Brevi note sul licenziamento nel nuovo contratto a tempo determinato e sulle proposte di deroga all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (*)

R. Crociara - Testina di fanciulla

La richiesta del Governo di ottenere dal Parlamento la delega anche per la temporanea deroga all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori è relativa a tre ipotesi: 1) per le aziende che superano la soglia dei 15 dipendenti; 2) per le aziende che emergono dal «sommerso»; 3) per le aziende che trasformano contratti di lavoro a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato. Solo di quest’ultima però il Governo si è assunto la vera paternità, avendo attribuito la prima a un’idea – poi rientrata – del precedente Governo D’Alema e la seconda alla confederazione sindacale Uil. Intendiamo evidenziare come tale iniziativa potrebbe rappresentare – nell’ambito della complessiva strategia governativa di cui al Libro bianco – un passaggio necessario nel disegno di incentivo dei contratti a termine come alternativa ai contratti a tempo indeterminato (1). Come è noto con il d.lgs. n. 368/2001 il Governo ha ridisegnato la precedente normativa, stravolgendola in molti punti essenziali e giustificando l’intervento con la necessità di dare attuazione alla direttiva comunitaria 28 giugno 1999, n. 70. Questa esplicitamente si prefiggeva due specifici obiettivi: a) quello di migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato, garantendo il rispetto del principio di non discriminazione; b) quello di prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato. In realtà il decreto legislativo si propone diversi (e si potrebbe tranquillamente affermare opposti) risultati, attraverso una riformulazione della materia in termini più sfavorevoli al lavoratore, in pieno contrasto con una clausola della direttiva stessa (cd. di «non regresso») diretta a impedire proprio un peggioramento delle condizioni di tutela (2). Ma per questo motivo l’atto del Governo si pone in contrasto anche con la legge delega (3) con la quale era stato autorizzato dal Parlamento e dare attuazione agli obiettivi e alle finalità della direttiva (4), e non a perseguire – ignorando tali obiettivi – altri fini. Esso può quindi ritenersi incostituzionale sotto due distinti profili: per mancanza di delega e per violazione della delega e degli impegni comunitari (5). Per le stesse ragioni è possibile rivolgersi alla Corte di Giustizia della Ce sollevando, nel corso di un giudizio, l’esigenza di un’interpretazione della direttiva comunitaria in modo da garantire la conformità del diritto interno con quello comunitario (6). Come si diceva il Governo con il d.lgs. n. 368/2001 ha cercato di ulteriormente incentivare la diffusione del contratto a termine con la sua equiparazione, sotto molti aspetti, con quello a tempo indeterminato (7) senza forse considerare tutte le facce della medaglia: è noto, infatti che con tali contratti i datori di lavoro sono esposti a limiti, nella facoltà di recesso, ancor più forti di quelli esistente nei vituperati contratti a tempo indeterminato. Vale infatti ancora il principio generale per cui in caso di regolare contratto a tempo determinato il recesso dal rapporto può avvenire solo per giusta causa. Dunque durante il rapporto a termine il lavoratore è, paradossalmente, più tutelato del dipendente a tempo indeterminato, che può essere licenziato anche per giustificato motivo, non solo soggettivo (inadempimenti, anche notevoli, degli obblighi contrattuali), ma persino oggettivo (ad esempio per contrazione dell’attività lavorativa, soppressione del posto di lavoro, inidoneità sopravvenuta alla mansione). Il datore di lavoro che risolve il rapporto in assenza di giusta causa prima della scadenza è quindi tenuto a risarcire il dipendente corrispondendogli l’equivalente di tutte le retribuzioni fino alla scadenza del termine (8). È forse anche alla luce di questo che va letto il tentativo del Governo di ottenere la delega per prevedere – seppure per un periodo di «soli» quattro anni, peraltro prorogabili – la possibilità di licenziare anche in assenza di giusta causa, previo indennizzo economico, i lavoratori il cui contratto a termine sia stato convertito in contratto a tempo indeterminato (9). Tale disposizione può essere interpretata nel senso che regolamenti solo la trasformazione alla scadenza del termine: in questo caso è comunque gravissimo che si possa prevedere una prosecuzione, per 48 mesi, delle condizioni di «precariato» per lavoratori a tempo indeterminato, i quali si troverebbero in condizione di ingiustificata disparità rispetto ai colleghi che, con identico contratto, lavorino al loro fianco svolgendo le medesime mansioni e godendo dello stesso inquadramento contrattuale. Ma ancor più grave sarebbe se la (eventuale) norma venisse interpretata nel senso di una sua applicabilità anche in caso di trasformazione «forzata» – ad esempio da parte di un Giudice che dovesse accertare l’illegittimità dell’apposizione del termine – oppure in caso di trasformazione del rapporto prima della scadenza del termine (10): infatti in ipotesi di contratto a termine di durata particolarmente lunga (la nuova legge non pone un limite massimo alla durata in caso di contratto unico, cioè senza proroga, se non per i dirigenti, e in caso di proroga il limite è comunque triennale) potrebbe essere per il datore più conveniente pagare l’indennizzo previsto piuttosto che tutte le retribuzioni fino alla scadenza del termine. Ove passasse tale interpretazione, la generosa offerta ai lavoratori precari (a termine) di opportunità di trasformazione del loro rapporto a tempo indeterminato, espressamente giustificata con il pretesto di incentivare la scelta di questo tipo di contratto (11), potrebbe risultare essere solo una polpetta avvelenata, in quanto mirerebbe a togliere ai contratti a termine quelle caratteristiche che non li rendono ancora, per i datori di lavoro, incondizionatamente vantaggiosi, esponendo per (quantomeno) ulteriori quattro anni (e quindi con una proroga di fatto, questa volta legale) i lavoratori «trasformati» a una condizione di ancor maggiore ricattabilità. Riteniamo a questo punto utile svolgere alcune breve considerazioni sullo stato della giurisprudenza – e sua attualità – in materia di contratti a termine, alla luce del nuovo quadro normativo. L’art. 1, comma 1, del decreto legislativo consente oggi l’apposizione di un termine al contratto «a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo». Il decreto legislativo, che ha abrogato tutte le leggi che da quasi quarant’anni prevedevano tassativamente i casi in cui era consentito il contratto a tempo determinato (12), ha scelto una formula volutamente generica per consentire un ampio ricorso al lavoro a termine (13). Pur potendo ipotizzarsi che una simile formula potrebbe ritorcersi anche contro i datori di lavoro – lasciando all’interprete un discreto margine di valutazione sulla sussistenza dei requisiti – lo svantaggio per i dipendenti resta nettissimo, anche per i problemi connessi alla prova della sussistenza delle condizioni, che affronteremo tra poco. Comunque tutta la giurisprudenza che ha fatto derivare, dall’accertata mancanza delle condizioni previste dalla legge, la trasformazione del rapporto in rapporto a tempo indeterminato resta tuttora valida: quindi se comunque le causali, per quanto del tutto generiche (14), non risultino sussistere, la scadenza del termine (illegittimo) equivale, secondo una parte della giurisprudenza, al licenziamento (15), dovendosi considerare il rapporto a tempo indeterminato sin dall’inizio. Nella vigenza della legge n. 230/1962, oggi abrogata, era espressamente attribuito al datore di lavoro l’onere di dimostrare l’esistenza delle condizioni che dovevano giustificare l’apposizione del termine nella lettera di assunzione. Il d.lgs. n. n. 368/2001 oggi prevede l’onere della prova a carico del datore solo per le «ragioni che giustificano l’eventuale proroga del termine stesso». Anche se alcuni tra i primi commentatori hanno sostenuto che non avrebbe senso che il datore non fosse gravato dall’onere di provare anche le ragioni originarie (16), la mancata previsione (anzi, l’esplicita soppressione di essa) da parte della nuova normativa appare preoccupante. Se dovesse passare l’interpretazione più restrittiva per il lavoratore, ci troveremmo di fronte, anche in questo caso, a una violazione – incostituzionale – della clausola «di non regresso» rispetto a un precedente assetto più favorevole. Un problema che ha in passato provocato un ampio dibattito è quello che concerne più contratti a termine succedutisi in violazione di legge (17). Sotto questo profilo si deve segnalare che la direttiva Ce 1999/70, come si è detto, si proponeva espressamente l’obiettivo di prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato. Il nostro ordinamento, dopo le modifiche apportate dalla legge n. 196/98 alla precedente disciplina, prevede che la prosecuzione dell’attività lavorativa oltre il termine legittimamente apposto non comporti una immediata conversione del rapporto a tempo indeterminato, ma solo a partire dal ventesimo o dal trentesimo giorno di continuazione del rapporto, a seconda che il contratto sia di durata rispettivamente inferiore o superiore a sei mesi (18). Nel frattempo è prevista, a carico del datore di lavoro, una maggiorazione della retribuzione, per ogni giorno di prosecuzione del rapporto, fissata nella misura del 20% fino al decimo giorno successivo a quello di scadenza; 40% per ciascun giorno ulteriore a partire dall’undicesimo. Se il lavoratore viene riassunto a termine entro dieci o venti giorni dalla data di scadenza del contratto (a seconda che sia di durata rispettiva-mente inferiore o superiore a sei mesi), il secondo contratto si considera a tempo indeterminato (19), mentre in caso di due assunzioni successive a termine senza soluzione di continuità (praticamente una proroga illecita) il rapporto si considera a tempo indeterminato a partire dal primo contratto (20). Nonostante sia notorio che tali disposizioni vengano utilizzate spessissimo, da parte di datori di lavoro spregiudicati, con fini fraudolenti, lasciando trascorrere il tempo strettamente necessario previsto dalla legge per poi riassumere con contratto a termine l’undicesimo o il ventunesimo giorno, nella foga di riformulare la materia a proprio uso e consumo il Governo non ha colto l’opportunità di prevenire un simile scandalo. Per dare esplicita attuazione al precetto comunitario avrebbe potuto, ad esempio, ripristinare l’originaria formulazione dell’art. 2 della legge n. 230/1962 che sanzionava espressamente l’ipotesi di «assunzioni successive a termine intese a eludere le disposizioni della presente legge» (21). In passato si era consolidata una giurisprudenza secondo la quale in caso di accertamento da parte del giudice dell’illegittimità della successione di più contratti, il rapporto andava considerato unitariamente, come mai interrotto sin dalle prime violazioni, senza necessità che, alle singole scadenze, il lavoratore abbia impugnato i relativi recessi (22). Tale problematica dovrà ritenersi ovviamente superata ove dovesse trovare applicazione l’art. 5, comma 3, del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, secondo cui solo il secondo contratto si considera a tempo indeterminato. Sugli intervalli non lavorati fra i singoli contratti esistevano opinioni contrastanti delle quali è comunque utile fare un breve cenno. Secondo un orientamento, essi dovevano essere comunque retribuiti (23), mentre secondo un altro andavano considerati come sospensioni consensuali del rapporto (24). Per dirimere il contrasto interpretativo erano intervenute le Sezioni Unite della Suprema Corte sancendo il principio che gli intervalli non lavorati tra i singoli contratti a termine non dovevano essere retribuiti (25), ma la Corte era successivamente tornata a ribadire la retribuibilità ove il lavoratore avesse provato di essere rimasto a disposizione del datore di lavoro (26). Si è parlato di proroga illecita, quando in realtà oggi è molto difficile ipotizzare che tale fatto si verifichi, stante l’assoluta genericità delle condizioni che per il decreto legislativo n. 368/2001 dovrebbero legittimare la proroga: a) che sia richiesta da «ragioni oggettive»; b) che si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale è stato stipulato il contratto a termine (27). Siamo molto lontani da quelle «esigenze contingenti e imprevedibili» previste dalla vecchia normativa come ipotesi eccezionale e comunque riferita a circostanze diverse da quelle che avevano legittimato l’originaria apposizione del termine, e che la giurisprudenza di Cassazione aveva interpretato, anche recentissimamente, con estremo rigore pur in presenza del consenso del lavoratore (28). In conclusione la nuova normativa in materia di contratto a termine è pessima, incostituzionale e contraria al diritto comunitario (in particolare proprio ai principi della direttiva che il decreto legislativo pretenderebbe di aver attuato); dal momento, però, che lascia ancora qualche vantaggio al lavoratore già assunto a termine, il governo sta cercando di porvi rimedio. È compito delle forze politiche e sindacali, ma anche di chi studia e applica quel che resta (e resterà) del diritto del lavoro, cercare di contenere, nei limiti del possibile, la sempre più scostumata aggressione alle libertà fondamentali dei più deboli.

Alberto Piccinini

NOTE

(*) Estratto, in parte, dalla dispensa su «L’estinzione del rapporto di lavoro», di prossima pubblicazione, a cura della Cgil Emilia Romagna nell’ambito del Progetto di formazione sulla giurisprudenza del lavoro.
(1)   Questo risulta, nei fatti, essere il proposito del Governo, nonostante esso affermi l’esatto contrario.
(2)   La clausola 8.3. dell’accordo quadro concluso il 18 marzo 1999 fra le organizzazioni intercategoriali europee, che la Direttiva 1999/70 integralmente recepisce, prevede espressamente che «l’applicazione del presente accordo non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell'ambito coperto dall’accordo stesso».
(3)   Il Parlamento con l’art. 1 della legge 29 dicembre 2000, n. 422 ha – incautamente – delegato il Governo a dare attuazione, unitamente a tante altre direttive, anche alla Direttiva sui contratti a termine, sebbene la Corte Costituzionale, con sentenza 7 feb-braio 2000, n.41 avesse dichiarato, con esplicito riferimento a quella direttiva, che «l’ordinamento italiano risulta anticipatamente conformato agli obblighi da essa derivanti».
(4)   Per quanto la legge n. 422/2000 si limiti a delegare il Governo a emanare il decreto legislativo per dare attuazione alla direttiva 1999/70 (oltre ad altre 27 direttive), all’art. 2 lettera f) prevede che «i decreti legislativi assicureranno in ogni caso che (…) la disciplina disposta sia pienamente conforme alle prescrizioni delle direttive medesime…».
(5)    Per un approfondimento della questione v. Peculiarità genetiche e profili modificativi del nuovo decreto legislativo sul lavoro a tempo determinato, di S. Centofanti, in LG n. 10/2001, 913.
(6)   Sviluppa egregiamente l’argomento M. Roccella in Prime osservazioni sullo schema di decreto legislativo sul lavoro a termine. Vedi anche Sullo «schema» di decreto legislativo in materia di lavoro a tempo determinato (nel testo conosciuto al 6 luglio 2001), di V. An-giolini. Entrambi in http://www.cgil.it/giuridico/Politiche.
(7)   Il d.lgs. n. 368/2001 ha abrogato l’art. 1 della legge n. 230/1962, secondo cui «il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato»: anche tale abrogazione è da ritenersi in violazione della clausola «di non regresso».
(8)   Per tutte si vedano, fra le tante, Cass. 22 settembre 1984, n. 4813, e Cass., 19 aprile 1980, n. 2580, in MGC, 1980, fasc. 4.
(9)   L’art. 10 del disegno di legge varato dal Consiglio dei ministri il 15 novembre 2001 collegato alla Finanziaria 2002, prevede, tra l’altro, la deroga all’art. 18 della legge n. 300/70 – prevedendo il risarcimento in alternativa alla reintegrazione – in caso di «stabilizzazione dei rapporti di lavoro sulla base di trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato».
(10)    Si rammenta, ad esempio, che l’art. 3 comma 11 della legge n. 863/84 già incentiva l’anticipata trasformazione dei Cfl in contratto a tempo indeterminato, garantendo i medesimi benefici economici e normativi fino al termine originariamente previ-sto.
(11)   La rubrica dell’art. 10 del disegno di legge per cui il Governo ha chiesto la delega recita: «Delega al Governo in materia di altre misure temporanee e sperimentali a sostegno dell’occupazione regolare, nonché incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato».
(12)   Per ricordare quelle che erano le più importanti condizioni: sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto (ad esempio, maternità, servizio di leva, ecc.); attività tipicamente stagionali; esecuzione di opere e servizi di durata predeterminata; oppure, previa autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro, punte stagionali alle quali non fosse possibile far fronte con il normale organico.
(13)   In realtà anche sotto questo profilo v’è difformità con la direttiva comunitaria, e in particolare con la clausola 3.1. dell’accordo quadro concluso il 18 marzo 1999, secondo cui il termine deve essere «determinato da condizioni oggettive, quali il raggiun-gimento di una certa data, il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico».
(14)   Si rammenta che l’art. 11 del d.lgs. n. 368/2001 ha abrogato la legge n. 230/1962; l’art. 8-bis della legge n. 79/1983; l’art. 23, l. n. 56/1987; «nonché tutte le disposizioni di legge che sono comunque incompatibili» facendo piazza pulita delle ipotesi specifiche in cui era consentita l’apposizione di un termine.
(15)   V’è da dire che comunemente non si parla di «licenziamento» in senso stretto, ma di azione di accertamento di nullità parziale del contratto, comportante comunque la prosecuzione del rapporto.
(16)   Così S. Centofanti, cit., p. 922. Si evidenzia, a supporto di questa tesi, il fatto che anche nel trasferimento è il datore di lavoro che deve provare l’esistenza di «comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive»: ma questo parallelo ci induce a ri-flettere sul fatto che il decreto legislativo riprende proprio la formulazione contenuta nell’art. 2103 cod. civ. tranne, significativamente, per l’aggettivo «comprovate».
(17)   Oggi la materia è disciplinata dall’art. 5 del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368.
(18)   V. art. 5, comma 2, del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, che riprende la legge 24 giugno 1997, n. 196.
(19)   Art. 5, comma 3, del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368.
(20)   Art. 5, comma 4, del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368. Solo su questo punto il decreto legislativo ha modificato la precedente disciplina, sciogliendo i dubbi interpretativi – ovviamente in senso più sfavorevole al lavoratore – sorti con il testo previgente sul concetto di «due assunzioni successive a termine», inserendo la formula «senza alcuna soluzione di continuità».
(21)   Il testo, come detto, era già stato modificato dalla legge n. 196 del 1997. Potrebbe non apparire troppo azzardato affermare che, in forza del principio di «non regresso», l’assetto normativo da ripristinare, in conformità con lo spirito comunitario, avrebbe dovuto essere la normativa precedente la legge del 1997, essendo divenuta quest’ultima, dopo la direttiva 1999/70, non più «conformata» agli obblighi comunitari.
(22)   Cass., 4 marzo 1989, n. 1202, cit.; Cass., 9 dicembre 1980, n. 6372, in MGC, 1980, fasc. 12.
(23)   Cass., 11 febbraio 1989, n. 860, in FI, 1989, I, 1490, in DL, 1989, II, 430, in RGL, 1990, II,108.
(24)   Cass., 5 marzo 1987 n. 2331, in GCM, 1987, fasc. 3; Cass., 12 marzo 1982, n. 1592, in RIDL, 1983, II, 744; Cass., 19 giugno 1981, n. 4043, in OGL, 1982, 346.
(25)   Cass., S.U., 5 marzo 1991, n. 2334, in GI, 1991, I, 1, 888, e in FI, 1991, I, 1100. Nello stesso senso Pret. Milano, 4 novembre 1993, in DPL, 1994, 1553. V. anche Cass., 2 settembre 1995 n. 9278, in GCM, 1995, 1597.
(26)    Cass., 7 febbraio 1996, n. 976, , in MFI, 1996.
(27)    Art. 4, comma 1, del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368 (28) Cass. 15 maggio 2001, n. 6689, in RGLNews, n. 3/2001, 9.
(fonte: www.rassegna.it RGL news n. 6 – 2001)

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