e proprio mobbing.

La sentenza è comunque interessante perché rappresenta uno spaccato di vita lavorativa in cui il valore dell’uomo ha ormai perduto irrimediabilmente ogni peso, che è il terreno nel quale il mobbing trova il proprio ambiente ideale.

La sentenza - con la quale, diciamolo subito, il Tribunale ha condannato il presidente e direttore generale della società datrice di lavoro a 6 mesi di reclusione per il reato di lesioni colpose ex art. 590 C.P. [15] - riguarda il caso di una guardia giurata di un importante istituto di vigilanza la quale, per tutta la durata del ventennale rapporto lavorativo terminato con licenziamento, era stata sottoposta a turni di lavoro stressanti, che prevedevano, oltre ai servizi di piantonamento effettuati prevalentemente di notte, un numero di ore di straordinario assai elevato e senza soluzione di continuità rispetto ai turni di notte oltre che, quasi sempre, senza concessione del giorno di riposo e, soprattutto, le ferie durante il periodo estivo. Periodo che, anzi, il Tribunale ha accertato essere, unitamente a quello natalizio, il “più massacrante”.

Il giudice ha altresì accertato che la società, nell’affidare le varie destinazioni alle proprie guardie giurate (servizi interni od esterni, notturni o diurni), non teneva in alcuna considerazione le capacità e le condizioni di salute dei lavoratori, omettendo sia di sottoporli ad un regolare controllo sanitario in funzione dei rischi specifici cui essi venivano esposti, sia di porre a loro disposizione i necessari strumenti di protezione individuale, sia di tenere in qualche conto le certificazioni mediche che attestavano la natura professionale di certi stati morbosi in cui alcuni dipendenti erano caduti per via delle mansioni cui continuativamente venivano adibiti. Nel caso specifico della guardia giurata di cui si discuteva nel processo, la direzione aveva atteso che questa subisse parecchi infortuni (dovuti alle condizioni di lavoro) sino a patire un infarto, prima di sottoporla ad un accertamento sanitario urgente da parte del responsabile del servizio di medicina legale della U.S.L. a seguito del quale era risultato come il dipendente fosse “inidoneo in modo permanente a servizi armati tipo guardia giurata, soprattutto in turni lavorativi notturni, ma ricollocabile in attività che richiedono minor impegno psico fisico e minor impegno di energie e/o minore stress, come i lavori di ufficio e similari”. D’altra parte quel lavoratore era stato assunto dalla società che, come risultava dalla visita medica pre-assunzione, già era a conoscenza della sua inidoneità all’esercizio delle mansioni tipiche degli addetti ad un corpo di vigilanza privata, essendo invalido al 40% in conseguenza di un incidente stradale avvenuto anni prima.

Ebbene, ad un soggetto di tal costituzione fisica venivano imposti turni di dodici ore continuative di lavoro che normalmente diventavano diciotto col meccanismo degli straordinari de facto obbligatori, a pena di “ritorsioni e ripicche” consistenti nel “non proporre lo straordinario quando eventualmente il lavoratore avesse avuto urgente bisogno di guadagnare di più o nel mandare il lavoratore nei posti più scomodi, dall’altra parte della città, oppure nell’assegnare turni nei quali il dipendente terminava la notte da una parte e doveva intraprendere subito dopo il diurno dall’altra parte di Torino”.

Il dipendente, per via delle patologie di cui soffriva e delle modalità stressanti delle prestazioni lavorative impostegli “in uno situazione di terrorismo psicologico che costringeva il dipendente a non richiedere ciò che gli spettava, a non farsi mai avanti, a non polemizzare sui turni di notte e sulle mancate ferie, per paura di essere licenziato”, era caduto in uno stato di depressione sempre più grave; e secondo il Tribunale, “il datore di lavoro che non si fa carico di salvaguardare la dignità, la salute e la sicurezza del proprio dipendente, mortificando le sue aspettative e, omettendo di adeguare l’organico aziendale alle effettive necessità, impone un superlavoro con orari e turni che ledono quei diritti fondamentali; contribuisce a produrre nel lavoratore una progressiva sfiducia nelle proprie capacità, nonché stati di depressione che, in alcuni casi, possono condurlo anche al pensiero di gesti anticonservativi…e si può rendere responsabile, con il proprio comportamento omissivo, di eventuali malattie professionali che eventualmente ne scaturiscano. E che consistono, come è stato evidenziato, in quelle patologie che, a differenza degli infortuni, dipendono da un’azione lesiva operante non con rapidità, bensì con gradualità”.

Il giudice sgombera il campo delle eccezioni formulate dagli imputati circa la predisposizione e le preesistenze patologiche del lavoratore, facendo corretta applicazione dei principi espressi dalla più recente giurisprudenza in tema di concorso tra fattori dipendenti da condotta umana e fattori naturali nella causazione di un evento, laddove le cause naturali non assumono rilevanza dirimente o diminuente rispetto alle concorrenti concause umane [16] , e scrive:“ il datore di lavoro, nel momento in cui decide di assumere un soggetto che presenta una labilità psicologica, deve tenerne conto nell’affidamento al medesimo delle mansioni da svolgere. La destinazione di quel tipo di soggetto a turni di lavoro massacranti, infatti, può esporre lo stesso al rischio di insorgenza di patologie più gravi – come è avvenuto nel caso di specie – ed in tal modo costituire, se non la causa determinante, almeno una concausa di quelle patologie. Invero, una infermità generica, da cui un soggetto sia affetto, può avere una evoluzione in senso peggiorativo a causa delle modalità di svolgimento di un lavoro che, pur non essendo di per sé particolarmente stressante, può, comunque, influire sul determinismo di particolari patologie, assumendo un ruolo di concausa necessaria e determinante dell’evento, senza che, in contrario, rilevi la naturale predisposizione del soggetto all’insorgenza della patologia”. Per tali ragioni, il Tribunale ha attributo a responsabilità del datore l’infarto subito dal lavoratore durante uno di quei turni massacranti cui era adibito, condannandolo per il reato di lesioni colpose.

 

5. Il caso della Palazzina L.A.F. dell’Ilva di Taranto

Una sentenza che ha avuto ad oggetto in sede penale un angosciante caso di mobbing è la sentenza n. 742 pronunciata dalla seconda sezione penale del Tribunale di Taranto il 7 marzo 2002 (giudice Chiarelli) [17] , con la quale sono stati giudicati con le seguenti imputazioni per il reato di tentata violenza privata (art. 610 C.P.) i vertici amministrativi e dirigenziali dell’I.L.V.A. [18] : aver compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco ad indurre mediante minacce un impiegato a rinunciare a proseguire nella causa di lavoro precedentemente instaurata nei confronti della società datrice di lavoro, ed una cinquantina di impiegati ad accettare la novazione del rapporto di lavoro subordinato con declassamento dalla qualifica professionale di impiegato a quella di operaio, senza riuscire nell'intento a causa del diniego opposto dalle persone offese; la minaccia - poi attuata - consisteva in tutti i casi e sistematicamente nella prospettazione che, ove non si fosse piegato a rinunciare alla causa, sarebbe stato trasferito alla "Palazzina Laf" (Laminati a Freddo), ove era sicuramente prevedibile la inevitabile sottoposizione ad un regime lavorativo umiliante e peggiorativo rispetto alle aspirazioni legittime del dipendente, al miglioramento e alla tutela delle sue attitudini professionali e consistente nella mancata assegnazione di qualunque tipo di incarico e attività operativa, sì da dover trascorrere, peraltro in un ambiente non decoroso e trascurato, le ore prescritte in una situazione di assoluta inerzia, lesiva della dignità del lavoratore stesso, con ciò determinando da un lato il prevedibile ed inevitabile peggioramento delle sue capacità professionali e, dall'altra, l'avvilimento del suo legittimo diritto ad espletare un'attività lavorativa decorosa e confacente ai principi tipici di un equilibrato rapporto di lavoro, subordinando il ripristino di un normale rapporto alla accettazione della proposta di rinuncia alla causa di lavoro, lasciando perdurare a tempo indeterminato la negativa situazione descritta a fronte del perdurante diniego opposto dall'interessato.

Il giudice si rende conto di avere a che fare con un caso quasi da manuale (nella sua tragicità) di bossing e mostra di conoscerne con sicurezza i lineamenti ma, nell’ampia motivazione, tiene a precisare che “ritiene comunque non praticabile la via della qualificazione e classificazione dei fatti oggetto del processo secondo schemi e definizioni che non siano stati fatti propri dal legislatore, lasciando ad altri le valutazioni sul se e sul come il caso in esame integri una ipotesi tipica di mobbing o di bossing. Occorrerà, piuttosto, soffermarsi su quelli che sono stati i fatti emersi al processo e sulla loro qualificazione giuridica in termini di diritto esistente e codificato, rilevando subito come tale diritto si sia rivelato più che sufficiente a coprire i fatti oggetto di contestazione. Con l'enfasi che normalmente accompagna le richieste delle parti pubbliche e private, è stata invocata una pronuncia severa, una pronuncia che coniughi la legge con la giustizia intesa anche in senso morale ed etico, una pronuncia che ristabilisca il senso della legge e ridia dignità a tutto il sistema, gravemente leso dalle condotte degli imputati. Anche sotto questo aspetto, chi giudica, molto più semplicemente, ritiene che il suo compito sia solamente quello riconosciutogli dalla legge, di decidere cioè se certi fatti integrino meno le fattispecie contestate e, in caso affermativo, di comminare la pena giusta e congrua, alla luce dei criteri dalla legge indicati, al di là di ogni altra possibile valutazione.”

Non si può non apprezzare, da operatori pratici, l’atteggiamento col quale il giudice ha approcciato il caso, dichiarando sin da subito di non voler dare alle stampe un leading case e di sentire il bisogno di “dire la sua” a tutti i costi: la scelta di stile merita di non esser sottaciuta perché in un settore in cui la consapevolezza di trovarsi in zona di frontiera inesplorata potrebbe muovere alcuni giudici a sforzarsi di parlar di mobbing più per esprimere la propria opinione sui se sui come della nuova fattispecie che per definire il giudizio con una pronuncia giurisdizionale. L’apprezzamento di chi scrive per l’uno (più asettico) come per l’altro (più “impegnato”) approccio è comunque totale, posto che ci troviamo in un settore come quello del mobbing in cui è ancora di formazione pretoria sia il momento delle definizioni e dell’inquadramento sia quello della disciplina, per cui ben venga la maggior varietà di sentenze sulle quali calibrare gli studi scientifici e le strategie processuali.

Bisognerebbe piuttosto augurarsi che il legislatore - laddove un giorno intendesse intervenire a far “chiarezza” con risultati un po’ più esaltanti di quelli a suo tempo ottenuti da un legislatore regionale pioniere e coraggioso con un atto che (com’era prevedibile) è stato prontamente spedito mittente dalla Consulta - prendesse esempio dalle corti che per prime hanno affrontato il problema con approccio scientifico e multidisciplinare, tenendo conto del background della migliore psicologia del lavoro e degli arresti della giurisprudenza. Mi riferisco, tre le tante sentenze degne di nota che sono state via via pubblicate e di cui il lettore troverà ampia documentazione in questo stesso trattato, per esempio alle due pronunce del 1999 del Tribunale di Torino (est. Ciocchetti), a quella del Tribunale di Forlì del 2001, a quella del Tribunale di Tempio Pausania del 2002, alle due sentenze del Tribunale di Pinerolo del 2003 (est. Reynaud).

Ma torniamo alla sentenza del Tribunale di Taranto.

Che cosa succedeva alla Palazzina Laf ? Secondo accordi presi a livello ministeriale al momento del passaggio al gruppo Riva della titolarità dello stabilimento Ilva di Taranto, la nuova proprietà si era impegnata a mantenere un certo livello occupazionale assorbendo il personale di tre società collegate. Ebbene, sin da subito si erano manifestati dissidi tali da comportare la rottura delle relazioni sindacali: i nuovi titolari dello stabilimento, che entro il termine di un anno dalla messa in mobilità dei dipendenti delle tre consociate avrebbero dovuto procedere alle assunzioni, avevano unilateralmente rimesso tutto in discussione rifiutandosi di assorbire quegli impiegati se non a seguito di specifici provvedimenti giurisdizionali richiesti dalle associazioni sindacali; una volta eseguite obtorto collo le assunzioni, i vertici aziendali avevano dato vita ad odiosi sistemi di pressione per convincere i nuovi impiegati ad accettare una “retrocessione” alla qualifica di operaio. Ebbene, il mezzo di pressione principale era il trasferimento alla palazzina Laf, una struttura fatiscente in cui gli impiegati “riottosi” venivano ghettizzati, del tutto privati di effettive mansioni.

Come dice il giudice, la funzione intimidatoria della Palazzina “non era tanto e solo ricollegabile all'idea di un luogo dove non si lavorava, dove concetti quali mansioni e professionalità certo non potevano albergare, ma era anche simbolica, in quanto rappresentava l'allontanamento traumatico dal mondo del lavoro, il precipitare di una situazione lavorativa sino ad allora normale, la possibile anticamera del licenziamento, la fine di ogni possibilità di continuare a fare ciò per il quale si era stati assunti. Ecco il fulcro del senso intimidatorio della palazzina laf, la sua forza di coazione, il significato di prospettazione di un male ingiusto, poi concretamente realizzatosi. Male ingiusto rappresentato da quello che, paradossalmente, poteva essere visto per i dipendenti come la fine della parentesi buia, come l'uscita dal tunnel della laf e cioè il ricollocamento all'interno dell'azienda in una qualifica diversa ed inferiore rispetto alla propria; da un lato, cioè vi era la prospettata impossibilità di continuare a lavorare secondo la propria qualifica di appartenenza. accompagnata dall'effettivo, immediato, brusco ed immorale allontanamento dalla realtà produttiva, dall'altro l'alternativa di potervi rientrare alla sola condizione umiliante di accettare un forte declassamento professionale. In questo meccanismo sottile, pertanto, pare davvero lampante la sussistenza della coartazione, pare davvero evidente il subdolo condizionamento, posto al lavoratore, al fine di fargli accettare la novazione.”

Vediamo ora come il Tribunale ha inserito le condotte accertate nell’alveo del delitto di violenza privata, fattispecie posta a tutela della liberà morale di autodeterminazione sia nel momento della formazione e manifestazione della volontà del soggetto passivo sia nel momento successivo dell’attuazione della volontà.

Posto che la minaccia deve consistere nella prospettazione di un male ingiusto, ossia nella lesione o messa in pericolo di un “bene della vita” materiale o immateriale, è l’elemento della coartazione nella volontà a distinguere per specificazione il delitto di violenza privata da quello meno grave di minaccia: mentre per la sussistenza della minaccia è sufficiente che l'agente eserciti la sua azione intimidatoria in senso generico, trattandosi di reato formale con evento di pericolo, immanente nella stessa azione, la violenza privata presenta un quid pluris, essendo la minaccia diretta a costringere taluno a fare, tollerare od omettere qualcosa, con evento di danno, costituito dall'essersi l’altrui volontà estrinsecata in un comportamento coartato.

Se il male ingiusto minacciato ha i connotati del danno patrimoniale e se vi si correla un ingiusto profitto anche non patrimoniale in capo all’agente, in base ad una ulteriore specificazione il reato sarà non più quello violenza privata ma il più grave di estorsione.

“Quando si parla di condotta di coartazione nel delitto di violenza privata. secondo nozioni generali di diritto penale, con riferimento alla violenza, sia assoluta che relativa, si intende l'uso di qualsiasi energia fisica da cui derivi una coazione personale; con riferimento alla minaccia, si intende la prospettazione di un male futuro, il cui verificarsi dipende dalla volontà dell'agente, che riguardi non solo la vita e l'incolumità della persona, ma che può anche riguardare la libertà, il pudore, l'onore ecc. del soggetto passivo. La minaccia utile a configurare il reato di violenza privata, quindi, consiste in un'attività del soggetto agente che pone le condizioni necessarie per la verificazione del male prospettato e dipendenti dalla sua volontà, per evitare il quale la vittima è costretta ad un determinato comportamento. Quando poi si parla di minaccia implicita, si ritiene sufficiente a configurarla un atteggiamento intimidatorio, quando questo, in considerazione delle condizioni ambientali in cui l'episodio si svolge. sia idoneo ad eliminare o ridurre sensibilmente nella vittima la capacità di determinarsi liberamente. Nel caso di specie sono state riscontrate, oltre alla illegittimità della condotta e alla sua finalizzazione alla creazione di un danno ingiusto, il carattere, quanto meno, minaccioso di detta condotta: si potrebbe sostenere, a ragione, che la condotta degli imputati abbia anche integrato gli estremi della violenza relativa, "della vis compulsiva", invece che quelli della minaccia pura e semplice, o che, addirittura, abbia integrato entrambe tali forme. Nei casi di "vis compulsiva", infatti, la persona offesa dal reato viene spinta ad un determinato comportamento, sotto la pressione della causazione di un male attuale (l'effettivo invio alla palazzina laf nel caso concreto), producendo nel soggetto passivo quel perturbamento psichico che lo spinga a tenere quella azione (la novazione del contratto) od omissione che altrimenti non avrebbe tenuto. Per cui, pur se è innegabile che la "vis compulsiva" contenga per lo più elementi di minaccia, essa si distingue dalla mera minaccia: quest'ultima, infatti, si concreta in una causazione eventuale di un male futuro, dipendente dalla volontà del soggetto agente, che è solo annunciata, mentre la prima consiste nella predisposizione dei presupposti per una verificazione immediata del male. Potrebbe anche dirsi che nel caso di minaccia "si ha una angoscia anticipatoria per un evento percepito come pericoloso o dannoso per la vittima, mentre la violenza implica come conseguenza una destrutturazione della personalità in atto reale o effettiva". Qualunque soluzione si intenda prediligere, e sembra davvero possibile dire che la condotta di tutti gli imputati abbia integrato prima gli estremi della mera minaccia e poi quella della coazione relativa, quel che è certo è che detta condotta, adeguatamente specificata in contestazione (dove si è letto sia della mera minaccia di andare a finire alla palazzina Laf e sia dell'effettivo trasferimento a detta palazzina - coazione relativa -), è apparsa assolutamente idonea a configurare quella lesione alla libertà di autodeterminazione delle vittime del reato.”

Nessun dubbio, secondo il Tribunale, circa l’efficacia della minaccia: quasi tutti gli inviati alla palazzina Laf erano impiegati cinquantenni di alto livello con anzianità lavorativa trentennale e famiglia a carico, una posizione così poco appetibile in un mercato del lavoro asfittico come quello locale da porli in condizione di oggettiva debolezza e quindi di particolare sensibilità alla minaccia. La minaccia dunque era la possibile espulsione dal mondo del lavoro attraverso l'invio alla palazzina intesa come punto di non ritorno e come regime umiliante, dal quale si poteva uscire solo accettando il demansionamento: “la palazzina Laf…rappresenta quel "girone dantesco", per usare una efficace espressione usata nel corso della discussione del PM, "quel luogo senza tempo", “quel purgatorio in terra”, "quel marchio dell'inutilità e dell'infamia" (per ricorrere a delle espressioni usate in sede di discussione delle parti civili), nel quale si era sottoposti ad un regime di vita umiliante a "tempo indeterminato" e dal quale si poteva uscire solo accettando la novazione.”

Il delitto di violenza privata, quale reato di evento, si consuma nel momento in cui il soggetto passivo ha compiuto l'azione richiesta dall'autore sotto l'effetto dei mezzi coercitivi: nel caso di specie il giudice ha ritenuto che le minacce cui erano stati sottoposti i lavoratori fossero tali da rendere inequivocabilmente prevedibile che dalle stesse sarebbe potuto derivare l'evento lesivo finale, rappresentato dalla coartazione della volontà dei lavoratori e dall'accettazione della novazione. Il Tribunale ha individuato il momento consumativo del reato di tentata violenza privata nel primo colloquio [19] con cui agli impiegati veniva prospettata l’alternativa tra accettare la novazione in peius od essere sottoposti ad libitum al regime mobbizzante vigente nella palazzina; nei casi in cui la minaccia era stata meno esplicita, la consumazione del reato cade nel momento dell'effettivo invio alla palazzina, ossia quando alla minaccia si è aggiunta la predisposizione concreta dello strumento idoneo al verificarsi immediato ed attuale del male. Quanto all’elemento psicologico del reato in capo ai vertici aziendali, il Tribunale non ha avuto bisogno di ricorrere alla costruzione logica del “non poteva non sapere” per ritenerne provata la responsabilità a titolo di concorso, essendo emerso un loro coinvolgimento diretto nel realizzare le condotte criminose.

In un caso come quello esaminato e deciso del Tribunale di Taranto si sarebbe forse potuto individuare, anziché il delitto di violenza privata, quello più grave di estorsione di cui all'art. 629 C.P. il quale, come osservato poco sopra, a parità di condotta se ne distingue per il fine specifico di conseguire un ingiusto profitto, con la consapevolezza che quanto preteso non è giuridicamente dovuto, con danno altrui[20].

Nel caso in esame infatti il fine perseguito dai vertici aziendali era certamente quello di procurasi l’ingiusto profitto patrimoniale (pari all’ingiusto danno patrimoniale per i lavoratori) consistente nella minore retribuzione che gli impiegati avrebbero percepito se avessero accettato la degradazione alla qualifica operaia; nei casi più gravi in cui le condotte mobbizzanti avessero portato il lavoratore alle dimissioni, il profitto (ed il correlato danno) sarebbe consistito nel liberarsi del dipendente e quindi dell’onere di retribuirlo.

A tal proposito, pare più condivisibile Cass. pen. 18 marzo 1986 che individuava il delitto di estorsione anziché quello di violenza privata in un caso in cui “le persone offese, coartate, vessate, maltrattate e suggestionate, erano state costrette, alle dipendenze dell'imputato, a lavori ingrati per conto di questi, senza ricavarne alcuna retribuzione, salvo il minimo di sostentamento per una mera sopravvivenza”, piuttosto che la pronuncia più recente del Tribunale di Camerino, 4 giugno 1993 la cui massima recita “rispondono del reato di violenza privata (e non anche di tentata estorsione) i datori di lavoro che, con continue minacce, vessazioni e offese, abbiano costretto una lavoratrice dipendente a dimettersi dopo che era rimasta incinta, al fine di evitare gli oneri economici conseguenti alla maternità”.

Osserviamo infine che la giurisprudenza della sezione lavoro della Cassazione [21] in tema di dimissioni “sollecitate” con la minaccia di licenziamento è costantemente nel senso che, per annullare le dimissioni perché estorte con violenza morale, è necessario accertare se sussista o meno l’inadempimento che il datore abbia addebitato al dipendente: la minaccia del licenziamento per giusta causa si configura come prospettazione di un male ingiusto di per sé, invece che come minaccia di far valere un diritto (art. 1438 c.c.), solo ove si accerti l'inesistenza del diritto del datore di lavoro al licenziamento, per l'insussistenza dell'inadempienza addebitabile al dipendente.

Se invece il risultato perseguito dall’autore della minaccia si riveli abnorme o diverso da quello conseguibile attraverso il legittimo esercizio d’un diritto o comunque esorbitante ed iniquo rispetto al suo oggetto, si potrà parlare di dimissioni estorte.

 

6. Il mobbing nel pubblico impiego: l’abuso d’ufficio

Riteniamo prospettabile l’ipotesi per cui, nell’ambito del pubblico impiego e laddove il mobber rivesta la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, la condotta mobbizzante possa integrare il reato di abuso d’ufficio [22] :l’art 323 C.P. punisce tali soggetti sia laddove agiscano in violazione di precisi doveri stabiliti da leggi o regolamenti (anche di contenuto disciplinare e procedimentale), sia quando non ottemperino ad obblighi di astensione previsti dalla legge.

La giurisprudenza [23] specifica che la violazione di "norme di legge o di regolamento" deve comportare la riconoscibile sussistenza di un nesso di derivazione causale fra detta violazione e l'evento costitutivo dell'ingiusto vantaggio patrimoniale proprio o altrui e dall'ingiusto danno altrui; il che può verificarsi solo con riferimento a norme che siano dotate di specifico contenuto precettivo, la cui inosservanza vada ad incidere su posizioni soggettive "sostanziali" (o finali), con esclusione, per converso, dei casi in cui l'inosservanza abbia ad oggetto norme meramente programmatiche (come quella dettata dall'art. 97 cost. sul buon andamento e l'imparzialità della p.a.) [24] , ovvero norme procedurali destinate a svolgere la loro funzione solo all'interno del procedimento, senza incidere in modo diretto o mediato sulla c.d. fase decisoria di composizione del conflitto di interessi materiali oggetto di valutazione amministrativa, e ciò tenendo inoltre presente che l'ingiustizia della condotta, in quanto costituita da violazione di norme di legge o di regolamento ovvero da omessa astensione nei casi in cui questa è obbligatoria, può non dar luogo alla ingiustizia dell'evento, parimenti necessaria per la sussistenza del reato, quando quell'evento (vantaggio proprio o altrui ovvero danno del terzo), corrisponda a una posizione soggettiva meritevole di essere giuridicamente tutelata, quale, ad esempio, un potere della p.a., un diritto soggettivo o un interesse legittimo del terzo o del soggetto attivo considerato nello "status" di p.u. o di incaricato di pubblico servizio.

La Suprema Corte  [25], quando ancora la tematica del mobbing non si era affacciata alla ribalta delle aule giudiziarie, aveva avuto modo di chiarire che in tema di abuso d'ufficio, la modifica legislativa operata dalla legge 26 aprile 1990, n. 86 ha introdotto nella struttura del reato il requisito della doppia ingiustizia, nel senso che deve essere contra legem non solo la condotta, ma anche il fine perseguito dall'agente, sicchè il reato in esame non sussiste quando, pur essendo illegittimo il mezzo impiegato, il fine di danno o di vantaggio non sia di per sè ingiusto. Tale interpretazione deriva sia dal tenore letterale della norma, che menziona separatamente l'abusività della condotta e l'ingiustizia del fine, sia dalla ratio di sottrarre alla sanzione penale quelle ipotesi in cui, sia pure attraverso un comportamento materiale formalmente illegittimo (perchè viziato da incompetenza relativa o da violazione di legge), si persegua un fine di per sè legittimo. Abbiamo osservato, nel paragrafo introduttivo, che il fine perseguito dal mobber di per sè non può mai ritenersi legittimo, sia quando egli mira ad indurre la vittima alle dimissioni o ad accettare condizioni altrimenti inaccettabili, sia quando ci si trovi davanti ad un caso di mobbing “ludico”, di nonnismo lavorativo, dove l’agente è mosso dal mero, abietto, fine di divertirsi alle spalle del mobbizzato. Se così stanno le cose, se la strategia mobbizzante è tale da connotare di illiceità tanto la condotta quanto il fine perseguito, nel settore pubblico potrebbe diventare facile individuare nell’art 323 C.P. quella specifica norma incriminatrice del mobbing che invece manca nell’ambito del lavoro alle dipendenze di un datore privato.

Segnalo sul punto due pronunce di notevole interesse, aventi ad oggetto la stessa vicenda dapprima in fase di merito, poi di legittimità.

Con sentenza del 10 giugno 1996 il Tribunale di Modena (Pres. Berlettano, Est. Plazzi;, imp. Genazzani) così ha statuito: “risponde di abuso d'ufficio il direttore di una clinica universitaria il quale, nell'impartire le direttive relative alla definizione dei turni, non si sia attenuto ai criteri oggettivi di competenza, di equa distribuzione del lavoro, di rotazione nei vari settori di pertinenza, che traducono i più generali principi d'imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa, escludendo dall'attività di sala operatoria l'aiuto primario, intendendo arrecargli un danno ingiusto, per ragioni di personale inimicizia.”

Questo il caso: un medico del policlinico universitario, professore associato di clinica ostetrica-ginecologica, accusa il direttore della clinica di ginecologia ed ostetricia di aver abusato del proprio pubblico ufficio di al fine di arrecargli un ingiusto danno escludendolo dall'attività di sala operatoria (fatto per il quale il direttore viene poi condannato) oltre che di una serie di altre condotte, per le quali tuttavia il Tribunale non ha ravvisato profili di illiceità - non avendo riscontrato un esercizio dei poteri del pubblico ufficiale per scopi diversi da quello del pubblico interesse e segnatamente per scopi di ritorsione e vendetta - quali la revoca al denunciante delle funzioni apicali e dell'incarico di responsabile tecnico dei consultori familiari della Usl, la revoca dell'incarico di responsabile del servizio di diagnosi prenatale, l’inserimento discriminante del professore associato in turni di guardia festiva o prefestiva e/o notturna più gravosi rispetto ad altri colleghi. L’inimicizia tra i due medici, da sempre in contrasto sulle modalità di gestione dei servizi della clinica cui erano addetti, era scoppiata in maniera dirompente quando, a seguito della pubblicazione su giornalistica della notizia del decesso di un feto durante il parto avvenuto nella clinica ostetrica di alcune interviste rilasciate su tale vicenda dal professore associato il quale aveva incolpato del fatto l’intera organizzazione ospedaliera, il direttore della clinica aveva comunicato al rettore dell'università di non intendere confermare la propria fiducia quale suo sostituto nella gestione del rapporto con la struttura consultoriale, ed aveva fatto sì che il consiglio di facoltà non gli rinnovasse l’attribuzione delle funzioni apicali. L’associato dunque riteneva che il direttore, stizzito per la pubblicità negativa derivata a lui ed alla clinica dalla diffusione della notizia della morte del feto, avesse colto l’occasione per porre fine ad una sorta di contrasto antagonistico sviluppatosi nel corso degli anni precedenti mediante l’adozione deal descritta serie di misure ritorsive ai suoi danni.

Vediamo in base a quale ragionamento giuridico il Tribunale ha ritenuto che, almeno per una delle condotte del direttore, ossia l’esclusione del professore associato dall’attività di sala operatoria, fosse ravvisabile la violazione dell'art. 323 C.P : “va in primo luogo rilevato che figurano violazioni dell'art. 323 c.p. non solo il porre in essere atti o provvedimenti amministrativi ma pure tutti quei comportamenti di fatto costituenti manifestazioni dell'attività amministrativa, che concretizzano un uso deviato o distorto dei poteri funzionali. Nel caso in esame infatti non risulta che esistessero formali provvedimenti del primario in ordine alla formazione dei turni di sala operatoria: si è tuttavia accertato che le materiali operazioni di compilazione di tali turni venivano effettuate sulla base delle direttive impartite dal primario al quale peraltro spetta, tra l'altro, l'attività di programmazione e di direzione dell'unità operativa affidatagli al cui fine «cura la preparazione dei piani di lavoro e la loro attuazione... nel rispetto dell'autonomia professionale operativa del personale», secondo quanto stabilisce l'art. 63 d.p.r. 20 dicembre 1979 n. 761 (stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali) che per il richiamo operato dall'art. 31 dello stesso d.p.r. e dall'art. 102 d.p.r. 11 luglio 1980 n. 382 si applica anche al personale docente universitario che esplica attività assistenziale in convenzione con la Usl. Rientrava dunque tra i poteri-doveri dell'imputato anche la definizione dei criteri per la formazione dei turni di sala operatoria rispetto ai quali però, in base al combinato disposto delle norme già citate nonché degli art. 7 d.p.r. 27 marzo 1969 n. 128 e 29 d.p.r. 20 dicembre 1979 n. 761 doveva esser sua cura, nelle modalità di assegnazione dei pazienti, il rispetto di «criteri oggettivi di competenza, di equa distribuzione del lavoro, di rotazione nei vari settori di pertinenza» e quindi il rispetto del diritto del medico con qualifica di aiuto all'esercizio «delle mansioni inerenti al suo profilo e posizione funzionale». I fatti emersi nel corso dell'istruttoria denunciano un uso dei poteri di direzione da parte del primario … immotivatamente difforme dai criteri così espressamente indicati dalla legge e che costituiscono traduzione del più generale principio di imparzialità cui deve rispondere l'azione della pubblica amministrazione, in particolar modo in un settore, quello della sanità pubblica, in cui i profili di pubblico interesse si caratterizzano come di estrema rilevanza. Non è dunque giustificabile che scelte indotte da una personale inimicizia influiscano sul diritto della collettività a fruire pienamente delle professionalità in servizio presso l'amministrazione sanitaria, escludendo un medico con qualifica di aiuto primario dall'attività di sua specifica competenza.” Il Tribunale ha quindi ritenuto dimostrata la sussistenza del dolo specifico di procurare a sé od altri un ingiusto vantaggio non patrimoniale ovvero di arrecare ad altri un danno ingiusto, dallo stretto collegamento temporale tra la vicenda della morte del feto e l'immediata reazione del primario di escludere l’associato dalle attività che gli competevano, nelle espressioni negative formulate nei confronti del professore in presenza dei colleghi, nella indifferenza alle richieste del professore di accedere agli ordinari turni della sala operatoria: “da tali elementi può ben evincersi come l'imputato avesse palesemente tradotto l'esercizio dei suoi poteri direttivi in una forma di sanzione ai danni del M., colpevole di aver manifestato pubblicamente un atteggiamento critico nei suoi confronti, e dunque avesse consapevolmente utilizzato tali poteri per finalità individuali, diverse da quelle previste dalla legge”.

In sede di giudizio di legittimità la Cassazione [26] ha poi dato una migliore e più moderna impostazione al problema della violazione di legge quale elemento costitutivo del reato di abuso d’ufficio, che peraltro si dimostra particolarmente utile nel nostro campo d’indagine: in sostanza, l’art. 2043 C.C. assurge ad una di quelle norme di legge la cui violazione comporta responsabilità penale per abuso d’ufficio.

Alla luce del recente orientamento giurisprudenziale espresso dalle sezioni unite civili della Corte di cassazione (sent. n. 500 del 22 luglio 1999) secondo cui deve riconoscersi all'art. 2043 c.c. il rango non più di norma secondaria, volta a sanzionare con l'obbligo del risarcimento una condotta vietata da altre norme, sebbene di norma primaria, volta a garantire la riparazione di qualsivoglia danno ingiusto, identificabile nella lesione, non giustificata da altre norme, di un interesse rilevante per l'ordinamento, deve ritenersi configurabile il reato di abuso di ufficio, sotto il profilo della produzione a taluno di un danno ingiusto, ogni qual volta il soggetto che esplica una funzione o un servizio pubblico abbia posto in essere un'attività da riguardarsi come illegittima dalla quale sia derivata non la lesione di un interesse legittimo in sè considerato, ma la lesione dell'interesse al bene della vita che risulta meritevole di protezione alla stregua dell'ordinamento ed al quale l'interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, si collega”.

La Corte osserva come la nuova formulazione dell’art 323 C.P., con l’introduzione dell’inciso “in violazione di norme di legge o di regolamento”, sia tesa ad escludere dall’area della sanzionabilità penale le condotte dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio poste in essere senza un formale contrasto con positive disposizioni di normazione primaria o secondaria, con “l’obiettivo precipuo, che si coglie in non equivoca dai lavori preparatori della L.234/97, era di sottrarre all’intervento penale i comportamenti affetti solo dal vizio dell’eccesso di potere, per i quali più alti apparivano i cennati rischi di indeterminatezza previsionale e (correlativa) impropria invadenza giudiziaria.”.

Ebbene, le norme la cui violazione rilevi agli effetti del reato di abuso d’ufficio non sono solo quelle la medesima alle sole norme che vietino puntualmente il comportamento sostanziale del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, poiché l’ingiusto vantaggio o il danno ingiusto possono causalmente correlarsi anche alla violazione di norme di natura procedimentale atte ad incidere sull’esito finale dell’attività amministrativa, con la sola esclusione di norme puramente programmatiche come quella di cui all’art. 97 Cost. o altre di analogo contenuto (in tal senso, fra le altre, Cass. 11 febbraio 1999, Chirico). Ciò detto, vediamo come la Corte include l’art. 2043 C.C. nell’ambito delle norme al cui violazione può integrare abuso d’ufficio, questione che “merita approfondimento con riguardo alla particolare ipotesi dell’abuso “in danno”, e ciò alla luce della recente evoluzione giurisprudenziale in tema di risarcibilità (del danno conseguente alla violazione) degli interessi legittimi. Com’è noto, le Sezioni unite civili di questa Corte, con la sentenza n. 500 del 22 luglio 1999, ribaltando un orientamento consolidato da decenni , hanno ricostruito la norma dell’ art. 2043 c.c. in termini, non più (come in passato) di norma secondaria volta a sanzionare una condotta vietata dalle altre norme (primarie), bensì di norma primaria volta ad apprestare una riparazione del danno ingiustamente sofferto da un soggetto per effetto dell’attività altrui. In tale ottica l’ingiustizia del danno è correlata solo al presupposto che esso sia arrecato non iure, e cioè attraverso la lesione, non giustificata da altra norma, di un interesse rilevante per l’ordinamento. Tale interesse va riconosciuto attraverso la comparazione fra lo stesso e quello perseguito dall’autore del fatto lesivo. Nel caso del conflitto fra interesse individuale perseguito dal privato e interesse sovraindividuale perseguito dall’autore del fatto lesivo. Nel caso del conflitto fra interesse individuale perseguito dal privato e interesse sovraindividuale perseguito dalla pubblica amministrazione, quest’ultimo prevale, con sacrificio del primo, solo se l’azione amministrativa è legittima. In caso contrario, quando l’attività illegittima abbia determinato la lesione (non dell’interesse legittimo in sè considerato bensì) dell’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, si collega, e che risulta meritevole di protezione alla stregua dell’ordinamento, il danno in tal guisa causato è risarcibile. Il comportamento del soggetto esplicante una funzione o servizi pubblici, che causi un danno nei termini suddescritti, ricade dunque nell’ambito operativo della norma primaria di cui all’ art. 2043 c.c. Ora questa, letta in congiunzione con le specifiche previsioni inerenti all’interesse protetto di volta in volta leso, risponde certamente ai requisiti di positività delle “norme di legge o di regolamento”, la cui violazione rileva ai fini del novellato art. 323 c.p. Né in contrario, agli effetti di un presunto contrasto con le illustrate esigenze di “determinatezza” della nuova fattispecie incriminatrice, può richiamarsi la circostanza della ricollegabilità della illegittimità dell’azione amministrativa posta in essere dal soggetto al solo superamento dei limiti posti al suo discrezionale espletamento, posto che, in tal caso, detta illegittimità non rileva direttamente in sè ai fini del precetto penale, ma si pone come un mero presupposto storico-logico della violazione surriferita. Calando tali principi al caso concreto, si deve rimarcare che in esso viene sicuramente in rilievo, nell’ipotesi accusatoria, e alla stregua della normativa di riferimento, la risarcibile lesione dell’interesse del M. ad una compiuta estrinsecazione della propria professionalità, cui si correla il suo interesse legittimo ad una assegnazione, da parte del primario, delle mansioni espletande nella struttura di appartenenza, qualitativamente non discriminatoria (e, in particolare, non esclusiva della partecipazione alla importante attività di sala operatoria). Dal coord. Disp. degli artt. 3 e 7 del D.P.R. 27 marzo 1969, n.129; 102 del D.P.R. 11 luglio 1980, n. 382; 29 e 63 del D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, emergono, infatti, con chiarezza sia il riconosciuto valore della posizione professionale del personale medico operante nelle strutture universitarie espletanti servizio assimilato a quello ospedaliero, sia il dovere, per il direttore , di organizzare (anche in correlazione al valore predetto e in attuazione del generale principio di cui all’art. 97 Cost.) il servizio relativo ai pazienti, rispettando criteri oggettivi di competenza, di equa distribuzione del lavoro, di rotazione nei vari settori di pertinenza”

 

7. Il reato di molestie per le ipotesi meno gravi di mobbing

Chiudiamo la carrellata con una ipotesi di reato contravvenzionale che, nei casi meno gravi e soprattutto in quelli di mobbing orizzontale motivato dal sadismo del mobber o dal solo scopo di divertirsi alle spalle ed a spese della vittima, potrebbe rivelarsi utile strumento di tutela: l’art. 660 C.P. (molestia o disturbo alle persone), che punisce gli atti di molestia e disturbo arrecati in un luogo pubblico o aperto al pubblico o col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo [27] . Molto spesso i comportamenti del mobber si sostanziano in atti molesti compiuti certamente per motivi biasimevoli, quali sono quelli che ispirano il disegno mobbizzante. Benché in giurisprudenza si segnalino soprattutto precedenti aventi ad oggetto molestie di carattere sessuale, oggi, alla luce della nuova sensibilità delle corti per il fenomeno del mobbing, i principi potrebbero attagliarsi a tutto il catalogo delle condotte moleste del mobber: segnalo Trib. Napoli, 22 aprile 2002, la cui massima recita “sussiste il reato di cui all'art. 660 c.p. nel fatto del dirigente dell'ufficio che reca molestie a sfondo sessuale alle dipendenti del suo ufficio, approfittando della sua posizione gerarchica (cd. bullyng)”; Cass. pen., sez. III, 11 ottobre 1995 secondo la quale “in tema di atti di libidine violenta due fugaci baci sulla guancia e sul collo, dati fuggevolmente e senza insistenza, sia pure dal datore di lavoro ad una sua dipendente, non integrano gli estremi del reato di atti di libidine violenta e potrebbero integrare, se fatti in luogo aperto al pubblico o pubblico, gli estremi del reato contravvenzionale di molestia o quello di ingiuria, se sussiste l'elemento psicologico” [28] ; Pretore di Milano, 31 gennaio 1997 (Frecchiami c. Soc. S. Andrea 9) per cui “ove sia accertato in fatto che un incaricato del datore di lavoro, nell'esercizio delle proprie mansioni, abbia tenuto per petulanza, nei confronti di una dipendente, reiterati e intenzionali comportamenti sessualmente molesti, in luogo di lavoro aperto al pubblico, e che il datore di lavoro, posto a conoscenza della condotta del preposto, non abbia adottato alcun provvedimento a tutela dell'integrità psicofisica e morale della dipendente, va ritenuta la responsabilità del preposto, sia penale per il reato di cui all'art. 660 c.p., sia civile ai sensi dell'art. 2043 c.c., nonchè la responsabilità civile del datore di lavoro, sia per illecito extracontrattuale ex art. 2049 c.c., sia per illecito contrattuale per violazione dell'art. 2087 c.c. Ove dall'anzi descritto comportamento del preposto sia derivata causalmente alla dipendente una temporanea patologia psichica, consistita in disturbi dell'adattamento, sia il preposto che il datore di lavoro sono entrambi tenuti al risarcimento, tanto del danno biologico temporaneo quanto del danno morale, in via fra loro solidale anche in relazione al danno morale, per il combinato disposto degli anni 2049 c.c. e 185 c.p.”.



[1] Monateri-Bona-Oliva, Mobbing, vessazioni sul lavoro, Milano, 2000; Monateri-Bona-Oliva, La responsabilità civile nel mobbing, Milano, 2002. 
[2] Cass. pen., sez. I, 14 dicembre 1995 “In un processo indiziario, il movente, attribuendo agli indizi il connotato della univocità, costituisce un fattore di coesione degli stessi e, di conseguenza, diventa un elemento utile allo svolgimento del percorso logico diretto a riconoscere valenza probatoria agli altri indizi acquisiti.” Cass. pen., sez. I, 11 novembre 1993: “il movente è la causa psichica della condotta umana e costituisce lo stimolo che ha indotto l'individuo ad agire; esso va distinto dal dolo, che è l'elemento costitutivo del reato e riguarda la sfera della rappresentazione e volizione dell'evento.”; Cass. pen., sez. II, 17 febbraio 1993: “L'indagine psicologica per accertare il dolo eventuale dell'agente va compiuta essenzialmente sul fatto, nel suo svolgimento reale, nonché sulle modalità esecutive di esso e su ogni altro elemento obiettivo che concorra a dimostrare un atteggiamento doloso, caratterizzato dall'intenzione o, meglio, dalla volontà di agire, finalizzata intrinsecamente a uno scopo determinato e perseguito; qualora l'indagine limitata alle circostanze estrinseche e obiettive non consenta un sicuro giudizio ai predetti fini, è necessario, in via del tutto sussidiaria ed integrativa della prova, l'esame del movente ispiratore del delitto che deve essere aderente alla dinamica del fatto e dei comportamenti del soggetto attivo e del soggetto passivo.” 
[3] Cass. pen., sez. VI, 2 aprile 1996, n. 5541 “Ai fini della sussistenza del delitto di maltrattamenti in famiglia il movente non esclude il dolo, alla cui nozione è estraneo, ma lo evidenzia, rivelando la comunanza del nesso psicologico fra i ripetuti e numerosi atti lesivi”: cito la massima sul reato di cui all’art 572 C.P. perché., come espongo poco oltre nel testo, la Cassazione ha individuato proprio quel reato in un caso di mobbing.
[4] I motivi abietti ricorrono nel caso in cui la condotta dell'agente sia ispirata da un movente intensamente riprovevole sotto il profilo morale, da un motivo ignobile o profondamente malvagio e perverso. I motivi futili sono invece quelli caratterizzati dalla evidente sproporzione tra fatto penalmente rilevante e precedente offesa, la quale ultima risulti così inconsistente e banale da connotare di ulteriore gravità il fatto commesso per reazione. 
[5]  Come si legge in Cass. pen., sez. I 6 ottobre 2000 n. 12083, “La circostanza aggravante di cui all'art. 61 n. 4 c.p. ricorre allorquando vengano inflitte alla vittima sofferenze che esulano dal normale processo di causazione dell'evento, nel senso che occorre un "quid pluris" rispetto all'esplicazione ordinaria dell'attività necessaria per la consumazione del reato, poichè proprio la gratuità dei patimenti cagionati rende particolarmente riprovevole la condotta del reo, rivelandone l'indole malvagia e l'insensibilità a ogni richiamo umanitario”, e si noti che “l'aggravante dell'avere agito per motivi abietti o futili (art. 61, n. 1, c. p.) è applicabile anche ai reati colposi, perché, quantunque non si voglia l'evento, l'azione colposa deve essere pur sempre cosciente e volontaria” (Cass. pen., 1 ottobre 1985). 
[6] Così dispone l’art. 572, Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli: «Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorita', o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte, e' punito con la reclusione da uno a cinque anni. Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a otto anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a venti anni.». 
[7] Rimando a CASTELNUOVO-AVETTA “La responsabilità civile negli infortuni sul lavoro e nelle malattie professionali” nella collana “le nuove frontiere della responsabilità civile” diretta da MONATERI.  
[8] Cfr in questo senso Cass. 27 giugno 1998, n. 6388, che ha confermato la sentenza di merito che aveva respinto la domanda ex art. 2087 cod. civ. per difetto di prova del collegamento causale tra la polmonite batterica che aveva determinato la morte del lavoratore e le mansioni svolte, anche nell'ottica dell'accertato rispetto della disposizione citata in relazione alle condizioni dell'ambiente di lavoro. Cfr. anche Cass. 2 giugno 1998 n. 5409: “L'obbligo di prevenzione di cui all'art. 2087 cod. civ. impone al datore di lavoro di adottare non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo di attivita' esercitata e quelle generiche dettate dalla comune prudenza, ma anche tutte le altre misure che in concreto si rendano necessarie per la tutela del lavoro in base all'esperienza ed alla tecnica; tuttavia da detta norma non puo' desumersi la prescrizione di un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile ed innominata diretta ad evitare qualsiasi danno, con la conseguenza di ritenere automatica la responsabilita' del datore di lavoro ogni volta che il danno si sia verificato, occorrendo invece che l'evento sia riferibile a sua colpa, per violazione di obblighi di comportamento imposti da fonti legali o suggeriti dalla tecnica, ma concretamente individuati. (Nella specie una ballerina si era infortunata scivolando durante l'esibizione in un locale della sua datrice di lavoro, di cui aveva chiesto la condanna al risarcimento dei danni; il giudice di merito aveva rigettato la domanda, previo accertamento - non sottoposto a censure ammissibili in sede di legittimita' - che la pista da ballo era molto lucida ma non scivolosa).”
[9]  Cass. 10 maggio 1997 n. 4097. 
[10] Cfr Cass.pen. 21 maggio 1996 n.5114: “l’art. 2087 c.c., pur non contenendo prescrizioni di dettaglio come quelle rinvenibili nelle leggi organiche per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, non si risolve in una mera norma di principio ma deve considerarsi inserito a pieno titolo nella legislazione antinfortunistica, di cui costituisce norma di chiusura, per altro comportante a carico del datore di lavoro precisi obblighi di garanzia a protezione di fini individuali. Detta norma, per il richiamo alla tutela dell’integrità fisica del lavoratore e alla particolarità del lavoro, rende specifico l’illecito consumato in sua violazione sia rispetto alla colpa generica richiamata nell’art. 2043 c.c. che rispetto a quella di rilievo penalistico e in tal caso aggrava il reato, rendendolo perseguibile di ufficio.”
[11] cfr. Cass. 22 aprile 1997 n.3455: “quando l’espletamento delle mansioni proprie della qualifica di appartenenza sia incompatibile con lo stato di salute del lavoratore e comporti l’aggravamento di una preesistente malattia, non può ritenersi responsabile il datore di lavoro per non aver adottato le misure idonee a tutelare l’integrità fisica del dipendente, ove non risulti che egli era a conoscenza dello stato di salute di quest’ultimo e dell’incompatibilità di tale stato con le mansioni affidategli” .
[12] Ex multis, cfr. Cass. pen., sez. IV, 26 aprile 2000, n. 7402, Mantero.
[13] Lageard, Le malattie da lavoro nel diritto penale, Torino, 2000.
[14] Tribunale di Torino, 1ª sezione penale (giudice unico di 1° grado) 1 agosto 2002 (ud. 15 luglio 2002) – Giud. Leo.
[15] Mi sembra interessante riportare per esteso il capo d’imputazione, così come riformulato in udienza dal P.M.: “Artt. 590 comma 1, 2, 3 c.p., e 583 comma 2, n. 1 c.p. – commesso in qualità di responsabile dell’Istituto di Vigilanza Privata Argus di Torino – per avere cagionato a Di Sabato Luigi, esercente l’attività di guardia giurata alle dipendenze di detto Istituto, una lesione personale da cui è derivata una malattia certamente insanabile (infarto del miocardio) che ha lasciato postumi anatomici permanenti (fibre miocardiche sostituite da tessuto fibroso cicatriziale), per colpa, e, in particolare, per negligenza, imprudenza, imperizia, e per inosservanza delle norme sull’igiene del lavoro, e segnatamente, degli artt. 2087 c.c., 3 comma 1, lettere a), f), l), m) e 4 comma 5, lettera c) D. Leg. N. 626/1994, poiché ometteva di effettuare la valutazione del rischio da stress psico-fisico inerente alla sopraddetta attività di vigilanza, di adottare tutti i provvedimenti tecnici, organizzativi e procedurali necessari per contenere tali rischi (quali turni di lavoro di durata non superiore alle dodici ore consecutive sia diurni, sia notturni, e svolti da minimo di due persone tali da diminuire lo stress da timore aggressione; fornitura di strumenti di sicurezza quali torce per i servizi di piantonamento notturno, e radiotrasmittente, nonché mezzi di riscaldamento da utilizzare durante i piantonamenti esterni), di sottoporre il lavoratore ad adeguato controllo sanitario, preventivo e periodico, mirato sul rischio specifico inerente a rischi da stress lavorativo, di informarsi e di informare e addestrare il lavoratore circa tale rischio specifico e i modi per ovviare al rischio medesimo, di allontanare il lavoratore dal rischio nonostante fosse già noto che il lavoratore – a seguito della visita per l’arruolamento nella vigilanza privata – era stato riconosciuto idoneo al solo servizio sedentario; e che aveva una invalidità del 40% nell’uso delle gambe riconosciuta dalla Commissione Sanitaria Invalidi Civili della Regione Campania; che soffriva di nevrosi neuroastenica ipocondriaca, di postumi traumatici di frattura gamba destra e sinistra, di emiparesi dell’arto superiore destro e infine di ipertensione arteriosa; con la conseguenza che il suddetto lavoratore nella notte tra il 7 e l’8 settembre 1995 subiva la menzionata lesione personale”.
 [16] In forza dei principi di cui agli artt. 40 e 41 C.P. regolanti il rapporto di causalità in tema di responsabilità penale ed extracontrattuale, solo nel caso in cui le condizioni ambientali o i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile dell'uomo si palesano sufficienti a determinare l'evento di danno indipendentemente dall'apporto del comportamento umano imputabile, l'autore dell'azione o dell'omissione resta sollevato, per intero, da ogni responsabilità dell'evento, non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto di efficienza causale, senza che in caso contrario la sua piena responsabilità per tutte le conseguenze scaturenti secondo normalità dall'evento medesimo possa subire una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non già tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile (Cass. 27.5.1995  n. 5924; Cass. 1.2.1991 n. 981 e da ultimo Cass. 5. 11.1999  n. 12339, Cass. 9.4.2003 n. 5539).
[17]  In Rivista Penale, 2002, 700.
[18] Le condanne, invero piuttosto pesanti, inflitte ai vari soggetti coinvolti variano dai nove mesi ai due anni e tre mesi di reclusione.
[19] Così il Tribunale descrive il colloquio: “Detto colloquio è stato il culmine della intimidazione, il far toccare con mano ai lavoratori che da quella situazione non si usciva se non con la illegittima novazione peggiorativa delle mansioni, e, quindi, indiscutibile emerge la conferma della sussistenza di quel male ingiusto, terribilmente avvertito dai lavoratori, più che sufficiente ad integrare una minaccia penalmente rilevante. E il quadro della situazione appare ancora più fosco se, a quanto detto, si aggiunge che detto colloquio, che si ripeteva ciclicamente provocando un vero e proprio stato di "angoscia", avveniva secondo certe modalità precise, "invitando" i lavoratori uno alla volta, mai insieme, nella prima stanza a destra rispetto al corridoio che i lavoratori si affrettavano a liberare per il G., non con un tono pacato e corretto, come riferito dall'imputato, bensì col tono di "chi gestisce il potere", "...che non prevede risposta..", con atteggiamento di sfida, di provocazione, addirittura "di guappo"... O se si aggiunge ancora che il Greco infarciva la sua "proposta", "invitando" i lavoratori a non dimenticare il fatto di essere padri di famiglia", "di avere una certa età", per cui non erano prevedibili per loro sviluppi positivi della vicenda, ribadendo loro che l'azienda non sapeva che farsene della esperienza professionale più che decennale che quasi tutti loro avevano, affermando che l'azienda non doveva dare conto a loro delle scelte che si stavano assumendo e che non doveva dare spiegazioni a nessuno, ed esponendo, infine, il punto di vista dell'azienda, che non gradiva molto i dipendenti che si infortunavano, che intraprendevano azioni giudiziarie nei suoi confronti, che appartenevano ai sindacati.” 
[20] Cass. pen., sez. I, 27 ottobre 1997, n. 9958 “In tema di delitti contro la libertà individuale, se la coartazione da parte dell'agente è diretta a procurarsi un ingiusto profitto, anche di natura non patrimoniale, con altrui danno - che rivesta però la connotazione di ordine patrimoniale e consista in una effettiva "deminutio patrimonii" - ricorre il delitto di estorsione e non quello meno grave di violenza privata.” 
[21]  Cass. sez. lav., 16.1.1984 n. 368, cass.sez. lav. 20 gennaio 1999 n. 509, Feltrami/Lloyd Adriatico; nello stesso senso, Cass. Pen. Sez. VI, 2 febbraio 2000, n. 1281, Platania. 
[22]  Così dispone l’art 323, come sostituito dalla legge 16 luglio 1997 n. 234 (art. 13) in G.U. 25.7. 1997, n. 172 “Salvo che il fatto non costituisca un piu' grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a se' o ad altri un ingiusto patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto e' punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. La pena e' aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno carattere di rilevante gravita'.” Il testo previgente cosi' recitava: “Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che, al fine di procurare a se' o ad altri un ingiusto vantaggio non patrimoniale o per arrecare ad altri un danno ingiusto, abusa del suo ufficio, e' punito, se il fatto non costituisce piu' grave reato, con la reclusione fino a due anni. Se il fatto e' commesso per procurare a se' o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale, la pena e' della reclusione da due a cinque anni”. 
[23]  Cass. pen., sez. VI, 30 settembre 1998, n. 12238. 
[24]  Suscita non poche perplessità il fatto che una norma penale posta a tutela della Pubblica Amministrazione come l’art. 323 non debba essere interpretato alla luce delle norme fondamentali che regolano la materia, a partire proprio dall’art. 97, 1° comma, Cost. e, quindi, con riferimento al buon andamento e all’imparzialità dell’amministrazione pubblica. Sta però di fato che la Corte Costituzionale, con ordinanza 28 dicembre 1998 n. 447 ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 323 c.p. sollevata in riferimento agli art. 3 e 97 cost., nella parte in cui, a seguito della modifica normativa, non assoggetta a pena condotte riprovevoli dal punto di vista sociale e lesive dei principi di imparzialità e buon andamento della p.a., osservando che, a norma dell'art. 25 comma 2 cost., solo il legislatore può, nel rispetto dei principi della Costituzione, individuare i beni da tutelare mediante la sanzione penale e le condotte, lesive di tali beni, da assoggettare a pena, nonchè stabilire qualità e quantità delle relative pene edittali. Cfr tuttavia C.F. GROSSO, Condotte ed eventi del delitto di abuso di ufficio, in Foro it., 1999, V, 329 ss., il quale, tra l’altro, osserva che “non pare dubbio che un esercizio infelice, inopportuno o parziale dell’attività amministrativa costituisca violazione della legge fondamentale che regola l’esercizio della stessa. Ciò significa che l’attività amministrativa non conforme al buon andamento o all’imparzialità (che abbia cagionato vantaggi patrimoniali o danni ingiusti), e per questo motivo contraria al principio di legalità costituzionale, dovrebbe continuare, come prima della riforma del 1997, a rilevare penalmente sotto il profilo della locuzione «violazione di legge» usata nell’art. 323 c.p. Sarebbe anzi ben curioso che potesse costituire ad esempio reato ogni infrazione, anche marginale, di una qualsiasi norma procedimentale, e non lo potesse la violazione di un principio fondamentale di legalità costituzionale”. 
[25]  Cass. pen., sez. VI, 19 dicembre 1994, che ha confermato la condanna per il delitto di abuso d’ufficio di un dirigente del settore legale di una Regione che, al fine di danneggiare dipendenti del proprio ufficio dotati della necessaria qualifica professionale e di favorire la collaborazione di professionisti esterni, aveva falsamente attestato la necessità di far ricorso a questi ultimi per l'eccessivo carico di lavoro cui i dipendenti non sarebbero stati in grado far fronte. 
[26]  Cass. pen., sez. VI, 24 febbraio 2000, n. 4881, in Riv.Pen., 2000, 575. 
[27]  Cass. pen., sez. I, 21 settembre 1993: ai fini della sussistenza del reato di cui all'art. 660 c.p., per "petulanza", deve intendersi un modo di agire pressante, indiscreto e impertinente, che sgradevolmente interferisca nella sfera della libertà e della quiete di altre persone; mentre per "biasimevole motivo" si deve intendere più genericamente ogni altro movente che sia riprovevole in sè stesso o in relazione alla qualità della persona molestata e che abbia praticamente su quest'ultima gli stessi effetti della petulanza.”  
[28]  Per i casi più gravi la S.C. esclude la sussistenza del reato di molestie e parla decisamente di violenza sessuale: “commette il delitto di atti di libidine violenti di cui all'art. 521 c.p. ora sostituito dal delitto di violenza sessuale di cui all'art. 609 bis c.p., e non la contravvenzione prevista dall'art. 660 c.p., il dirigente di un ufficio pubblico il quale compia nei confronti di una impiegata dipendente atti sessuali, da intendersi in senso ampio come atti connotati dalla manifestazione dell'istinto sessuale contro una persona non consenziente, posti in essere con consapevole volontà da un soggetto e aventi l'idoneità di incidere sulla libertà di disporre del proprio corpo nella sfera sessuale. (Nella fattispecie, la dipendente era stata oggetto di ripetuti toccamenti al seno ed al sedere e di tentativi di baci sulla bocca, e, dunque, di azioni ritenute incidenti in modo diretto sulla libertà di determinazione della persona nella sfera intima sessuale e per di più aggravate da una odiosa discriminazione sul lavoro).” Cass. pen., sez. III, 01 luglio 2002, n. 34297.

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