Problemi dell'abuso del potere direttivo pubblico a fini di bossing
SOMMARIO:
1. Contesto conflittuale ed interesse a conformare i comportamenti
nell’ambiente di lavoro. – 2. Lo sviamento del potere direttivo. – 3.
L’elemento psicologico nella costruzione della fattispecie dell’abuso del
potere direttivo a fini di “ bossing “. – 4. Profili di responsabilità
nella condotta del mobber. – 5.
La P. A. alla prova dei codici di condotta anti – mobbing.
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1. Contesto conflittuale ed interesse a conformare i comportamenti nell’ambiente di lavoro.
Ci
chiediamo se il bossing (o mobbing verticale) possa costituire, nell’ambito
delle organizzazioni pubbliche, una leva strategica gestionale in grado di
inscriversi in un quadro di razionale impiego delle risorse umane e se sia in
grado di incidere in senso positivo sugli effetti dell’attività
amministrativa. Per dare risposta a questa domanda, occorre, preliminarmente
all’avvio di una analisi giuridica, esaminare ciò che viene definito “ il
sostrato etologico dei gruppi umani “ [1].
Si
osserva che il terreno di coltura privilegiato del mobbing è dato dalla
precarizzazione dei rapporti di lavoro, dalle fusioni, ristrutturazioni
aziendali etc. che favoriscono condotte datoriali finalizzate alla espulsione
della vittima dall’ambiente di lavoro.
Gli
studiosi di matrice organizzativistica ritengono
che, a causa dell’ odierna indistinzione tra tempi di vita e tempi di lavoro,
quest’ultimo “ si trasferisce nella casa del lavoratore, entra nel suo
corpo, nella sua quotidianità “ e “ anche per questo si arriva al nodo del
mobbing, nel momento in cui il lavoro entra nel corpo stesso delle persone “ [2]. Il lavoro diverrebbe pertanto una dimensione sempre più assorbente, quando
non totalizzante, dell’esperienza umana, per cui l’individuo è ciò che fa.
Ciò contribuirebbe all’esponenziale sviluppo del c.d. mobbing sistemico, che,
come sembra, preliminarmente alla selezione delle finalità (espulsione,
emarginazione, discredito, discriminazione etc.) si configura come vero e
proprio sistema di organizzazione produttiva delle attività umane, basato
sull’iterazione di eventi traumatici che si inscrivono all’interno di un
progetto volto ad indebolire le
resistenze psicologiche ed a manipolare la volontà del lavoratore colpito da
tali condotte. Anche qui è fondamentale il tratto riferibile alle
amministrazioni pubbliche, dove pure è riscontrabile una tendenza di parte
datoriale ad esercitare pressioni volte ad uniformare anche i comportamenti più
banali dei dipendenti, a discriminare in base ai mai sopiti clientelismi
politico/burocratici i lavoratori non “ intranei “ al sistema, a
condizionare (ed infine a scientemente manipolare) la prestazione dei
lavoratori, imponendo obblighi “ virtuosi “ – i quali nulla hanno a che
vedere con il legittimo diritto di esigere la collaborazione tecnica alla
realizzazione dell’obiettivo posto alla struttura - ma che pure incidono (in
quanto diretti a garantirsi comportamenti altrimenti non ottenibili) come e più
della perizia professionale dimostrata, nell’ adozione delle determinazioni
organizzativo/gestionali finalizzate ad allocare vantaggi e svantaggi fra i
lavoratori.
Ad
illuminare ulteriormente la riflessione che andiamo svolgendo vi è il
contributo della letteratura psichiatrica, che denuncia il carattere pervasivo
della violenza psicologica in tutti gli ambiti istituzionali, compresi gli
ambienti di lavoro. Molto calzante è l’osservazione secondo cui “ i luoghi
di lavoro, oggi, diventano luogo primario di questo tipo di violenza,
ritualizzando la violenza come legittima, forzando l’accettazione di regole e
convenzioni, divieti e punizioni: questo tipo di violenza si camuffa sotto il
profilo del doverismo, della rigidità verticistica (mio il corsivo), fa leva
sulla paura, sulla debolezza, sull’ignorare e sul non informare e quindi
impedisce la libertà di scelta, e di decisione consapevole reificando
costantemente la dipendenza, la sottomissione e la non differenza, e distrugge
la possibilità di identità e di individualità e la capacità di relazione “
[3]. Stando a tale ricostruzione, il mobbing praticato nelle organizzazioni di
lavoro pubbliche parrebbe doversi ascrivere alla categoria del mobbing
relazionale, nel quale il metodo del divide
et impera diventa governo abituale adatto ad aizzare le persone le une contro le
altre attraverso il rifiuto, il travisamento della comunicazione diretta o
l’invio di messaggi a duplice lettura, il tutto finalizzato allo scopo di
destabilizzare, squalificare, o, più spesso, emarginare il lavoratore [4].
In
realtà, oltre a costituire una ( sia pur discutibile ) leva di strategia
gestionale del personale, il bossing, in ambito pubblico, sembrerebbe alimentato
da pulsioni di tipo narcisistico che il dirigente - mobber soddisfa sfruttando
la sua posizione per infliggere (specie nei confronti di dipendenti non
allineati, ovvero verso cui nutre gelosie/invidie professionali) in modo
perverso persecuzioni volte al condizionamento, al controllo, al dominio,
all’annientamento ed alla distruzione dell’altro, sovente assumendo a
movente della propria azione l’asserita superbia od incompetenza del
mobbizzato. A conferma di ciò, la dottrina giuridica [5]
rileva che il ricorso a tecniche e strategie di mobbing può essere
determinato, in alcuni contesti lavorativi, non da finalità espulsive ma – e
questo sembra essere il caso dell’impiego pubblico – dall’esigenza, di
natura gestionale, di governare gli assetti organizzativi attraverso
l’annullamento dello spirito critico dei dipendenti, lasciandoli al loro posto
di lavoro a condizione che si assoggettino ad ogni direttiva o richiesta (
ancorché illegittima, discriminatoria o vessatoria ) proveniente dai vertici
burocratici. In realtà, l’analisi che la dottrina giuspubblicistica ha
avanzato [6], secondo cui il proliferare del mobbing nelle pubbliche
amministrazioni è ascrivibile alla “ deprecabile tendenza legislativa in atto
che ha affievolito il ruolo dei canoni della legittimità e della legalità
dell’agire amministrativo, sacrificandoli sull’ ‘ altare ‘ di un
malinteso efficientismo “, non sembra poter interpretare tutti i termini del
problema. Ciò, in quanto proprio l’adesione astratta ai
canoni legislativi della legalità e della legittimità costituisce lo
schermo più efficace per giustificare comportamenti discriminatori.
Dal
bossing vero e proprio va, infine, nettamente distinta l’ipotesi che qualche autore prospetta
come di mobbing derivante da malessere organizzativo o da comportamenti
incolpevoli [7]. In tale ultima categoria, si sostiene, non è dato rinvenire
alcuna forma di animus nocendi ovvero di connotazione emulativa negli atti e nei
comportamenti delle amministrazioni pubbliche, in quanto l’effetto per così
dire mobbizzante che incide nella sfera giuridica dei prestatori di opere è
dovuto a disfunzioni organizzative (ad esempio ad un incremento dei carichi di
lavoro che si verifica a causa di un complessivo aggravio del lavoro che ricade
sulla struttura, ovvero alla non confortevolezza dei luoghi di lavoro che
purtuttavia non integri violazione di norme in materia di sicurezza)
oggettivamente non imputabili a responsabilità specifiche delle amministrazioni
stesse. Ciò accade, si osserva “
perché le pubbliche amministrazioni, spesso, non dispongono di strutture
sufficienti per produrre benessere organizzativo “ [8].
2. Lo sviamento del potere direttivo.
Il
d. lgs. n. 165/2001, all’ art. 5, recita che
le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte
dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato
datore di lavoro. Pertanto, i contenuti del potere direttivo non variano
rispetto all’impiego privato. Bisogna ora interrogarsi sulle motivazioni del
mobbing e sulla loro eventuale rilevabilità intrinseca, atteso l’elevato
livello di formalizzazione che connota l’esercizio dei poteri gestionali e
dunque l’adozione dei relativi provvedimenti nelle P.A..
Si
osserva che un significativo argine al possibile uso abnorme dei poteri
datoriali è costituito dalla procedimentalizzazione dei medesimi [9]. Tale
dinamica, nelle pubbliche amministrazioni, rinviene strumenti e tecniche nelle
forme di partecipazione “ negoziata “ all’adozione delle decisioni
amministrative in materia di gestione del personale. In tale sistema, la
funzione di controllo dell’autonomia sindacale in ordine al corretto esercizio
dei poteri organizzativi risulta particolarmente esaltata e consente di
prevenire il perseguimento di obiettivi discriminatori. Resta tuttavia il
problema posto dal mascheramento di tali intenti attraverso il ricorso a
clausole come “ il buon andamento “ che, nella loro onnicomprensività,
potrebbero essere piegate a scopi estranei alla razionale organizzazione degli
uffici e dei servizi. E’ indubbio, peraltro, che il sistema di partecipazione
permette il controllo sindacale alla stregua di parametri qualificati da un
forte tasso di obiettività, come ad esempio la rilevazione dei carichi di
lavoro ( per la verifica, ad es., di una eccessiva imposizione di attività
lavorative ovvero dell’assegnazione di obiettivi improbabili, o ancora di una
disorganica ripartizione di servizi ed attività ), ovvero la verifica della
rispondenza delle mansioni attribuite al personale alle declaratorie
professionali delle rispettive posizioni economiche di appartenenza.
Nell’ambito delle ipotesi di abuso dei poteri imprenditoriali [10] -
generalmente la casistica verte su demansionamento, mancato riconoscimento di
diritti connessi alla qualifica, assegnazione di posti di lavoro scomodi,
controllo fiscale esasperato per l’accertamento della malattia, critiche e
disconoscimento di meriti - normalmente poco indagata è l’ipotesi della
discriminazione economica. Invero detta fattispecie, sostanziandosi
nell’eventualità della mancata attribuzione di trattamenti economici legati
alla produttività individuale/collettiva ovvero allo svolgimento di
attività disagiate, pericolose o dannose per la salute,
presenta sufficienti tratti di autonomia in quanto condotta vessatoria.
All’uopo, non va sottaciuto che anche un’eccessiva discrezionalità nel
riconoscimento dei compensi accessori, strumentale all’attuazione di volute e
non giustificate forme di disparità di trattamento, può costituire un tassello
di un più ampio disegno di sopraffazione e/o emarginazione. L’art. 45 comma 2
d. lgs. 165/01 prevede la c.d. regola di parità, che “ obbliga le
amministrazioni pubbliche solo a condotte trasparenti e non discriminatorie,
attraverso le quali si rispettano i parametri del buon andamento e
dell’efficienza, che devono ispirare l’azione amministrativa, e in ultima
analisi si consente una verifica sulle coerenze organizzative delle scelte
gestionali dell’amministrazione pubblica ad ampio raggio “ [11]. Tale
statuizione, avendo rango legislativo, impone obblighi di trasparenza
particolarmente penetranti, che ricevono emblematica “ attualizzazione “ in
sede di contrattazione collettiva, là dove
l’autonomia sindacale trova spazi negoziali per censurare trattamenti
retributivi diversificati qualora non trovino oggettivo riscontro in
apprezzabili differenze prestazionali o non
discendano da specifici assetti gestionali.
Il
problema del controllo dell’osservanza dei limiti all’esercizio dei poteri
datoriali è gravato, nel rapporto di lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche, da ulteriori aspetti problematici, in quanto i canoni
costituzionalmente definiti nell’art. 97 potrebbero rappresentare (atteso il
carattere “ ulteriore “ e dunque collettivo dei fini dell’agire pubblico)
delle valvole di sicurezza per porre al riparo da censure giudiziarie
comportamenti, provvedimenti e determinazioni gestionali che altrimenti non
resisterebbero ad un vaglio di ragionevolezza. In concreto, la dottrina più
recente [12] ha proposto la rivisitazione del criterio della buona fede
oggettiva, da applicarsi attraverso i criteri della proporzionalità e della
giustificazione. Tali criteri prendono le mosse dalla constatazione che la
relazione scambistica che nasce dal contratto di lavoro è intimamente basata
sull’asimmetria delle posizioni soggettive di partenza. Al fine di temperare
tale disequilibrio, la proporzionalità costituisce un parametro alla stregua del quale verificare il corretto
bilanciamento degli interessi soggettivi di ambo le parti coinvolti dalle
decisioni della P.A., ponderazione che peraltro non può non salvaguardare
l’interesse datoriale, là dove questo risulti in tale giudizio
immotivatamente sacrificato, mentre la giustificazione risulta essere un metro
di verifica della ragionevolezza. In questo senso, il potere di gestione del
personale secondo i criteri del privato datore di lavoro, invalso nell’impiego
pubblico a partire dal d. lgs. n. 29/93, non esime il dirigente ( nella qualità
di datore di lavoro ) dal dover fornire congrua motivazione ai provvedimenti
organizzativi: pertanto, il canone della ragionevolezza costituirebbe ben più
efficace parametro di trasparenza
(e di concreta analisi dell’efficienza, efficacia ed economicità dell’agire
amministrativo) rispetto al generico richiamo al principio del buon andamento ex
art. 97 Cost., divenendone strumento di “ attualizzazione “. Alla stregua di
ciò, l’analisi dei contenuti motivazionali di atti e provvedimenti dovrebbe
consentire una valutazione in termini di ragionevolezza, ovvero di verifica
della funzionalizzazione dell’esercizio delle prerogative datoriali
testimoniata dalla “ congruità della scelta organizzativa adottata rispetto
al fine precostituito dall’ordinamento o, più in generale, rispetto al valore
dell’utilità sociale “ [13].
L
’esame della giurisprudenza in tema di mobbing nelle organizzazioni pubbliche
fornisce sostanziale conferma alle osservazioni sinora svolte. In molte delle
fattispecie sottoposte allo scrutinio dell’autorità giudiziaria è dato
riscontrare un ruolo predominante all’azione di demansionamento e
dequalificazione professionale, che talora assume le sembianze
dell’assegnazione di mansioni anche “ fittizie “ (causa Alba c. Ministero
del Lavoro e delle Politiche sociali, Trib. Siena sez. Lavoro 19 aprile 2003),
ovvero dell’avocazione di mansioni da parte del superiore gerarchico - mobber
priva di qualsiasi fondamento normativo (causa Ministero del Lavoro e delle
politiche sociali c. Claudi, ordinanza Trib Lecce sez. feriale 31 agosto 2001).
In generale, il dato prevalente è quello della legittimità apparente dei
provvedimenti formali adottati, i quali, ancorché congruamente motivati in
relazione alla necessità di garantire un servizio ( v. causa Pes c. CCIAA
Trieste, Trib. Trieste sez. Lavoro, sent. non definitiva 10 dicembre 2003 ), si
rivelano persecutori nella loro concatenazione teleologica. Sovente lo “
sviamento di potere “ di amministrativistica memoria risulta essere comprovato
anche da un impiego abnorme del potere disciplinare, utilizzato per rafforzare
altre condotte vessatorie: in causa Ministero del Lavoro e delle politiche
sociali c. Claudi si registra il caso di un mobber che si arroga il potere di
infliggere sanzioni disciplinari di competenza di organi superiori, mentre in
altra fattispecie (causa Candelo c. INPS, sentenza Trib. Pinerolo, sez. lavoro 6
febbraio 2003) l’arbitrio nell’esercizio della giustizia domestica culmina
con l’affissione nella bacheca aziendale dell’avviso di avvio del
procedimento disciplinare (con evidente violazione, tra l’altro, del diritto
alla riservatezza della dipendente). In generale, la giurisprudenza tende ad
affermare il principio che effetto del bossing ( e fine precipuo di esso, in
ambito pubblico) è – oltre all’incisione del patrimonio professionale - la
lesione del diritto all’immagine del lavoratore all’interno della comunità
di lavoro, ovvero del principale tra i luoghi in cui estrinseca la propria
personalità. Questo accade anche quando l’esercizio dello ius variandi, pur
non implicando variazioni nel trattamento economico del dipendente, comporti una
mortificazione della professionalità acquisita dal lavoratore nella fase
pregressa del rapporto, in quanto oggettivamente venga a ledere la credibilità,
il prestigio e la considerazione goduta dal dipendente all’interno
dell’ambiente di lavoro (v. causa Proia c. Comune di Monte San Biagio,
sentenza Corte di Appello di Roma 16 maggio 2002).
Una
riflessione va svolta, a conclusione del presente paragrafo, anche sulla idoneità
del singolo atto/provvedimento datoriale ad integrare la fattispecie illecita
del bossing.
La
giurisprudenza sembrerebbe contraria [14]
in quanto il connotato persecutorio delle condotte datoriali potrebbe
essere apprezzato solo nell’ambito di una “ visione complessiva che ne metta
in evidenza la ripetitività e conseguente lesività della salute psico-fisica
del lavoratore”. Purtuttavia potrebbe darsi, nella pratica, un atto gestionale
che, da solo ( in ipotesi ) implichi insieme il demansionamento del lavoratore
ed il suo contestuale isolamento dall’ambiente di lavoro ( dove prima era
inserito con normale frequenza di relazioni con colleghi ed utenza ), con
assegnazione ( in una stanza appartata ) all’espletamento di compiti che
debbono normalmente essere svolti senza alcuna interlocuzione con altri
soggetti. L’adozione di un siffatto provvedimento organizzatorio, ed il suo
mantenimento nel tempo (similmente al dispiegarsi degli effetti del reato
permanente) può costituire condotta mobbizzante ? In effetti, almeno sul piano
della ricostruzione giuridica del mobbing (che non è detto debba coincidere in
ogni dettaglio con la nozione forgiata nell’ambito della psicologia del
lavoro, potendo invece, come osserva la migliore dottrina, restare una “
fattispecie aperta “ ) sembrerebbe non del tutto inconferente sostenere la
tesi affermativa. Ciò, in quanto, se è vero che vi è coincidenza solo
parziale della condotta (che, invece, nella
generalità di casi si compone di una pluralità di azioni od omissioni che si
ripetono nel tempo), sussiste, per altro verso,
una piena idoneità offensiva sul
piano degli effetti (che nel tempo perdurano), nonché un esercizio dei poteri
datoriali non ispirato alla corretta gestione delle risorse umane. In
definitiva, se ci poniamo dal punto di vista dello scopo illecito (e dunque
della finalità espulsiva o discriminatoria) non può revocarsi in dubbio che
anche una singola condotta - strutturata in modo da recare un pregiudizio
permanente (alla professionalità,alla dignità od all’immagine del
lavoratore) durante tutto l’arco di tempo in cui ricadono gli effetti della
stessa (si può pensare, fino alla revoca, alla caducazione od alla cessazione
degli effetti dell’atto) - possa, oggettivamente, integrare un’ipotesi di
bossing, particolarmente se assistita da una serie di condotte omissive della
P.A., che tralascia di ripristinare il benessere psico-fisico del lavoratore
trascurando l’adempimento degli obblighi di protezione ex art. 2087 c.c..
3. L’elemento psicologico nella costruzione della fattispecie dell’abuso del potere direttivo a fini di “ bossing”.
Nei
primi approcci giuridici al problema del mobbing, taluno [15] nel reputare
indispensabile un’indagine sul motivo illecito determinante, ovvero sulle
reali ragioni che possono aver determinato un provvedimento
vessatorio/discriminatorio, osserva che la tipizzazione delle condotte mobbizzanti non gioverebbe all’esito della stessa, in quanto dette condotte
possono assumere forme assai diversificate, spesso risultando ammantate di
legalità. Quest’affermazione, condivisibile sul piano generale, incontra un
limite nel caso del bossing, atteso che la generalità delle condotte attraverso
le quali il datore di lavoro pubblico può attuare un progetto vessatorio si
traducono in provvedimenti e determinazioni formali – dunque in atti tipici -
normalmente motivati ( per quanto non sia a priori da escludere la diffusione di
maldicenze, di critiche infondate su abitudini del lavoratore, ovvero più
frequentemente la pratica delle molestie sessuali ad opera dei vertici
burocratici ).
Quanto
alla rilevanza dell’elemento psicologico nella ricostruzione della
fattispecie, vi è chi [16], paventando
un eccessivo allargamento della nozione e delle relative ipotesi risarcitorie,
osserva che solo l’intenzionalità
lesiva può far assurgere a mobbing il complesso delle condotte vessatorie
collegate teleologicamente. L’impostazione testé riferita, tuttavia,
imporrebbe, in ambito pubblico, una sorta di probatio diabolica a carico del
prestatore di opere, stante la sempre apparente correttezza formale dei
provvedimenti. Dunque, è proprio il criterio del legal framework quello che
sembrerebbe garantire una più intensa tutela, atteso che la riconduzione degli
atti perturbanti ( astrattamente leciti oppure illeciti ) nell’alveo di una
cornice giuridica permette la oggettiva emersione della idoneità lesiva degli
stessi, purché – si sostiene – sussistano ripetitività ed unidirezionalità.
Pertanto, una volta qualificato in termini rigorosamente oggettivi il profilo
finalistico delle condotte vessatorie, l’ indagine concernente l’ elemento
psicologico non riveste più carattere di essenzialità ai fini della
ricostruzione del mobbing come fattispecie in ambito giuridico. Alla luce di
tale teoria [17] l’ intenzionalità diviene, pertanto,
una sorta di dato rilevabile sottotraccia, dal concatenamento delle
condotte e dalla loro potenzialità offensiva dei beni personalissimi del
lavoratore; dunque, siffatto atteggiarsi della componente psicologica delinea un
modello di responsabilità che postula un aspetto volitivo ricavabile da una
cornice fattuale ( e dunque estraneo al paradigma della responsabilità
oggettiva ). Non a caso l’indirizzo giurisprudenziale inaugurato da Cass. Sez.
Lavoro n. 143/2000 considera la finalità vessatoria come un elemento della
fattispecie mobbing presupposto dal danno subito dal lavoratore, il cui solo
onere è quello di provarne la derivazione eziologica dalle condotte datoriali;
ciò che rileva, ai fini dell’illiceità, non è dunque l’esistenza di un
dolo specifico, risultando sufficiente un atteggiamento anche meramente colposo
[18]. Gli strumenti di verifica della ragionevolezza dell’agire della P.A.
vanno dunque rinvenuti nel tessuto normativo civilistico che deve governare le
determinazioni del datore di lavoro: dunque, se non pare dubbio che gli atti in
materia di gestione del personale siano espressione di un potere privatistico di
organizzazione, conseguentemente gli stessi non possono che soggiacere alle
regole di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.. Pertanto
solo il controllo della buona fede in executivis, nella misura in cui detto
parametro informa di sé gli atti di gestione del personale, potrà fornire
delle indicazioni sul corretto/irrazionale impiego delle risorse umane.
4. Profili di responsabilità nella condotta del mobber.
I
casi di bossing nelle pubbliche amministrazioni sono, come abbiamo visto,
espressione dell’esercizio arbitrario e disfunzionale del potere organizzativo
da parte di soggetti i quali, a tutti gli effetti, agiscono "per" il
datore di lavoro, vale a dire i dirigenti, e, a seguito della riforma introdotta
dalla legge n. 145/2002, anche i vicedirigenti. Tale ultima categoria può
ritenersi imputabile di bossing, in quanto, in forza dell’ art. 17 bis
d. lgs. 145/2001, essendo potenzialmente destinataria di deleghe di
funzioni dirigenziali, risulta cooptata nell’alveo dei soggetti che possono
agire – al pari dei dirigenti – con i poteri del privato datore di lavoro, a
condizione, naturalmente, che gli atti ed i comportamenti vessatori rientrino
nell’ambito operativo oggetto di delega dirigenziale.
In
dottrina si è già avuto modo di sottolineare che l’art. 2087 c.c.
costituisce uno strumento idoneo ad assicurare adeguata tutela nei casi di
mobbing, in quanto la sua stessa formulazione impone a carico del datore di
lavoro una serie di obblighi di protezione non circoscritti alla sola
salvaguardia dell’integrità fisica, ma estendentisi anche alla personalità
morale del lavoratore [19]. Ciò implica che la mera osservanza della
normativa antinfortunistica potrebbe non essere sufficiente a porre al riparo da
responsabilità il datore di lavoro, in quanto l’ambiente di lavoro è il
luogo dove il prestatore d’opere pone in gioco anche la propria dignità,
l’immagine professionale, la reputazione, l’integrità morale, ed è per
tale motivo che “ nella fase dell’esecuzione del rapporto di lavoro deve
essere rispettata la 'persona' del debitore di opere, sia in senso fisico,
sia nella direzione più ampiamente etica, in modo da evitare che il prestatore
di lavoro, anziché cedere energie e forza – lavoro, sia costretto a ‘
scambiare ‘ ed alienare i propri diritti personalissimi" [20]. La lesione
di tali diritti a mezzo delle determinazioni gestionali genera responsabilità a
carico di chi le ha poste in essere. Sul punto – stante il mancato
riconoscimento nell’ordinamento giuridico italiano della categoria dei “danni punitivi"
di derivazione statunitense – si pone all’attenzione
degli operatori un serio problema in termini di efficace riparazione del danno,
in quanto il giudizio equitativo ex art. 1226 c.c. non è in grado, sovente, di
vagliare e ponderare l’intera gamma degli interessi individuali e collettivi
violati dalle condotte datoriali abusive. Allo stato sussiste dunque il rischio,
evidenziato da una parte della dottrina, che le pratiche discriminatorie
assurgano, in ambito pubblico, al rango di consapevole, articolata e diffusa
strategia di gestione delle risorse umane, in quanto “ il datore potrebbe
comunque trovare convenienza ad esercitare sistematicamente comportamenti
prevaricatori, confidando nel fatto che una eventuale condanna non potrà che
riguardare una parte minima dei suoi atteggiamenti" [21].
A
tale riguardo, occorre tener presente che l’espansione degli episodi di
mobbing nel settore pubblico, ha indotto il Ministero della Funzione Pubblica ad
emanare la direttiva 24 marzo 2004 avente ad oggetto “ Misure finalizzate al
miglioramento del benessere organizzativo nella pubbliche amministrazioni".
Al di là della natura giuridica dell’atto, che ne esclude a priori la cogenza
e l’immediata precettività, la direttiva in questione si pone come un primo
passo verso un radicale cambiamento culturale all’interno delle P.A., ponendo
il clima organizzativo come fattore-cardine di incremento dell’ efficienza
delle stesse. I valori di riferimento divengono quelli dell’attrattiva dei
talenti migliori, dell’accrescimento del senso di appartenenza, del
miglioramento dei rapporti tra dirigenti e personale, del potenziamento delle
motivazioni dei dipendenti, dell’ascolto degli stessi sulle questioni che
incidono sulla qualità della vita e delle relazioni sui luoghi di lavoro.
Le
pubbliche amministrazioni sono dunque incentivate a diventare dei datori di
lavoro esemplari, la cui trasparenza non deve limitarsi ai servizi resi, ai
procedimenti, alle relazioni con l’utenza, ma deve innervare anche le
relazioni interne tra uomini ed uffici e concretizzarsi, tra l’altro, nella
circolazione delle informazioni, nelle relazioni franche e collaborative, nella
gestione positiva delle relazioni conflittuali, nell’adempimento delle
obbligazioni a carattere prevenzionistico, nella promozione e nel mantenimento
di ambienti salubri ed accoglienti, nel riconoscimento e nello sviluppo delle
capacità professionali.
Naturalmente,
il sospetto che dietro tanti enunciati vi sia la trappola di un gattopardesco
“buonismo" si avverte, ed anche in modo forte. Al riguardo, non può
escludersi che le implicazioni erariali conseguenti alla breccia aperta dalla
sentenza resa dal Tribunale di Tempio Pausania il 10 luglio 2003 ( causa Fideli
c. Comune di Loiri Porto San Paolo ) – la prima a condannare una P.A. al
risarcimento di danni da bossing –
possano essere state di stimolo per
l’elaborazione della direttiva. Nel caso in questione,
al consueto strumentario vessatorio (demansionamento, abuso del potere
disciplinare, isolamento della dipendente, rifiuto di fornire chiarimenti alle
sue legittime richieste ), si
aggiungevano la discriminazione economica (attraverso la mancata concessione di
ore di straordinario normalmente riconosciute al restante personale ) ed il
rimprovero della dipendente, contenuto in atti formali, per il suo modo di
essere. In realtà, la sentenza del
giudice sardo ha posto in evidenza un dato sovente sottolineato dalla
letteratura non giuridica in materia di mobbing, ovvero che vittime dello stesso
sono frequentemente dei lavoratori-modello, ligi al dovere, di notevole tempra
morale, con forte senso di appartenenza alla struttura presso cui lavorano. Il
che rimanda al problema del mobbing come questione di civiltà, come spartiacque
tra un esercizio etico dei poteri organizzativi ed una gestione delle risorse
umane attraverso modalità non lecite e lesive della sfera morale dei
lavoratori. Di realmente positivo nella citata direttiva deve, tuttavia,
segnalarsi il richiamo ai comitati di settore “ affinché, negli atti di
indirizzo per la stipula dei contratti collettivi del personale delle aree
dirigenziali, venga richiamato con particolare evidenza lo specifico impegno di
tutti ad assicurare (…) adeguati livelli di benessere organizzativo, e ciò in
diretta correlazione funzionale con gli obiettivi ed i risultati dell’azione
dirigenziale “. In tale previsione potrebbe rinvenirsi la chiave di volta per
il reale mutamento e la decisiva virata in senso etico delle condotte
organizzative dei dirigenti pubblici. Il problema sta proprio nella
ridefinizione dei contenuti dell’obiettivo affidato al dirigente: se tale
risultato si amplia in modo da ricomprendere non la sola efficiente ed economica
organizzazione della struttura ma anche la realizzazione di un buon clima
organizzativo, automaticamente si rimodellano i canoni valutativi in termini di
adempimento/inadempimento dell’obbligazione lavorativa del dirigente.
Quest’ultimo sarebbe tenuto, per contratto, a riparametrare i termini del
proprio agire organizzativo, assumendo su di sé la responsabilità della
realizzazione di un sistema relazionale interno trasparente e non conflittuale,
in cui gli input organizzativi non vengano percepiti dal dipendente come
espressione di un distante potere gerarchico, ma come obiettivi da condividere
anche a fini di promozione e di sviluppo individuale. In tale quadro, il ricorso
al mobbing verticale equivarrebbe ad una dichiarazione di fallimento, risultando
patente la violazione di obblighi contrattuali i stresslmen anche attraverso il
dispendio di energie lavorative a fini di persecuzione, oltre che attraverso la
concreta negazione del diritto del prestatore di opere ad adempiere la propria
prestazione lavorativa [22]. In un’ottica deterrente, si osserva
opportunamente che la prova del dolo specifico nei casi di bossing," salvo
ipotesi di polizze particolarmente sofisticate, escluderebbe la copertura
assicurativa a favore dell’ agente" [23]. In tal caso, il mobber
risponderebbe civilmente senza la concorrente responsabilità della P.A.,
la quale, tra l’altro, in presenza di un fatto-reato di particolare gravità (si pensi al caso del delitto di lesioni) i stressl riconducibile agli atti
perturbanti posti in essere dal dirigente, potrebbe agire nei confronti di
quest’ultimo per il risarcimento del danno all’immagine subito, là dove
riconosciuto dal giudice contabile.
Al
riguardo, tra le poste di un’ipotetica liquidazione di danni potrebbero
ravvisarsi – oltre al risarcimento del danno da demansionamento, del danno
biologico ed alla immagine professionale – anche il lucro cessante dovuto al
forzato inadempimento del prestatore di opere, nonché le perdite in termini di
ore-lavoro per i periodi non lavorati a causa di insorgenze patologiche i
stressl collegate alle condotte del dirigente-mobber [24]. Il quale ultimo,
tra l’altro, potrebbe rispondere i stresslmente anche per inadempimento della
propria obbligazione lavorativa, in relazione al mancato raggiungimento
dell’obiettivo aziendale dovuto al dispendio di ore-lavoro impegnate in
attività mobbizzanti. Se a tali ipotetiche “voci di danno" aggiungiamo
quelle discendenti dall’incremento della conflittualità interna
all’ambiente di lavoro strettamente collegata ad azioni di bossing [25],
dovute al dispendio di energie (per il compimento di attività auto-difensive)
da parte delle vittime di atti discriminatori, non resta che auspicare una
rapida e puntuale recezione nei contratti per le figure dirigenziali delle
pubbliche amministrazioni degli obblighi di cui alla Direttiva della Funzione
Pubblica 24 marzo 2004, allo scopo di responsabilizzare (che implica anche
sensibilizzare rispetto al problema) una categoria ha urgente bisogno di nuove
guide-lines su cui basare il rilancio dell’azione amministrativa pubblica.
5. La P.A. alla prova dei codici di condotta anti – mobbing.
Uno
dei nodi principali su cui si gioca la partita della lotta al mobbing è
costituito dalla elaborazione dei codici di condotta, di recente introdotti
nelle pubbliche amministrazioni, anche in seguito all’emanazione del decreto
legislativo 9 luglio 2003, n. 216, di attuazione della direttiva 2000/78/CE per
la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
Tale normativa, oltre a fornire una puntuale definizione dei concetti di
discriminazione diretta ed indiretta, ricomprende tra le ipotesi di
discriminazione, al comma 3 dell’art. 2, "le molestie ovvero quei
comportamenti indesiderati (…) aventi lo scopo o l’effetto di violare la
dignità di una persona o di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante,
umiliante od offensivo". Gli studi condotti da Harald Ege, psicologo del
lavoro, hanno evidenziato la peculiarità dei nostri ambienti di lavoro,
all’interno dei quali – a differenza delle realtà lavorative di altri Paesi
– esiste una “ condizione zero “, ovvero una situazione di conflittualità
generalizzata (dunque, non mirata) in cui tutti sono contro tutti, si fanno
ripicche, sono spesso protagonisti di discussioni e diverbi d’opinione. Tale
stato costituisce, nel caso italiano, una pre-condizione del mobbing, uno
scenario all’interno del quale il terrorismo psicologico può facilmente
trovare canali di affermazione. Consapevoli di ciò, alcune aziende pubbliche si
sono mosse nel senso di predisporre dei codici di condotta finalizzati a
sottoporre l’esercizio del potere datoriale a forme di controllo interno, in
rapporto sinergico con i controlli rimessi all’autonomia collettiva di cui
s’è detto in precedenza. Tuttavia, il problema ineludibile è il seguente: in
che prospettiva si pone il codice di condotta, ed in che misura risulta idoneo
quale strumento di promozione del benessere ? Un siffatto documento dovrebbe
essere il prodotto di un’attenta elaborazione, una sintesi operativa
scaturente da contributi provenienti da discipline diverse, e soprattutto
dovrebbe dar conto dell’acquisita consapevolezza dell’enorme costo, in
termini economici e sociali, delle pratiche di mobbing, delle disfunzioni che da
esse originano, tra cui il peggioramento del clima lavorativo che si traduce in
peggioramento delle prestazioni lavorative.
In tal senso sembra dare adeguata prova di maturità il Codice
predisposto dall’ AUSL Firenze 10, che funzionalizza il benessere psico-fisico
dei prestatori d’opere ai fini del "raggiungimento degli obiettivi
aziendali", in quanto “ condizione per incrementare le prestazioni
professionali di prezioso valore aggiunto"(art. 1 ). Siamo giunti al punto
cruciale: il benessere viene riconosciuto come fonte di valore aggiunto, come
condizione che favorisce una tensione verso l’affinamento della prestazione
lavorativa, all’interno di un ambiente di lavoro caratterizzato da lealtà e
correttezza di rapporti; il benessere, dunque,
come fattore della produzione. Sotto tale profilo, importante è la tipizzazione
dei comportamenti mobbizzanti – ancorché non esaustiva – contenuta anche
nel recentissimo ( febbraio 2004 ) Codice del Comune di Napoli, tra i quali in
gran parte si rinvengono ipotesi di molestia riconducibili al mobbing verticale.
Più problematica risulta l’individuazione delle responsabilità, in quanto,
all’art. 10 del Codice di condotta adottato dal Comune di Napoli si fa
riferimento all’obbligo dei dirigenti di dare corretta applicazione alle norme
ivi contenute, mentre più incisivamente nel Codice dell’ AUSL 10 Firenze si
costruisce un vero e proprio circuito di responsabilità, attraverso la
procedimentalizzazione delle segnalazioni dei casi di molestia morale ( art. 6 )
. Tale codice si caratterizza per la precisa individuazione degli organi
preposti alla vigilanza sul rispetto delle disposizioni anti-mobbing, nonché
per il recepimento di tale dovere di vigilanza nell’ambito dei contenuti della
prestazione lavorativa dei dirigenti, in quanto il terrorismo psicologico negli
ambienti di lavoro costituisce "una violazione del dovere di comportamenti
conformi alle funzioni che essi sono tenuti a rispettare e a far rispettare".
In
conclusione, soltanto se e nella misura in cui le p.a. si decideranno a fare di
tali codici degli strumenti di lavoro diretti anche a prevenire e reprimere gli
abusi discendenti da un non corretto ovvero emulativo esercizio dei poteri
organizzatori, anziché dei meri “ manifesti “ delle buone intenzioni, si
potrà assistere all’implementazione del benessere psico-fisico dei lavoratori
nel sistema dei fattori produttivi già esistenti. Le amministrazioni pubbliche
debbono tendere a questo risultato, dando alla trasparenza dei rapporti interni
pari valore rispetto a quella che informa i rapporti con i cittadini in base
alla legge sul procedimento amministrativo. Si tratta di una sfida non più
eludibile, in particolar modo se si pensa alle interrelazioni tra codici di
condotta anti-mobbing e previsioni contenute nelle carte dei servizi, nonché
agli impegni che attraverso di esse vengono presi nei confronti delle singole
utenze: pacta sunt i stress ed un buon clima organizzativo può risultare
decisivo in primis per un generale incremento di produttività delle
amministrazioni, ed in secondo luogo per una efficace collocazione sul mercato
di quei servizi che vengono resi in
regime di concorrenza con soggetti privati.
Roberto Pellegrini (avvocato, specialista in diritto amministrativo Università di Napoli Federico II).
Ottobre
2004
Note
[1] V. MUSY, relazione al convegno AGAN Novara 6 dicembre 2000 su "Il mobbing
ed il danno esistenziale: profili comparatistici" in http://www.agatavvocati.it/news/news.asp..
[2] V. CASILLI, Mobbing, un
problema attuale che ha più di cent’anni, in http://www.geocities.com/albecarbo/mobbing.htm
).
[3] Così COSTA, E. e M., Violenza,
i stress, mobbing, danno personale e sociale, relazione al Convegno su
"Mobbing e violenza psicologica sul posto di lavoro", Roma 4 giugno 2003,
Università La Sapienza, in http://dirittolavoro.altervista.org/link3.html
).
[4] Ancora in COSTA, op. cit..
[5] V. AMATO, CASCIANO, LAZZERONI,
LOFFREDO, Il mobbing. Aspetti lavoristici: nozione, responsabilità, tutele,
Milano, 2002, p. 61.
[6] V. ORICCHIO, Il mobbing nel pubblico impiego, in http://www.Giust.it
n. 6/2001.
[7] V. TALAMO, Il mobbing nelle pubbliche amministrazioni, rielaborazione
dell’intervento svolto al Convegno FORMEZ tenutosi a Capri il 17 maggio 2003,
in http://www.unicz.it/lavoroTALAMO_MOBBING.pd.
[8] V. ancora TALAMO, op. cit..
[9] V. AMATO ed altri, op. cit. p. 64.
[10] Si veda, per un’interessante prospettazione categoriale dei comportamenti
finalisticamente orientati al mobbing, NUNIN, Alcune considerazioni in tema di
"mobbing", in ILLe-J, II n. 1, 2000, in
http://www.labourlawjournal.it,
ISSN 1561-8048, che li raggruppa in cinque tipologie: condotte che incidono
sulle possibilità di comunicazione, condotte che azzerano la socialità
nell’ambiente di lavoro, comportamenti lesivi della reputazione, iniziative
lesive della posizione lavorativa e pregiudizievoli per la salute psichica.
[11] V. SANTUCCI, Commento all’art. 49 [ sub § 3 ] d. lgs. n. 29/93, in
CORPACI, RUSCIANO e ZOPPOLI, La riforma dell’organizzazione dei rapporti di
lavoro e del processo nelle amministrazioni pubbliche, in Le nuove leggi civili
commentate, 1999, p. 1348.
[12] V. PERULLI, relazione al
Convegno realizzato dal Centro Studi di Diritto del Lavoro “Domenico
Napoletano “ – Sezione Veneto, Venezia 12 aprile 2002, su “Il potere
direttivo dell’imprenditore" in
http://www.diritto-lavoro.it/csdn/pre-print/....
[13] Così GAROFALO, Mobbing e
tutela del lavoratore tra
fondamento normativo e tecnica risarcitoria, in ILLeJ – VI n.1, in http://www.labourlawjournal.it,
ISSN1561-8048.
[14] V. VERRINA,
Mobbing:
possibilità e prospettive di intervento giudiziario, in http://izan.simplenet.com/napoletano/relazion1.htm
).
[15] V. DI TEODORO, relazione al
Convegno CGIL Teramo su "Mobbing…e dintorni" dell’11 maggio 1999 in http://www.cgilte.it.diteodoro.htm.
[16] V. VISCOMI, Il mobbing: alcune
questioni su fattispecie ed effetti, in Lavoro e Diritto n. 1/2002 pp. 48 ss..
[17] Sostenuta in dottrina da
MONATERI, BONA e OLIVA, La responsabilità civile nel mobbing, Milano, 2002
pag.35 e CACCAMO, La definizione della fattispecie giuridica: gli atti e
comportamenti giuridicamente rilevanti e qualificabili come condotta di mobbing,
relazione al convegno "La tutela giuridica del lavoratore nei casi di mobbing", Milano, 10 ottobre 2002 , in http://www.uidag.org/foggia/.
[18] V. MISCIONE,
I fastidi morali
sul lavoro e il mobbing, in ILLe-J, II n. 2, 2000, in http://www.labourlawjournal.it,
ISSN 1561-8048.
[19] V. NUNIN, op. cit..
[20] Così, icasticamente, CARACUTA, Il "mobbing" e la tutela
giudiziaria,
in Diritto &Diritti, rivista giuridica on line al sito internet http://www.diritto.it/articoli/lavoro/mobbing4.html.
[21] V. FERRANTE,
Mobbing, discriminazioni in ragione di sesso e tutela inibitoria, ne Il lavoro nella giurisprudenza n. 10/2001.
[22] Sul punto, v. SANLORENZO, Il mobbing e il diritto del lavoratore alla prestazione lavorativa, in http://dirittolavoro.altervista.org/saggio_mobbing_sanlorenzo.html, che sottolinea – al di là dell’aspetto patrimoniale legato al sostentamento – la componente di autorealizzazione in quanto persona umana insita nell’adempimento della prestazione lavorativa corrispondente al profilo professionale di appartenenza del lavoratore.
[
23 ] V. MUSY, op. cit..
[24] V. DENARI,
La responsabilità diretta e personale nel danno da
“mobbing”, in Lavoro e Previdenza oggi n. 1/2000 pp. 5 ss..
[25] Sembrerebbe, ancorché implicitamente, suggerire tale deduzione, Cass. Sez.
Lav. 16 giugno 2001, n. 8173, che riconosce la non antigiuridicità della
reazione ingiuriosa del prestatore di opere al comportamento illegittimo del
datore di lavoro, su cui CALAFA’, Tra mobbing e mero conflitto: un’ipotesi
di legittima reazione ad un atteggiamento incivile del datore di lavoro, in RIDL,
2002, II.
**********
Un
particolare ringraziamento rivolgo a Mario MEUCCI, dal cui fondamentale sito http://dirittolavoro.altervista.org/link3.html
ho potuto reperire, nel testo integrale, gran parte delle sentenze e dei
provvedimenti giurisdizionali menzionati nel presente lavoro.
Roberto Pellegrini