IL LAVORO ATIPICO CHE FA MALE ALLE AZIENDE

 

QUARANTOTTO. È una cifra che il neo presidente della Confindustria Luca Montezemolo potrebbe trovar utile inserire tra i temi da discutere da un lato con le imprese, dall'altro con i sindacati. Quarantotto è il numero delle differenti modalità di lavoro atipico che l'Istat ha individuato nel nuovo quadro regolamentare emerso con l'approvazione della legge n° 30/2003 e del suo decreto attuativo n° 276. Ne parla il recente rapporto annuale sulla situazione del Paese. Detto numero viene fuori combinando la maggiore o minore stabilità del contratto, la durata dell'orario di lavoro, la presenza di diritti sociali pieni o ridotti.

Dinanzi a tale proliferazione dei lavori atipici sarebbe agevole riprendere le valutazioni negative che chi considera il lavoro un mezzo insostituibile di crescita professionale e civile, e di solidarietà collettiva per riequilibrare in qualche misura il rapporto di forza altrimenti impari tra il lavoratore e l'impresa, da tempo avanza nei loro confronti. La precarietà del lavoro che diventa precarietà dell'esistenza. L'elevato rischio di entrare nel rango dei lavoratori e dei pensionati poveri. La individualizzazione dei rapporti di lavoro che rende ardua la rappresentanza sindacale; dopodiché si accusano i sindacati di non essere abbastanza rappresentativi del mondo dei nuovi lavori. Ora non v'è alcuna ragione oggettiva per affermare che il presidente della Confindustria debba essere particolarmente sensibile a siffatte valutazioni, anche se è dato supporre che Montezemolo lo sia in maggior misura del suo predecessore D'Amato. Il fatto che può interessare il vertice di tale ente è che un numero crescente di imprenditori e dirigenti cominciano a nutrire seri dubbi sulla razionalità economica ed organizzativa della presenza in azienda di lavoratori e lavoratrici inquadrati da dozzine di rapporti di lavoro differenti, tutti diversi dal normale rapporto di durata indeterminata e l'orario pieno.

Alcuni imprenditori e dirigenti hanno preso a fare i conti per stabilire se e in qual misura convenga utilizzare contratti di lavoro atipici, sinonimo di occupazione flessibile o precaria. Scoprendo, ad esempio, che il ricorso al lavoro in affitto esteso a gruppi di lavoratori di qualsiasi dimensione, quello che il decreto attuativo della legge 30 chiama, con un termine dal vago sentore medico, "somministrazione di lavoro", può venire a costare assai caro. Infatti la fattura che l'impresa di somministrazione da cui i lavoratori da affittare dipendono presenterà all'impresa utilizzatrice sarà composta, salvo errore, dalle seguenti voci, siano esse esplicite o implicite: il costo dei lavoratori affittati, comprensivi degli oneri contributivi, previdenziali, assicurativi e assistenziali; il recupero del costo della indennità di disponibilità che l'impresa somministratrice deve pagare ai dipendenti nei periodi in cui questi non sono impiegati presso un utilizzatore, stabilita dal Ministero del Lavoro in 350 euro mensili, più i relativi oneri contributivi; il recupero del contributo del 4 per cento che detta impresa deve versare a un fondo bilaterale costituito tra le imprese di somministrazione di lavoro, destinati a misure di integrazione del reddito dei lavoratori; il recupero delle spese di gestione dell'impresa; più, ovviamente, un equo profitto sul capitale impegnato. Se ne ricava che in totale una simile fattura emessa dall'impresa somministratrice di lavoro a carico dell'impresa utilizzatrice potrebbe costare a quest'ultima, per ogni giornata o mese di lavoro/persona, tra il 50 e il 100 per cento in più del normale costo del lavoro.

Ma ciò che comincia a preoccupare imprenditori e dirigenti non è soltanto la questione dei costi del lavoro atipico. Ve il rischio del caos organizzativo e gestionale che può nascere dalla compresenza nello stesso spazio lavorativo, sia quello di una fabbrica o di un palazzo uffici, di lavoratori inquadrati da dozzine di contratti di lavoro differenti. L'obiezione per cui un'azienda resta libera di scegliere d'impiegare lavoratori con un unico contratto non regge dinanzi alla realtà dell'organizzazione contemporanea della produzione di beni e servizi. Per la maggior parte le imprese hanno realizzato una complessa divisione del lavoro che vede le loro attività produttive affidate per una quota rilevante ad aziende esterne, e per una quota parimenti rilevante ad aziende - i cosiddetti terzisti - che entrano all'interno dei suoi impianti e uffici per lavorare a fianco dei dipendenti dell'impresa motrice. Tra aziende esterne, terzisti operanti all'interno, e dipendenti diretti di quest'ultima, a fronte di una normativa che permette e incentiva quarantotto modalità di contratto di lavoro differenti è naturale che quelle compresenti entro lo stesso spazio, allo stesso momento, siano dozzine. Da qui nasce un incubo per i direttori di produzione, i gestori del personale (o delle "risorse umane", come si dice oggi con un'espressione che Kant non approverebbe), i quadri. Aver a che fare con centinaia di persone che oltre a far capo a decine di aziende diverse sono anche titolari di dozzine di contratti di lavoro differenti, significa infatti aver a che fare con un'infinita varietà di interessi e di atteggiamenti, con conflitti interpersonali e intergruppo, con processi legati all'ininterrotto confronto tra il proprio trattamento retributivo e normativo e quello del vicino. In tale situazione, governare l'organizzazione d'impresa ed i processi produttivi diventa un impegno che perfino Sisifo rifiuterebbe, trovando preferibile il suo.

È risaputo che il proliferare del lavoro precario ha effetti negativi sulla qualità della vita. Nuoce anche alla salute: centinaia di medici e di operatori sociali se ne stanno occupando in varie città italiane. Se poi si scopre che nuoce anche alle aziende, si può intravvedere un interessante tavolo di discussione e contrattazione tra i nuovi vertici di Confindustria, le imprese e i sindacati.  

 

(da "la repubblica" 5.6.2004)

Luciano Gallino

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