S.
Ruffolo (1916 - 1989) - Amazzone
Negli ultimi anni, si è sviluppato nel nostro Paese il
dibattito intorno al problema del “mobbing” sul posto di lavoro: in questa
sede, cercheremo di comprendere ed approfondire gli elementi costitutivi di
esso, di verificare se nell’ordinamento giuridico attuale esistano degli
strumenti di tutela per tutti i danni prodotti dal mobbing e, infine, di
analizzare le diverse proposte di legge che sono all’approvazione del
Parlamento. Il termine “mobbing” deriva
dal verbo inglese to mob, che tradotto in italiano può assumere vari
significati, quali assalire in massa o in modo tumultuoso, accerchiare,
circondare, assediare; il vocabolo mobbing, inoltre, è molto usato anche nel
mondo animale per descrivere il comportamento d’aggressione del branco nei
confronti di un animale isolato.
Il mobbing nel mondo del lavoro può senz’altro essere
ricondotto a sistematiche e ripetute angherie e pratiche di vessazione poste in
essere dal datore di lavoro o da un superiore gerarchico, oppure da colleghi di
lavoro di pari livello o subalterni nei confronti di un determinato lavoratore
(che potremo chiamare mobbizzato) con l’evidente scopo di emarginarlo, isolarlo
ed indurlo, infine, alle dimissioni. Tale illegittimo ed illegale comportamento
può scaturire da motivi di gelosia, invidia o concorrenza che esplodono, in un
soggetto già di per sé predisposto o dall’animo perverso, nell’ambiente di
lavoro, e a causa o in occasione dello svolgimento dell’attività lavorativa. I principali studiosi di tale fenomeno a
livello europeo ed italiano sono, rispettivamente, Heinz Leymann ed Harald Ege:
quest’ultimo ha, di recente, svolto un’indagine del fenomeno in Italia ed ha
definito il mobbing sul posto di lavoro come “un’azione (o una serie di azioni)
che si ripete per un lungo periodo di tempo, compiuta da uno o più mobber
(datore di lavoro o colleghi) per danneggiare qualcuno di solito in modo
sistematico e con uno scopo preciso. Il mobbizzato viene accerchiato e
aggredito intenzionalmente dai mobber che mettono in atto strategie
comportamentali volte alla sua distruzione psicologica, sociale e
professionale”[1]. Le forme che il
mobbing può assumere sul posto di lavoro nei confronti di un lavoratore sono
diverse e vanno dall’emarginazione alla diffusione di maldicenze, dalle
continue critiche alla persecuzione sistematica, dalla dequalificazione
professionale alle ritorsioni sulle possibilità di carriera, al fine di
metterlo in difficoltà. Scopo del mobbing, è, come già detto, quello d’indurre
la vittima ad abbandonare l’azienda, provocandone il licenziamento o
inducendola alle dimissioni. Il
fenomeno ha assunto proporzioni a tal punto rilevanti, da coinvolgere in ogni
paese europeo percentuali molto alte di lavoratori; in Italia, in particolare,
si stima che il 4% della forza lavoro occupata è soggetta a pratiche di
mobbing: circa 1 milione e mezzo i di lavoratori e lavoratrici italiani,
quindi, sono mobbizzati[2].
Il mobbing, che inizialmente è stato esclusivo o prevalente
campo di indagine della psicologia, medicina e della sociologia del lavoro, è
stato recentemente affrontato, in modo adeguato ed appropriato, anche dal punto
di vista giuridico[3].
Passiamo, ora, ad esaminare gli strumenti giuridici che il
nostro ordinamento prevede per sanzionare civilmente i singoli comportamenti
che vengono complessivamente ricondotti al mobbing. Appare opportuno, in questa sede, tralasciare l’esame dell’art.
2043 c.c., che sancisce il principio del neminem laedere, in virtù del quale la
produzione di un danno ingiusto è fonte di responsabilità extra-contrattuale ed
obbliga il responsabile anche indiretto, e quindi anche il datore di lavoro, al
risarcimento del relativo danno.
Ricorderò, a tal proposito, soltanto la sentenza della Corte Cost. n°
184/86, secondo cui l’art. 2043 c.c. “va necessariamente esteso fino a
comprendere il risarcimento di tutti i danni che, almeno potenzialmente,
ostacolano le attività realizzatrici della persona umana”.
Affronteremo il tema della responsabilità contrattuale del
datore di lavoro, dal punto di vista unicamente della tutela della salute. La norma fondamentale in materia è
costituita dall’art. 2087 c.c. che testualmente statuisce: “L’imprenditore è
tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la
particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare
l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Tale norma pone a carico del datore di
lavoro uno speciale ed autonomo obbligo di protezione della persona del
lavoratore e reca una previsione particolarmente ampia ed elastica, comprensiva
non solo del rispetto delle condizioni e dei limiti imposti dalle leggi e dai
regolamenti per la prevenzione degli infortuni e per l’igiene del lavoro, ma
anche dell’introduzione e manutenzione delle misure idonee, nelle concrete
condizioni aziendali, a prevenire infortuni ed eventuali situazioni di pericolo
per il lavoratore, derivanti da fattori naturali o artificiali di nocività o
penosità presenti nell’ambiente di lavoro[4]. Siffatto obbligo di protezione,
inoltre, non attiene solo al profilo dell’integrità psico-fisica dei
lavoratori, ma anche a quello della personalità morale (da intendersi nel senso
di “sociale”) [5].
Quest’ultimo aspetto, a lungo trascurato dalla dottrina e
dalla giurisprudenza, significa che nella fase dell’esecuzione del rapporto di
lavoro deve essere rispettata la “persona” del debitore di opere, sia in senso
fisico, sia nella direzione più ampiamente etica, in modo da evitare che il
prestatore di lavoro, anziché cedere energie e forza-lavoro, sia costretto a
“scambiare” ed alienare i propri diritti personalissimi[6]. Al momento della conclusione del contratto,
l’obbligo di prevenzione ex art. 2087 c.c. s’inserisce automaticamente nel
contenuto del rapporto di lavoro e l’imprenditore è tenuto, quindi, a svolgere
un’attività generale di prevenzione dei rischi derivanti dall’ambiente di
lavoro. Mentre nella generalità dei
contratti, tale obbligo deriva dal rispetto del principio della buona fede ex
art. 1375 c.c. che entrambe le parti sono tenute ad osservare nella fase
dell’esecuzione delle proprie obbligazioni, nel rapporto di lavoro vi è la
necessità di tutelare il lavoratore dagli specifici rischi derivanti
dall’ambiente di lavoro, mediante il ricorso ai normali obblighi di protezione
che, per il principio di correttezza ex art. 1175 c.c., integrano i reciproci
obblighi derivanti dal rapporto di lavoro (prestazione di lavoro, da una parte,
e retribuzione dall’altra). A ciò si aggiunge un autonomo ulteriore obbligo,
anch’esso primario, di protezione del fondamentale interesse del prestatore
alla salute, riconosciuta dall’art. 32 della Costituzione come bene di
interesse collettivo e, nello stesso tempo, come diritto assoluto della
persona[7].
Non va dimenticato, infine, e a proposito della tutela
costituzionale della salute, l’art. 41, 2° co., Cost., secondo cui l’iniziativa
economica privata “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in
modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. V’è da dire, comunque, che la surrichiamata
norma dell’art. 2087 è stata scarsamente utilizzata nella sua tipica funzione
di prevenzione, ed è stata, invece, invocata ex post in funzione risarcitoria
di eventi dannosi già verificatisi[8].
Del resto, tale funzione di tutela preventiva ex art. 2087
c.c. non ha trovato sempre concorde la giurisprudenza di legittimità, la quale,
al contrario, con una sentenza del 1982[9] ha espressamente statuito che “il
diritto di cui all’art. 2087 c.c. non poteva essere tutelato in via preventiva,
ma solo nel caso se ne fosse realizzata la violazione”. Ma già nell’anno successivo, si registra una
decisa inversione di tendenza della Suprema Corte che riconduce la
responsabilità imprenditoriale ex art. 2087 c.c. nell’ambito della
responsabilità contrattuale, in tal modo configurando per il lavoratore un
diritto soggettivo e per il datore un obbligo di sicurezza che trova il suo
fondamento giuridico nel rapporto di lavoro[10], cosicchè la sicurezza diventa
un’obbligazione accessoria rispetto a quella principale[11].
Nel momento in cui la tutela ex art. 2087 c.c. rientra nella
responsabilità contrattuale, e non più in quella extra-contrattuale ex art.
2043 c.c., dovrà applicarsi l’art. 1218 c.c. che stabilisce: “il debitore che
non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del
danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da
impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”. Per
la giurisprudenza, a questo punto, il passaggio dalla responsabilità
contrattuale al riconoscimento di una tutela preventiva era quasi automatico.
Ed infatti, nel 1985 la giurisprudenza afferma che “il lavoratore, che è
oggetto concreto della tutela assicurativa ha, stante la funzione anche
preventiva degli obblighi ex art. 2087 c.c., un vero e proprio diritto
soggettivo al relativo adempimento, assieme agli altri diritti
contrattuali”[12]: tale orientamento viene, poi, confermato dalle Sezioni Unite
della Cassazione[13].
Può senz’altro affermarsi che nel rapporto di lavoro, il
generale principio del neminem laedere ex art. 2043 c.c. si concretizzi in
un’autonoma obbligazione contrattuale e confermi, così, l’esistenza di un
periculum reale comunque presente all’interno del rapporto di lavoro
medesimo[14].
Nell’ipotesi in cui il datore di lavoro sia ritenuto
responsabile ex art. 2087 c.c. di
comportamenti riconducibili al mobbing, egli sarà tenuto a risarcire tutti i
danni provocati da tale illegittimo comportamento. In tali circostanze viene, innanzitutto, riconosciuto
pacificamente il danno patrimoniale, ovvero il danno alla capacità produttiva
di reddito sia nel senso del danno emergente sia nel senso del lucro cessante;
viene, altresì, riconosciuto il danno morale ed alla vita di relazione in tutti
i casi integranti reato, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 2059 c.c. e 185 c.p. e viene, infine,
riconosciuto il danno biologico. La
categoria del danno biologico è stata creata nel nostro Paese dal diritto
“vivente”, che ha dovuto superare le enormi difficoltà interpretative
conseguenti alla nozione di danno non patrimoniale collegate al principio di
tipicità ex art. 2059 c.c., pur a fronte di una clausola generale come quella
contenuta nell’art. 2043 c.c.[15]. Le
due norme appena richiamate, se interpretate in senso restrittivo, avrebbero di
fatto escluso la possibilità di risarcire il danno alla salute o danno
biologico, cosicchè solo un intervento della Corte Costituzionale sarebbe stato
in grado di rimuovere l’ostacolo ermeneutico del combinato disposto delle due
norme.
Con una prima sentenza[16] la Corte Costituzionale riconobbe
nella tutela prevista dall’art. 32 Cost. “un diritto primario ed assoluto,
pienamente operante anche nei rapporti tra i privati” e con una seconda[17]
stabilì il principio in base al quale era conforme alla Costituzione
l’interpretazione, secondo diritto vivente (in proposito vanno ricordate
soprattutto la sentenza del Tribunale di Genova[18] e quella della Corte di
Cassazione n° 3675/’81[19]) che considerava non limitata dall’art. 2059 c.c.la risarcibilità del danno non
patrimoniale, anche se tale risarcibilità non è stata esplicitamente prevista
dalla legge, nell’ipotesi in cui essa è conseguenza della lesione di un diritto
costituzionalmente garantito come quello alla salute ex art. 32 Cost..
Successivamente, la Corte Costituzionale ha definitivamente
consolidato tale principio, con tre sentenze tutte adottate nel 1991[20].
Non v’è dubbio, comunque, che l’azione risarcitoria,
finalizzata alla riparazione del danno biologico, trae la sua origine causale
nell’accertata esistenza di “un illecito civile dell’imprenditore”, riconducibile,
in particolare, alla specie dell’inadempimento[21].
Per tale ragione, il danno biologico si cala all’interno di
una relazione contrattuale: deriva, da tanto, che non è importante più la
rivisitazione dell’art. 2043 c.c., reinterpretato alla luce dell’art. 32 Cost.,
bensì la rilettura dell’art. 2087 c..c., ed in particolare del dovere di
sicurezza, rafforzato dalla concorrente garanzia costituzionale.
La norma di riferimento, quindi, non sarà più l’art. 2043 c.
c., ma l’art. 1218 c.c., in stretta connessione con l’art. 1223 c.c., sul
risarcimento del danno.
Quest’ultima norma, del resto, come anche l’art. 1226 c.c.
(valutazione equitativa del danno) è comune alla due aree di responsabilità,
contrattuale ed extra-contrattuale.
In conclusione sul punto, non può affermarsi, come invece ha
fatto la Corte di Cassazione[22], un concorso tra le due responsabilità: nel
rapporto individuale di lavoro, infatti, la rilevanza del danno biologico trova
il suo fondamento giuridico nel combinato disposto di cui agli artt. 2087 c.c. e 32 Cost. e, quindi, la relativa
azione risarcitoria si fonda sul presupposto che il datore di lavoro abbia
violato il dovere di protezione e versi, così, in una situazione di
inadempimento contrattuale[23].
La conseguenza non è di poco conto, ove si pensi che chi
richiede il risarcimento del danno ingiusto secondo le regole della
responsabilità aquiliana deve provare rigorosamente la condotta che ha
determinato il danno, il nesso causale ed anche la colpevolezza o il dolo di
chi è ritenuto responsabile. Al contrario, quando la domanda di risarcimento è
fondata sulla responsabilità contrattuale, è sufficiente che l’attore provi
l’inadempimento, mentre l’art. 1218 c.c. stabilisce il principio della
presunzione di colpa, che impone al debitore di provare la non imputabilità
dell’inadempimento, vale a dire che l’inadempimento “è stato determinato da
impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.
In tal caso, il lavoratore dovrà provare sia il danno
subìto, sia il rapporto di causalità fra la mancata adozione di determinate
misure di sicurezza (specifiche o generiche) e il danno predetto[24]. La giurisprudenza di legittimità ha,
comunque, escluso che si versi in un’ipotesi di responsabilità oggettiva,
potendo il datore di lavoro fornire la prova di avere adottato tutte le cautele
richieste dall’ordinaria diligenza, cosicchè l’infortunio che pure avrebbe
potuto essere vitato comunque si verifichi il pregiudizio non è addebitabile
all’imprenditore incolpevole[25].
Ed ancora, in una recente sentenza, la Corte di Cassazione
ha sostenuto che la norma di cui all’art. 2087 c.c. configura un diritto
soggettivo del lavoratore, sia alla predisposizione, da parte del datore di
lavoro, delle misure di sicurezza, sia al risarcimento dei danni causati dalla
mancata adozione di tali misure[26].
Nell’ambito del rapporto di lavoro, diversi e specifici
comportamenti da parte del datore di lavoro che, complessivamente intesi, sono
riconducibili al mobbing sono stati decisi dal legislatore o dalla
giurisprudenza, e trovano, quindi, come già detto, una disciplina loro
applicabile all’interno dell’ordinamento giuridico. Si vuol dire, cioè, che le possibili forme in cui può
manifestarsi il mobbing non costituiscono delle novità assolute, poiché esse
singolarmente considerate trovano già nel nostro ordinamento una disciplina
finalizzata a scoraggiarle e ad offrire adeguata tutela al lavoratore. E così,
se le azioni di mobbing colpiscono un lavoratore per discriminazione politica,
sindacale, religiosa, di lingua e di sesso, diverse norme dell’ordinamento
internazionale o comunitario[27] o interno (artt. 3, 37, 39 della Costituzione,
art. 15 Stat. Lav., L. n° 903/77, L. n° 125/91, art. 5 L. n° 135/90) possono
essere utilizzate, anche a fini risarcitori.
Lo stesso avverrà in caso di violazione dell’art. 2103 c.c. per
assegnazione a mansioni dequalificanti, ovvero per violazione dell’art. 1434 c.c. per la richiesta di annullamento
di dimissioni derivanti da vizio di consenso per violenza[28].
a) Demansionamento
o dequalificazione professionale.
Molto spesso, le pratiche di mobbing colpiscono la
professionalità del lavoratore, provocando un demansionamento dello
stesso. Il relativo danno da
demansionamento[29] ha, in verità una struttura complessa[30], in cui
l’elemento principale è il danno alla professionalità[31], a cui deve
aggiungersi il danno alla personalità[32], il danno alla vita di relazione, il
danno biologico alla salute e, in alcuni casi, anche quello morale[33].
In tale contesto, la tutela risarcitoria appare inadeguata,
in particolare per quei diritti della persona-lavoratore personalissimi, che
non hanno un contenuto patrimoniale, e tuttavia, di fronte all’incoercibilità
degli obblighi di non fare (divieto di assegnazione a mansioni inferiori), può
rivelarsi realisticamente utile per realizzare un minimo di effettività della
tutela giurisdizionale[34].
Il problema più dibattuto in giurisprudenza attiene alla
natura (contrattuale o aquiliana) della responsabilità conseguente alla
dequalificazione: sul punto, la giurisprudenza non affronta in modo deciso la
questione e, in alcuni casi, configura un’ipotesi di concorso tra le due
responsabilità[35].
Per quanto già detto in precedenza, appare più coerente con
le peculiarità del rapporto di lavoro ricondurre la responsabilità per tutti i
danni provocati dal datore di lavoro all’interno del contratto[36], e tanto sia
che il danno attenga alla lesione della professionalità del lavoratore, sia che
riguardi la sua personalità.
Nel primo caso (danno alla professionalità) il danno deriva
dalla violazione dell’art. 2103 c.c., nel secondo (danno alla personalità)
dalla violazione dell’art. 2087 c.c.[37].
b) Dimissioni
del lavoratore e sua tutela
Così come affermato dagli studiosi del mobbing, uno degli
effetti tipici cui mirano le condotte persecutorie e vessatorie è rappresentato
dalle dimissioni del lavoratore.
Può accadere, innanzitutto, che il lavoratore, al momento
delle dimissioni, adduca l’esistenza di una giusta causa, in conseguenza e per
effetto appunto dei comportamenti vessatori: in tal caso, egli chiederà il
pagamento dell’indennità di preavviso e il risarcimento del danno subìto[38].
Completamente diverso è, invece, il caso in cui il
lavoratore si dimetta senza alcuna reale autonomia con i comportamenti
persecutori: il lavoratore, in tale
ipotesi, si trova in uno stato temporaneo di incapacità, a causa appunto delle
vessazioni, e, quindi, non adduce una giusta causa di dimissioni. Egli potrà, comunque,
ottenere l’annullamento delle dimissioni ex art. 428 c.c. se riuscirà a provare
che sono state rassegnate in un momento, anche temporaneo, di totale incapacità
di intendere e di volere[39], ovvero se sono state rese sotto violenza ex art.
1434 c.c., anche sotto la forma della minaccia illegittima di far valere un
diritto (quale ad esempio il licenziamento) per ottenere un vantaggio ingiusto
ex art. 1438 c.c.[40].
Vale la pena sottolineare che la giurisprudenza di
legittimità, richiamando altre specifiche pronunce ha ritenuto inapplicabili
alle dimissioni la disciplina di cui
all’art. 2113 c.c., ritenendo le dimissioni medesime un diritto
disponibile[41].
c) Abuso di
potere, comportamenti persecutori o discriminatori
In tempi recenti, la giurisprudenza ha sanzionato in maniera
specifica comportamenti persecutori del datore di lavoro, che non rientrano tra
quelli tipici maggiormente conosciuti.
In particolare la Corte di Cassazione ha ritenuto
comportamento illegittimo persecutorio del datore la ripetuta richiesta da
parte di quest’ultimo di visite mediche di controllo[42].
Tale sentenza conferma, sul punto, quanto affermato,
innanzitutto, dal Pretore di Lecce – Dr. F. Buffa – che a tal proposito aveva
parlato di “vero e proprio stillicidio di visite medico-fiscali di
controllo[43]. Il Pretore di Lecce, quindi, accertato sia il profilo causale
(in quanto l’INPS procede alle visite di controllo solo su impulso del datore
di lavoro), sia sotto quello soggettivo (in quanto la società datrice di lavoro
era consapevole delle condizioni di salute della lavoratrice), ha ravvisato
nella condotta del datore di lavoro un abuso di potere, in violazione dei
principi di correttezza ex art. 1175 c.c. e della tutela della salute ex art.
2087 c.c. Conseguentemente il Pretore, sul presupposto che gli obblighi di
correttezza integrano il contenuto del contratto e che il relativo
inadempimento (di natura dolosa) comporta la responsabilità del datore di
lavoro, ha ritenuto il datore medesimo responsabile di tutte le conseguenze
dannose, pur non volute o soggettivamente imprevedibili, derivanti
dall’inadempimento ex art. 1225 c.c.. Il Pretore, infine, ha riconosciuto il
diritto della lavoratrice al risarcimento del solo danno biologico, escludendo,
nel contempo, il danno emergente ed il lucro cessante, poiché non adeguatamente
provati, ed il danno morale, poiché la fattispecie in esame non integrava
estremi di reato.
La sentenza del Tribunale di Torino del 16 novembre 1999[44]
è la prima la sentenza ad affrontare, in modo approfondito, un caso di mobbing,
formalizzando, così, l’ingresso del mobbing nella giurisprudenza
giuslavoristica italiana.
Nel caso di specie, una lavoratrice era stata assunta con un
contratto a termine e per mesi era stata costretta a lavorare ad una macchina
collocata in una posizione opprimente (chiusa tra altre macchine ed i cassoni
di lavorazione così da impedire ogni possibile contatto con i colleghi durante
l’orario di lavoro) ed era stata fatta oggetto, altresì, da parte di un
superiore di ripetuti maltrattamenti e molestie, anche di carattere sessuale.
Il Giudice ha accertato che la lavoratrice non aveva mai
avuto in precedenza stati depressivi, neanche nei pregressi rapporti di lavoro,
e che, durante il rapporto di lavoro in questione, era stata investita da
“un’autentica catastrofe emotiva” e, nel contempo, colpita da una sindrome
ansioso depressiva reattiva[45] che l’aveva, infine, costretta alle dimissioni.
Per tale ragione, il Giudice non ha ritenuto prospettabile,
in riferimento ai commi 2 e 3 dell’art. 41 c.p., un’ipotesi di esclusione del
nesso di causalità, per la preesistenza di causa efficiente autonoma, capace di
generare da sola l’evento lesivo[46].
In ogni caso, ha affermato il Giudice, occorre fare espresso
riferimento all’art. 32 della Costituzione ed all’art. 2087 c.c., i quali
“tutelano tutti i cittadini indistintamente, siano essi forti e capaci di
resistere alle prevaricazioni siano viceversa più deboli e quindi destinati
anzitempo a soccombere”.
A tal proposito, il Tribunale di Torino ha confermato quanto
già affermato sul punto da altra giurisprudenza di merito[47], secondo cui il
datore di lavoro non può essere esonerato dalla responsabilità per il danno
biologico e morale sofferto da una lavoratrice molestata, in ragione
dell’esistenza di una concausa del danno, rappresentata dalla particolare
fragilità personale della donna.
In tali ipotesi, pertanto, non potrà applicarsi l’art. 1225
c.c., che limita la responsabilità contrattuale al solo danno prevedibile,
poichè l’inadempimento del datore di lavoro è accompagnato da dolo, ovvero da
una condotta intenzionalmente lesiva della personalità del lavoratore. Può, quindi, affermarsi che in tutti i casi
di mobbing che siano imputabili ad una condotta, commissiva o omissiva, del
datore di lavoro a quest’ultimo sarà opposta l’inoperatività della
surrichiamata norma dell’art. 1225 c.c.[48].
Sul punto, comunque, non appare chiaro l’orientamento del
Giudice, il quale ha ritenuto infondata la questione sollevata dalla società
convenuta, e concernente la mancata segnalazione dei fatti di causa al datore
di lavoro, dal momento che l’istruttoria aveva provato che, al contrario, la
società medesima era stata opportunamente e ripetutamente informata della
vicenda, vale a dire della ristrettezza dello spazio Il Tribunale di Torino,
nella prima parte della succitata sentenza, ha affrontato, in modo specifico e
puntuale, il mobbing in azienda, ricorrendo al comma 2° dell’art. 115 c.p.c., che
integra la fattispecie del “fatto notorio”.
Nel caso di specie, quindi, pur nel silenzio della
lavoratrice ricorrente che non ha ricondotto il caso concreto al mobbing, il
Giudice, utilizzando i poteri istruttori che la legge gli riconosce, ha fatto ricorso
ad un dato di comune esperienza, rispetto al quale l’art. 115, 2° comma,
enuncia che può essere posto a fondamento della decisione senza bisogno di
prova[49].
Naturalmente, si deve trattare non già di fatti
accidentalmente conosciuti dal giudice, ma di fatti che il giudice conosce
perché sono noti alla generalità delle persone alla quale appartiene anche il
giudice, in quel determinato ambiente e momento[50], come nozioni comuni e
generali[51], e sempre in quanto siano stati allegati[52].
Con riferimento a quest’ultima ipotesi, la dottrina ha
elaborato, come esplicazione del principio della domanda, quello
dell’allegazione, in virtù del quale l’attore ed il convenuto devono allegare
rispettivamente i fatti costitutivi, ed i fatti impeditivi, modificativi ed
estintivi del diritto dedotto in giudizio[53].
Nel caso di specie, pertanto, il Giudice intanto ha potuto
far ricorso al “fatto notorio” e, quindi, al mobbing, in quanto la lavoratrice
aveva allegato nell’atto introduttivo del giudizio i fatti costitutivi del
mobbing medesimo.
E così, il Tribunale ha fatto riferimento al “fenomeno ormai
internazionalmente noto come mobbing”, riconducendolo all’interno degli studi
effettuati in campo medico, psicologico e sociologico sul sistema gerarchico
esistente in fabbrica o negli uffici che hanno denotato gravi e reiterate
distorsioni in grado di incidere pesantemente sulla salute individuale[54].
La sentenza considera necessarie, al fine di poter
individuare la fattispecie del mobbing, la ripetitività della condotta e la
finalità che essa persegue, e cioè l’isolamento o l’espulsione del
lavoratore[55]. Ed ancora, la sentenza
in esame ha fatto riferimento esclusivamente ai comportamenti vessatori e
persecutori tenuti da superiori o da preposti nei confronti dei rispettivi
sottoposti e riconosce, conseguentemente, la responsabilità del datore di
lavoro ex art. 2087 c.c. per non aver saputo garantire e tutelare l’integrità
psico-fisica dei propri dipendenti[56].
A tal proposito, va detto che il mobbing può essere attuato sia dal
datore di lavoro (o dai superiori gerarchici, spesso quali longa manus del
datore medesimo), sia dai colleghi di lavoro: nel primo caso, si parlerà di
mobbing verticale, nel secondo di mobbing orizzontale[57]. Può accadere, anzi accade molto spesso, che
le due figure si intreccino, quale frutto di una comune strategia persecutoria,
in cui il datore di lavoro è il soggetto ispiratore, mentre i colleghi sono i
soggetti esecutori.
Sotto l’aspetto probatorio, la sentenza ha confermato quanto
innanzi detto, in ordine alla necessità, per la lavoratrice, di provare
unicamente la sussistenza del nesso di causalità tra la patologia insorta
improvvisamente e l’ambiente di lavoro.
Quanto al risarcimento del danno, il Tribunale, preso atto
che non era residuata in capo alla lavoratrice alcuna invalidità permanente, ha
riconosciuto il danno biologico medio tempore procurato alla stessa e lo ha
liquidato in via equitativa.
Alcune, ulteriori considerazioni, vanno fatte in ordine alla
responsabilità diretta di chi pone in essere atti di violenza e persecuzione
psicologica (cd. mobber).
Ebbene, non v’è alcun dubbio che l’autore, o gli autori, del
mobbing rispondono personalmente e direttamente ex art. 2043 per il danno
biologico procurato al lavoratore[58], così come risponderà, per quanto detto
in precedenza, il datore di lavoro ex artt. 2049 e 2087 c.c.. Ma gli autori del mobbing risponderanno
anche del procurato danno professionale, nei casi in cui il danno è riferibile
a reiterati comportamenti personali, colposi o dolosi: in tale ipotesi, il
datore di lavoro è, in ogni caso, responsabile ex art. 2103, 2087 e 1375
c.c.[59].
Attualmente sono stati presentati 5 progetti di legge in
Parlamento, di cui 2 disegni di legge al Senato della Repubblica (n° 4265 dei
senatori Tapparo e altri comunicato alla Presidenza il 13 ottobre 1999 e n°
4313 del senatore De Luca comunicato alla Presidenza il 12 novembre 1999) e 3
progetti di legge alla Camera dei Deputati (n° 6410 dell’On.le Benvenuto ed
altri presentata il 30 settembre 1999, n° 6667 dell’On.le Fiori presentata il 5
gennaio 2000 e n° 1813 dell’On.le Cicu presentata il 9 luglio 1996).
Prenderemo in esame, in questa sede, il disegno di legge n°
4265 e la proposta di legge n° 6410 per evidenziarne sia le affinità, sia le
divergenze.
Bisogna, innanzitutto, dire che entrambi si caratterizzano
per la funzione preventiva che intendono svolgere, finalizzata ad informare e
sensibilizzare tutti i soggetti interessati alla gravità del fenomeno del
mobbing.
Comuni sono, anche, le motivazioni che sorreggono la
necessità di un puntuale e complessivo intervento in materia: oltre ad evidenti
ragioni etiche e di giustizia sociale, sono tenute in considerazione le
conseguenze del mobbing anche dal punto di vista economico, sia interno alle
azienda, sia riferito ai costi sociali e sanitari. In particolare, il disegno di legge n° 4265, nella relazione
introduttiva, afferma testualmente: “Le forme depressive dovute al mobbing
recano un danno socio-economico rilevante e, quindi, intervenire su questo
problema non è solo necessario per ragioni etiche, di giustizia e di
correttezza nei rapporti umani e per la tutela dei valori della convivenza
civile, ma anche di opportunità economica, sia per il buon funzionamento delle
aziende, sia per minimizzare i costi sociali e sanitari, sia anche per
accrescere la coesione sociale”.
Il Progetto di legge n° 6410, sempre nella relazione,
testualmente dispone: “La proposta mira a suscitare l’avvio di un dibattito su
problematiche di grande importanza che incidono pesantemente sulla dignità e
sull’integrità psico-fisica dei soggetti che ne sono coinvolti. Non devono
inoltre essere trascurate le conseguenze più generali che il fenomeno
determina, sia in termini di diseconomie interne al luogo di lavoro, che in
termini di costi per la cura dei danni provocati da atti e comportamenti
vessatori”.
Una differenza di particolare importanza, invece, la si può
immediatamente riscontrare nei soggetti che possono commettere condotte
riconducibili al mobbing: il primo ricomprende tra tali soggetti i superiori, i
pari-grado, gli inferiori e i datori di lavoro (art. 2, co. 2), mentre il secondo esclude i lavoratori
inferiori (art. 1, co. 2). In quest’ultimo caso, quindi, la nozione di mobbing
è più restrittiva rispetto a quella contenuta nel D.d.l. Senato e contrasta,
altresì, con quanto affermato sul punto dalla psicologia del lavoro. Il D.d.l. Senato, all’art.6, stabilisce che
“le variazioni nelle qualifiche, nelle mansioni, negli incarichi, nei
trasferimenti o le dimissioni, determinate da azioni di violenza morale e
persecuzione psicologica, sono impugnabili ai sensi e per gli effetti di cui
all’art. 2113 del codice civile, salvo risarcimento
dei danni ai sensi dell’art. 5”; il
progetto di legge Camera, all’art. 2, sancisce l’annullabilità a richiesta del
lavoratore degli atti discriminatori “concernenti le variazioni delle
qualifiche, delle mansioni, degli incarichi, ovvero i trasferimenti,
riconducibili alla violenza e alla persecuzione psicologica”. Emerge con
estrema evidenza la differenza tra queste due norme, nella parte in cui la
prima stabilisce l’annullabilità, tra gli altri, delle dimissioni rese dal
lavoratore sottoposto a mobbing, nonché la riconducibilità della conseguente
impugnazione nell’alveo dell’art. 2113
c.c. sulle rinunzie e transazioni.
L’importanza del richiamo di questa norma risiede nel fatto
che essa consente al lavoratore di poter impugnare, anche stragiudizialmente e
a pena di decadenza, l’atto annullabile nel termine di sei mesi, che decorrono
dalla cessazione del rapporto di lavoro ovvero dalla data dell’atto, se
successivo.
Un altro aspetto di indubbio interesse è rappresentato dalla
responsabilità disciplinare, che configura una sorta di integrazione necessaria
del codice disciplinare per volontà legislativa, cosicchè l’eventuale omissione
produrrebbe una responsabilità contrattuale.
È importante che entrambe le proposte di legge individuino con chiarezza
quale Giudice competente nei giudizi promossi dal lavoratore soggetto a mobbing
la Magistratura del Lavoro.
A tal proposito, infatti, anche se la giurisprudenza
prevalente classifica come “cause di lavoro”, con tutte le conseguenze sul rito
e sulla competenza, anche quelle in cui viene prospettata la responsabilità
personale di colleghi[60], altri Giudici hanno, invece, fatto riferimento alla
causa petendi per stabilire la competenza: pertanto, se questa è costituita
dalla responsabilità extracontrattuale, si applicheranno le ordinarie norme
sulla competenza[61].
Sulla questione, comunque, vale la pena di ricordare una
recentissima sentenza del Giudice di legittimità[62] che ha sancito la
competenza del Giudice del Lavoro.
Cultore di Diritto del Lavoro presso la Facoltà di
Giurisprudenza dell’Università di Lecce.
(Relazione al convegno nazionale organizzato dalla UIL C.A.
nazionale e dalla UIL C.A. di Lecce, con il patrocinio della Provincia di Lecce
e dell’Università degli Studi di Lecce, su: “Mobbing - Un fenomeno da
debellare”, svoltosi in Galatina (LE) il 16.6.2000)
(fonte: www.diritto.it/articoli/lavoro/mobbing4.html)
NOTE
[1] H. EGE, Che cos’è il terrore psicologico sul posto di
lavoro, Pitagora Editrice, Bologna, 1996; Il mobbing in Italia – Introduzione
al mobbing culturale, Pitagora Editrice, Bologna, 1997; Il mobbing estremo,
Pitagora Editrice, Bologna, 1997; I numeri del mobbing – La prima ricerca
italiana, Pitagora Editrice, Bologna, 1998.
[2] H. EGE, I numeri del mobbing – La prima ricerca italiana, cit.
[3] A. CACCAMO e M.
MOBIGLIA, Inserto n° 18 del 29 aprile 2000, Diritto & Pratica del Lavoro,
p. III.
[4] Cfr. Cass. 2 giugno 1998, n° 5409, Cass. 9 maggio 1998, n° 4721 e Cass. 7 agosto 1998, n° 7772. Questa sua portata di carattere generale ha fatto parlare anche di norma di chiusura del sistema antinfortunistico: v ad es. Cass. 3 settembre 1997, n° 8422 e Cass. 20 aprile 1998, n° 4012.
[5] E. GHERA, Diritto del Lavoro, Cacucci, Bari, 2000, p. 204.
[6] L. MONTUSCHI,
Problemi del danno alla persona nel rapporto di lavoro, in RIDL, parte I, 1994,
p. 322.
[7] E. GHERA, cit., p. 205; Cass. 3 settembre 1997, n° 8422
e Cass. 20 aprile 1998, n° 4012.
[8] L. GALANTINO, Diritto del Lavoro, Giappichelli, Torino,
1998, p. 394;
[9] Cass., 13 settembre 1982, n° 4874, OGL, 1983, 541, con
nota di P. ZAMBRANO.
[10] Cass. 27 maggio 1983, n° 3689.
[11] D. VENTURI, RIDL, 1999, II, pp. 67 e ss.
[12] Cass. 23 ottobre 1985, n° 5210, FI, 1985, I, 3118.
[13] Cass., D.U., 16 gennaio 1987, n° 310, RGL, 1987, 335,
con nota di L. BARRERA.
[14] L. MONTUSCHI, cit., p. 322.
[15] L. MONTUSCHI, cit., p. 317.
[16] Corte Cost. 26 luglio 1979, n° 88, in GC, 1980, I, 534 ss., con nota di DE CUPIS, Il diritto alla salute tra Cassazione e Corte Costituzionale; nonché in GI, 1980, I, c. 9 ss., con nota di ALPA, Danno “biologico” e diritto alla salute davanti alla Corte Costituzionale.
[17] C. cost., 14 luglio 1986, n° 184, GC,
1986, I, 2324 ss.
[18] Trib. Genova, 25 maggio 1974, in GI, 1975, I, 2, 54.
[19] Cass., 6 giugno 1981, n° 3675, 1981, I, 1903 ss., con nota di ALPA, Danno biologico e diritto alla salute davanti alla Corte di Cassazione.
[20]
C. cost., 25 febbraio 1991, n° 87, RIDL, 1992, II, 3 ss., con nota di AVIO,
Danno biologico e malattie professionali: un ritorno alla teoria del rischio
professionale?; C. cost., 18 luglio 1991, n° 356, GC, 1991, I, 14 ss.; C.
cost., 27 dicembre 1991, n° 485, RIDL, II, 756 ss., con nota di GIUBBONI, Danno
biologico e assicurazioni infortuni: attualità e prospettive.
[21] Cass., 8 luglio 1992, n° 8325, FI, 1991, I, 2966, spec. 2972.
[22] Cass. 24 gennaio 1990, n°
41, L80, 1990, 659; Cass. 21 dicembre 1998, n° 12763, M.G.L., 1999, p. 287 ss..
[23] L. MONTUSCHI, cit., p. 324.
[24] A. CACCAMO e M. MOBIGLIA, cit., pp. VIII ss.; Cass.
Sez. Lav. 7 agosto 1998, n° 7792, NGL, 1999, p. 43.
[25] A. GENTILI, Sulla responsabilità contrattuale del datore di lavoro, in MGL, 1999, n° 8/9, pp. 846 ss; Cass. 27 giugno 1997, n° 6388, Foro It.-Rep., 1998, voce Infortuni sul lavoro, n° 89; Cass. 20 maggio, 1998, n° 5035, ibidem, 1998, voce Lavoro (rapporto), n° 272; Cass. 20 giugno 1998, n° 6169, ibidem, 1998, stessa voce, n° 379; Cass. 21 ottobre 1997, n° 10361, ibidem, 1997, stessa voce, n° 1333; Cass. 29 marzo 1995, n° 3740, ibidem, 1995, stessa voce, n° 1107 e altre.
[26] Cass. Sez. Lav., 9 ottobre 1997, n° 9808, RIDL, 1999, II, pp. 61 ss.
[27] U. OLIVA, Mobbing: quale
risarcimento, in Danno e resp., 2000, 1, 30, nota 20.
[28] R. SANTORO, Il Lavoro nella Giurisprudenza, n° 4/2000, pp. 365 ss.
[29] L. MONTUSCHI, cit., p. 327; A. RAFFI, Danni alla professionalità e da perdita di chances, 59, in M. PEDRAZZOLI (a cura di), Danno biologico e oltre, Torino, 1995; L. BONARETTI, Danno biologico,
[30] F. PAPPALARDO, Il danno da demansionamento, la sua liquidazione e i danni consequenziali nella giurisprudenza, in RIDL, 1997, II, pp. 143 ss.
[31] P. Milano 11 gennaio 1996, inedita; P. Roma 20 febbraio 1995, con nota di POLLERA, Le questioni dell’equivalenza delle mansioni nell’area della professionalità intellettuale più elevata, RIDL, 1996, II, 6, in LPO, 1996, 1368, con nota di MEUCCI, Replica ad un’annotazione in tema di equivalenza professionale, e in D&L, 1995, 963.
[32] P. Milano 20 giugno 1995, D&L, 1995, 944; P. Roma 17 aprile 1992, in RIDL, 1993, II, 543, con nota di POSO, Dequalificazione professionale e risarcimento del danno biologico, in OGL, 1992, 263 e in LPO, 1992, 1172.
[33] P. Milano 28 dicembre 1990, con nota di PERA, Sul diritto del
lavoratore a lavorare, in RIDL, 1991, II, 390.
[34] M. BROLLO, La mobilità interna del lavoratore, in
Commentario al Codice Civile, diretto da Piero Schlesinger, p. 257; A.
VALLEBONA, Tutele giurisdizionali e autotutela individuale del lavoratore,
Padova, 1995, pp. 3 e 101 ss.
[35] Cass., 24 gennaio 1990, n° 411, in Lav. Prev. Oggi, 1990, p. 2387 con nota di M. MEUCCI e in Lav. 80, 1990, p. 659 con nota di R. MUGGIA.. Con altre pronunce, si fa riferimento al modello costruito sull’art. 2043 c.c. e 32 Cost. o si parla, più genericamente, di responsabilità extracontrattuale: Cass. 15 agosto 1991, n° 8835, Riv. It. Dir. Lav., 1992, II, p. 954 con nota di F. FOCARETA; Cass. Sez. U. 14 maggio 1987, n° 4441, in Foro It., 1988, I, c. 2685, e in Dir. Lav., 1987, Ii, p. 544.
[36] M. BROLLO, cit,
p. 261; L. MONTUSCHI, cit. p. 324; Cass. 26 gennaio 1993, n° 931, in Riv. it.
dir. lav., 1994, II, p. 149 con nota di A. PIZZOFERRATO.
[37] Solo alcun sentenze richiamano entrambe le norme: Pret. Bapoli, 10ottobre 1992,in Foro it., 1993, I, c. 2883; Pret. Roma 3 ottobre 1991, in Riv. crit. dir. lav., 1992, p. 390 con nota di R. MUGGIA.
[38] A. CACCAMO e M. MOBIGLIA, cit., p. XIII; Cass., 8 agosto 1997, n°
7380, Mass., 1997.
[39] Cass. 5 aprile 1991, n° 3569, MGL, 1991, 263; Cass. 17
aprile 1984, n° 2499 e Cass. 6 febbraio 1984, n° 918, DL, 1984, II, 443, con
nota di GORLA; Trib. Napoli, 7 ottobre 1993, RIDL, 1994, II, pp. 758 ss., con
nota di A..VALLI; P. Milano 24 gennaio
1992, D&L 1992, 691; T. Milano 9 luglio 1991, ivi, 1992, 259; T. Milano 14
febbraio 1990, L80, 1990, 530; P.
Milano 30 gennaio 1989, ivi, 1989, 770.
[40] La giurisprudenza ha affermato, anche, che la minaccia
di licenziamento configura violenza morale qualora il giudice accerti
l’inesistenza delle inadempienze contestate, ovvero quando gli addebiti mossi
al lavoratore non costituiscano valido motivo per il recesso del datore: Cass.
20 gennaio 1999, n° 509, NGL, 1999, 209 ss; Cass. Sez. Lav. 26 maggio 1999, n° 5154, NGL, 1999, pp. 648
ss.;Cass. 16 luglio 1996, n° 6426, NGL, 1996, p. 747; Cass. 26 gennaio 1988, n°
639 e Cass. 11 marzo 1987, n° 2538, inedite.
[41] Cass. 20 gennaio 1999, n° 509, cit.; Cass. 22 ottobre
1991, n° 11167;
Cass. 20 novembre 1997, n° 11581; Cass. 12 marzo 1998, n° 2716.
[42] Cass. 19 gennaio 1999, n°
475, MGL, 1999, n° 3, p. 270, con nota di
A. RONDO;
[43] Pret. Lecce 29.7.1995, n° 2554, inedita.
[44] Trib. Torino 16 novembre 1999, Il Lavoro nella Giurisprudenza, n° 4/2000, pp. 361 ss., con nota di R. SANTORO.
[45] Sindrome ansioso depressiva reattiva, con frequenti crisi di pianto, vertigini, senso di soffocamento, tendenza all’isolamento.
[46] Su tale punto, la
Cassazione, con sentenza n° 12339 del 5.11.1999, ha escluso la possibilità di
limitare la responsabilità del datore di lavoro per i danni fisici (sindrome
depressiva e successivo infarto), provocati con il suo comportamento al
lavoratore, in ragione dell’esistenza di una concausa rappresentata da una
preesistente patologia coronarica. Secondo la Corte, una limitazione di
responsabilità può derivare solo dalla concorrenza di un altrui fatto colposo o
doloso, ma non dalla concorrenza, nella causazione dell’evento, di una
precedente malattia o di altro evento naturale ed imprevedibile; Cass. 2
febbraio 1999, n° 870, MGL, 1999, n° 4, p. 436; Cass. Sez. Lav., n° 1307/2000.
[47] Trib. Milano, 19 giugno 1993 e 21 aprile 1998, in
R.C.D.L., 1998, p.
[48] D. VERRINA, Mobbing: possibilità e prospettive di intervento giudiziario, Relazione al Convegno del Centro Studi Domenico Napoletano, sezione ligure.
[49] C. BALLETTI, La prova nelle cause di lavoro e
previdenza, Cedam, Padova, 1998, pp. 38 ss.
[50] DE STEFANO, Il notorio nel processo civile, Milano,
1947; CARNELUTTI, Massime d’esperienza e fatti notori, in Riv. Dir. Proc.,
1959, II, p. 639 ss..
[51] Cass. 13 marzo 1992, n° 3087; Cass. 20 giugno 1985, n° 3883.
[52] C. MANDRIOLI, Corso di
diritto processuale civile, II, Giappichelli, Torino, 1993, Cass. 10 luglio
1989, n° 3258.
[53] F.P. LUISO, Il Processo del lavoro, UTET, Torino, 1992, p. 186.
[54] A. CACCAMO e M. MOBIGLIA,
Inserto n° 18 del 29 aprile 2000, Diritto & Pratica del Lavoro, p. XIV.
[55] “Il dipendente
è oggetto ripetuto di soprusi da parte dei superiori e, in particolare, vengono
poste in essere nei suoi confronti pratiche dirette ad isolarlo dall’ambiente
di lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il cui effetto è di
intaccare gravemente l’equilibrio psichico del prestatore, menomandone la
capacità lavorativa e la fiducia in se stesso e provocando catastrofe emotiva,
depressione e talora persino suicidio”.
[56] Secondo il Tribunale di Torino, il datore di lavoro “è
tenuto ad impedire e scoraggiare con efficacia contegni aggressivi e vessatori
da parte di preposti e responsabili,nei confronti dei rispettivi sottoposti”.
[57] R. NUNIN, Di cosa parliamo quando parliamo di “Mobbing”, in ILLeJ, 2000, 1, p. 2, nel sito www.labourlawjournal.it/, ISSN 1561-8048.
[58] P. DENARI, LPO, 2000,
n° 1, pp. 5 ss.
[59] P. DENARI, cit., p. 8.
[60] Pret. Torino 17 maggio 1996; Cass. 2 marzo 1994, n°
2049; Cass. 20 gennaio 1993, n° 698; Cass. 6 febbraio 1985, n° 897; Cass. 19
aprile 1982, n° 2437; Trib, Milano 15 febbraio 1986.
[61] Trib. Milano 9 maggio 1998; Cass. 12 novembre 1996, n° 9874.
[62] Cass. Sez. Lav., 8 settembre
1999, n° 9539, in LPO, 1999, 12, con nota di DALMASSO, p. 2336: “la natura
extracontrattuale della rivendicazione non può risolvere il problema della
competenza, in quanto risultava il nesso immediato e diretto fra il
comportamento illecito e lo svolgimento del rapporto di lavoro”.
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