La civile contestazione dei magistrati: autodifesa contro
l’aggressione all’autonomia del potere giudiziario
Difendiamo
l'indipendenza della magistratura.
Francesco Saverio Borrelli, procuratore di Milano ancora per
tre mesi, ha aperto l'anno giudiziario con parole durissime, una denuncia
aperta e chiara dell'attacco che si sta portando contro i processi per
corruzione. Vogliamo citare le sue parole perché in questo momento sono le
parole di tutti noi. "Le riforme annunciate, meglio, minacciate, con trasparenti
intenti punitivi verso una magistratura indipendente, ben poco hanno a che fare
con l'efficienza... Si afferma la necessità di combattere il crimine
transnazionale... ma si e' tentato, per fortuna con mezzi inidonei, con la
legge sulle rogatorie, con le riserve al mandato di cattura europeo, con
campagne di rabbiosa disinformazione, di frapporre ostacoli......Un moderno
codice deontologico dovrebbe sanzionare come oltraggio alla giustizia ogni
esercizio dei diritti all'interno del processo stesso che abbia come unico
scopo quello di nuocere o ritardare il processo stesso......Deve pure farsi
menzione di altri fenomeni di questa sconcertante fase della nostra civiltà
giuridica: le accuse generiche di parzialità preconcette formulate contro i
giudici con l'insistenza martellante degli imbonimenti televisivi;
l'analfabetismo storiografico che ha indotto qualcuno a lanciare come anatema
contro i magistrati la parola "giustizialismo"; la reinvenzione della
storia giudiziaria, quando pacchi interi di sentenze di condanna, spesso
patteggiate a seguito di confessione, vengono attribuiti a una guerra civile di
magistrati contro elite politiche della prima Repubblica affossatesi in realtà
da sole, nelle sabbie mobili della corruzione più sfacciata......Ma forse la
sentenza della Corte di Strasburgo sul caso Craxi è già stata
dimenticata......La minaccia di provvedimenti disciplinari contro i magistrati
che esprimono il loro pensiero; la volgarizzazione di questioni giuridiche per
slogan, per poter demonizzare singoli o collegi giudicanti, magari poi
attaccandoli con esposti e denunce... la riduzione della protezione a
magistrati esposti a rischi di incolumità personale per vendette mafiose e/o
per rancori politici sapientemente attizzati, conseguente, com'e' accaduto a
Milano, a irremovibili determinazioni discendenti i rami dell'obbediente
burocrazia (alludo alla soppressione della scorta per quei pm che sì , per
caso, per puro caso, sono quelli stessi che sostengono l'accusa contro il capo
del governo) tutto ciò procede in una direzione esattamente opposta..."
Borrelli ha concluso con un appello "alle loro maestà i cittadini":
"Resistere, resistere, resistere, come su un'irrinunciabile linea del
Piave." Sì, cari lettori, se pensate che prima o poi venga il momento di
fare qualche cosa, forse il momento e' proprio adesso. Intanto, in giro per il
mondo si stanno chiedendo come sia possibile che in Italia si sia arrivati a
una situazione del genere. Ce lo chiediamo anche noi.
(Dario Fo e Franca Rame, Il Cacao della domenica, 13.
1.2002)
Non si erano mai viste prima d’ora le sedi delle Corti
d’appello di tutt’Italia diventare luoghi di contestazione civile ma
fermissima, a difesa dell’autonomia della magistratura, dell’indipendenza della
giurisdizione e dell’azione penale, di serissima critica alle continue
interferenze del ministro della Giustizia e del potere esecutivo nel suo
complesso.
Gli incitamenti del Procuratore generale della Cassazione a
smorzare i toni e abbassare il livello della polemica sono durati
ventiquattr’ore, né poteva essere altrimenti di fronte alla decisione del
governo, spalleggiato dalla sua maggioranza parlamentare, di smantellare pezzo
per pezzo il controllo di legalità affidato dalla Costituzione all’Ordine giudiziario.
Perché questa è la situazione, questo è il punto d’arrivo dei primi otto mesi
di governo della Casa delle libertà: la destra italiana, e in particolare Forza
Italia e la Lega, mira a demolire le istituzioni di controllo, i poteri
bilanciati e autonomi, le articolazioni di contrasto che da duecento anni
costituiscono il nucleo essenziale dello Stato moderno e del pensiero liberale.
La contestazione dei magistrati che ha infiammato ieri le
cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario aveva questo significato, reso
esplicito dal solenne ammonimento del Procuratore generale di Milano, Francesco
Saverio Borrelli, rivolto ai suoi colleghi e ai cittadini che gremivano l’aula
della Corte d’appello: “Resistere, resistere, resistere”.
La cronaca della magistratura di ieri è ricca di episodi, di
scontri verbali, di contrasti comportamentali, con le toghe nere che escono
dalle aule quando prendono la parola i rappresentanti del governo e questi se
ne vanno quando sono i magistrati a parlare: comportamenti che si verificano
speso in Parlamento, quando il dibattito tra maggioranza e opposizione si fa
più infuocato, ma che non si erano mai verificati tra i rappresentanti di
poteri diversi e autonomi nei campi di reciproca competenza.
Se a questo si è giunti, segno è che il rapporto tra il
potere esecutivo e quello giudiziario è arrivato al punto di rottura e la
ragione è chiarissima.
I processi in corso
che vedono imputato il presidente del Consiglio e i suoi amici sono soltanto gli aspetti più vistosi di una crisi
le cui dimensioni sono molto più ampie: la destra, puntando sulla forza del
consenso ottenuto il 13 maggio, vuole liberarsi dai condizionamenti, dai
controlli, dalle istituzioni di garanzia. Siamo di fronte ad un raro caso di
conflitto, culturale oltre che politico, tra istituzioni liberali e dittatura
della maggioranza. Il paradosso è dato dal fatto che la difesa dello spirito
liberale, nell’anomala situazione italiana, è affidata alla sinistra mentre è
la destra che porta avanti il disegno della dittatura maggioritaria.
L’occasione della crisi parte dalla deliberata volontà di
Silvio Berlusconi e di Cesare Previti di impedire che i magistrati inquirenti
ed i collegi giudicanti portino a compimento i procedimenti giudiziari in corso
nei loro confronti. Ma da questa occasione si snoda un disegno molto più
complesso: quello di costruire in breve tempo un potere politico assoluto,
sorretto da un consenso plebiscitario ottenuto con la forza del monopolio
pressoché totale dei mezzi di comunicazione.
Questo è il senso di quanto sta accadendo da otto mesi a
questa parte; perfino il licenziamento del ministro Ruggiero si legge meglio
alla luce di queste riflessioni; l’europeismo berlusconiano è infatti molto avaro, la democrazia senza liberalismo
è un frutto anomalo nell’Unione europea; di qui l’euroscetticismo della destra
che vuole restar padrona in casa propria senza troppa Europa tra i piedi. Da
questo punto di vista Fini, Urbani, Tremonti, si equivalgono checché ne pensi
il presidente ella camera, anche se è vero che nel disegno berlusconiano della
“reductio ad unum” Gianfranco Fini rappresenta pur sempre una diversità, una
mosca nel bianco latte di Forza Italia tutta da bere
(omissis)
Si risponde: tocca ai magistrati del processo Sme abbassare
le armi, i toni, l’accanimento. Vogliamo esaminare ancora una volta il senso di
questa proposizione?
Ci
sono a Milano tre processi in corso che riguardano Berlusconi e Previti (Sme),
Previti (lodo Mondadori) la Fininvest (All Iberian). A causa dell’ostruzionismo
sistematico degli avvocati della difesa i processi rischiano di non potersi
svolgere fino alla decorrenza dei termini di prescrizione. Sono state
addirittura approvate leggi (rogatorie, falso in bilancio) per renderne ancora
più ardua la celebrazione. E’ intervenuto infine personalmente il ministro
della Giustizia per bloccare la composizione del collegio giudicante del
processo Sme. Ed ora il ministro dell’interno denuncia il procuratore generale
di Milano per diffamazione contro il governo. Qual è l’accanimento dei
magistrati se non quello di poter portare il processo a compimento, compiendo
in tal modo il dovere che la legge loro impone? Non siamo forse in presenza di
un tentativo di denegata giustizia, condotto con tutti i mezzi da due poteri dello Stato contro il potere giudiziario?
Questo è lo stato dei fatti nudo e crudo. La reazione della magistratura italiana di ieri è il risultato inevitabile di questa situazione. Non era mai accaduto, lo ripeto, che un conflitto di queste laceranti dimensioni si verificasse. Otto mesi di governo della destra e questo risultato: non c'é da preoccuparsene?
(articolo
di Eugenio Scalfari, in La Repubblica, 13 gennaio 2002)
L’ ultima
requisitoria
“Manifesto
politico”, come malignamente dicono nella Casa delle Libertà o “testamento
etico e professionale”, come con generoso affetto sostengono i suoi ammiratori?
Non importa definire qui l’ultimo discorso del procuratore generale di Milano,
Francesco Saverio Borrelli. Conviene chiedersi, mi pare: i toni scelti sono i
più utili o i meno utili per rappresentare “alle loro maestà i cittadini” il
pericolo che minaccia i valori della nostra cultura giuridica e il sistema di
regole del Paese? Quel desiderio dell’alto magistrato di essere, con micidiale
allegria, irriverente, lucidamente irrispettoso nei confronti del rito che
andava officiando, ha reso più efficace o meno efficace la severa denuncia dei
“trasparenti intenti punitivi verso una magistratura indipendente”?.
Quel
che è accaduto ieri lascia il dubbio che una così aspra e fumigante censura
degli atti del governo, delle volontà del presidente del Consiglio, delle mosse
dei suoi avvocati-parlamentari possa soltanto alimentare quel catalogo delle
verità rovesciate sciorinato dai ventriloqui del Cavaliere. Che, in questi
frangenti, recita: ecco, avete assistito alla giustizia che si fa politica con
un nuovo tentativo di “attentato ad un organo costituzionale”. Come se coprirsi
il volto dopo aver preso un pugno in faccia, fosse un atto di aggressione.
Non è
così, com’è ovvio, se si mettono in fila i fatti e non le parole della
propaganda amplificate da un circuito mediatico controllato dal
premier-imprenditore. Fin dalla sua ascesa a Palazzo Chigi, Silvio Berlusconi è
stato come ossessionato dalla necessità di liberarsi dai processi che lo vedono
imputato con l’amico Cesare Previti. Ripete a ogni piè sospinto che a Milano si
è combattuta e si combatte “una guerra civile”. Ne ha parlato ai leader degli
Stati europei, ne parla agli ambasciatori e con chiunque capiti dall’estero
nelle sue stanze. Si è scelto un goffo ministro di Giustizia che sembra
lavorare di concerto con gli avvocati del capo del governo. Ha fatto approvare
leggi che sottraggono a quei processi il reato e le fonti di prova. Ha cercato
di sottrarsi a impegni europei contro la criminalità economica e finanziaria.
Costretto ad accettarne i patti, ha annunciato di voler riformare la giustizia
in sei mesi (poi in tre mesi) e per farlo ha promesso di “cambiare la
Costituzione”. Quel che vuole Berlusconi è trasparente: non vuole essere
giudicato. Al fondo di questa aggressione e al diritto fondamentale
dell’uguaglianza dei cittadini di
fronte alla legge, c’è il consueto interesse privatissimo del presidente del
consiglio e, quel che è peggio, la determinazione di non riconoscere ai
magistrati la legittimità sancita dalla legge e dalla Costituzione per farne
“burocrati”, “funzionari” del potere politico. Per ottenere il suo scopo,
Berlusconi appare disponibile a gettare sul piatto della bilancia la spada di
Brenno del suo peso politico, la forza parlamentare in grado di modificare
leggi, reati, forme del processo. Di obbligare il ministro di Giustizia a
preparare il terreno per l’accusa di “legittimo sospetto” contro Milano (qui
fattori esterni alternano il giudizio).
Sono
pugni in faccia. La magistratura, dal Piemonte alla Sicilia, alza le braccia
per coprirsi il volto. Rivendica la sua indipendenza stringendosi nelle toghe
nere. Denuncia le manovre arbitrarie del ministro di Giustizia. Rifiuta,
abbandonando le aule, di ascoltare gli emissari del Guardasigilli perché è il
Guardasigilli il loro istituzionale interlocutore (e bisognava essere in una di quelle aule per avvertire quale
smarrimento può provocare una così plastica rappresentazione del gravissimo
conflitto che si è aperto tra due poteri dello Stato).
Francesco
Saverio Borrelli decide di fare di più, come se ci fosse bisogno di fare di più.
Decide di alzare il dito e la voce contro il presidente del Consiglio. E’
convinto che “un discorso sull’amministrazione della Giustizia non deve mai
rinunziare ad una dimensione civica, a una dimensione etica e non può oggi
attestarsi dietro la barriera dell’esistente e ignorare gli scenari, la
negatività che incombono sull’oggi”. Sente di dover difendere la sua storia,
con la storia del suo ufficio, il passato e il futuro della magistratura
italiana. Denuncia “l’intenzione di vincolare il pubblico ministero all’esecutivo”.
Osserva che “ne sarebbe vulnerata indirettamente la stessa indipendenza del
giudice penale e la signoria della legge”. Deplora “l’orchestrazione di
campagne di rabbiosa disinformazione” e “le accuse generiche di parzialità
preconcette, formulate contro i giudici, con l’insistenza martellante egli imbonimenti televisivi”.
Schernisce “l’analfabetismo storiografico che ha indotto qualcuno a lanciare
come anatema contro i magistrati la parola ‘giustizialismo’ che nel secolo XX
ha indicato una certa ideologia di destra basata sull’interclassismo e su un
populismo demagogico dominato dal ruolo carismatico del capo”. Allude alla
rimozione delle scorte per quei magistrati che “guarda caso, rappresentano l’accusa
contro il capo del governo”.
Francesco
Saverio Borrelli, nel suo ultimo discorso pubblico, cede alla tentazione di
vuotare per intero il sacco della sua
indignazione etica e civica. Con qualche vanità, si elegge a custode della pubblica
virtù, coscienza morale della vita
sociale politica del Paese. Al principio e alla fine del suo intervento invoca “la
resistenza”. Quella “Resistenza contro il regime del Ventennio da cui è nata la Costituzione, presidio di resistenza
contro ogni altro regime possibile o futuro”. Quel “resistere, resistere,
resistere come su una irrinunciabile
linea del Piave” che, come un grido, un invito, un’ultima invocazione, ha
concluso il suo discorso.
Non c’è
una parola, una riflessione del procuratore generale che non possa essere
condivisa. Ma, mentre ha inizio un’ovazione che segue i nove applausi a scena
aperta che hanno interrotto l parole dell’alto magistrato, viene da pensare che
non c’è giudice che possa esistere a di
fuori dell’istituzione. Che soltanto nell’istituzione, quindi con le regole
dell’istituzione, il magistrato può, deve, ha il diritto di farsi ascoltare, e
noi il dovere di ascoltarlo.
Mentre
nuovi, lunghissimi applausi accompagnano l’uscita del procuratore generale, è
difficile trattenere la convinzione che le parole di Borrelli precipiteranno
(come subito precipitano) nel calderone di un’eterna polemica dove ha ragione
chi urla di più, in uno scontro che oscura gli argomenti e li affida all’opinione pubblica come uguali
e confusi, come il frutto indigesto di un cozzo di individualità, caratteri,
convinzioni personali, comportamenti politici mentre quel che è in gioco è ben
altro.
E’ in
gioco, da una parte, l’interesse privatissimo del presidente del Consiglio e,
dall’altro, il valore politico della legge uguale per tutti, l’interesse
collettivo di una comunità ad avere fiducia che la legalità valga anche per chi
pretende, con il potere, l’impunità. E’ stato allora utile o non inutile il
discorso di Borrelli? E’ stato un discorso bellissimo, purtroppo non utile. Speriamo
che non si riveli alla fine addirittura dannoso.
(articolo
di Giuseppe D’avanzo, in La Repubblica, 13 gennaio 2002)
P.S.
di Mario Meucci - La conclusione di
quest'ultimo articolo è equivoca ed incontra il
nostro dissenso (o meglio la necessità di puntualizzazioni): non è con il
metro della "utilità" che si misurano i comportamenti umani. Se
poi, a questa stregua, la denuncia di Borrelli si rivelerà dannosa (cioè non
"utile") ciò dipenderà solo dalla forza bieca e dall’arroganza
degli avversari, senza che nulla sia da addebitare ad una supposta “inopportunità”
della denuncia stessa, perché principio
conduttore del proprio comportamento nella vita - qualsiasi sia il ruolo che si rivesta ed in qualunque istituzione
statuale o accademica lo si rivesta – è
quello di non mortificare mai la
propria dignità, di mantenere (a costo di mangiare come dicevano i nostri
contadini “pane e cipolla”) la schiena dritta e di non vestire “la livrea” del
maggiordomo solo per poter essere compartecipi delle briciole dei benefici
(spesso dei privilegi, a danno di altri!) dispensati dal “padrone” o dal “barone”.
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