Danno esistenziale da demansionamento:  richiede prova, anche presuntiva, per essere risarcito
Cass., sez. lav., 12 maggio 2009 n. 10864 – Pres. Ianniruberto - Rel. Vidiri – Vida c. Ansaldo Energie SpA  e Consorzio Manital Servizi integrati.
 
Danno esistenziale addizionale al danno biologico e morale da demansionamento – Costituisce duplicazione risarcitoria in seno al danno non patrimoniale se non supportato da prove presuntive – Non spettanza nel caso di specie.
 
Per essere il rapporto di lavoro disciplinato da un ricco reticolato di disposizioni volte ad assicurare al lavoratore una tutela rafforzata della sua <persona>, è sovente riscontrabile nella materia giuslavoristica l'esistenza di un danno non patrimoniale che, configurabile ogni qualvolta il fatto illecito datoriale abbia violato in modo grave diritti della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale, consente alla vittima di ottenere il ristoro del danno scaturente dalla lesione di interessi, che per non essere regolati "ex ante" da norme di legge, dovranno essere individuati caso per caso dal giudice di merito. Detto giudice però non dovrà mai duplicare il risarcimento attraverso l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici e dovrà in ogni caso individuare il discrimine tra meri pregiudizi, che si concretizzano in semplici disagi - o in lesioni di interessi che, per essere privi di qualsiasi consistenza e gravità, non possono trovare riconoscimento in sede risarcitoria - e danni che, per importare di contro un vulnus ad interessi oggetto di copertura costituzionale, vanno risarciti all'esito di una valutazione, che se supportata da una motivazione congrua, coerente sul piano logico e rispettosa dei principi giuridici applicabili alla materia si sottrae - anche per quanto attiene alla quantificazione del danno - a qualsiasi censura in sede di legittimità.
Per la liquidazione  è necessario che  sia accertata l'esistenza del danno non patrimoniale (voce esistenziale) seppure a seguito di presunzioni, che però devono assurgere ex art. 2729 c.c. - in quanto «gravi, precise e concordanti» - anche esse a fonti di prova.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con rispettivi ricorsi, depositati in data 2 settembre 2003, Mario Vida, da un lato, e Manital Consorzio per i servizi integrati, proponevano appello avverso le sentenze n. 1862 non definitiva del 27 maggio 2002 e n. 885 definitiva del 20 marzo 2003, con le quali il Tribunale di Genova, respinte altre domande proposte dal Vida nei suoi due originari ricorsi introduttivi di primo grado, aveva dichiarato essere intervenuto demansionamento del Vida ad opera dapprima della s.p.a. Ansaldo Energie, nel periodo da 31 marzo 1996 al 14 settembre 1997, ed ad opera di Manital nel periodo dal 15 settembre 1997 al 20 gennaio 1999, condannando al pagamento in favore del lavoratore delle somme rispettivamente, di euro 18.810,63 la Ansaldo Energie e di curo 18.282,14 il Consorzio Manital, oltre alla refusione della metà delle spese di lite.
Da canto suo la Ansaldo Energie, costituendosi, proponeva appello incidentale, ed il Vida, costituendosi sull'appello proposto da Manital proponeva a sua volta appello incidentale.
Con sentenza del 25 gennaio 2005 la Corte d'appello di Genova, definitivamente pronunziando sugli appelli proposti contro le sentenze non definitiva e definitiva del Tribunale di Genova, in parziale riforma delle suddette decisioni, determinava a favore del Vida in euro 13.233,25 l'importo del risarcimento per danno biologico a carico del Consorzio Manital, dichiarava inammissibile l'appello incidentale proposto da Vida Mario, e confermava nel resto le impugnate sentenze. Compensava integralmente tra le parti le spese di lite del grado.
Avverso tale sentenza Mario Vida propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
Resistono con controricorso Manital - Consorzio per i Servizi Integrati - e la s.p.a. Ansaldo Energia, che spiega anche ricorso incidentale.
Il Vida e la società Ansaldo Energia hanno presentato memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Va disposta ai sensi dell'art. 335 c.p.c. la riunione del ricorso principale e di quello incidentale perché avanzati ambedue contro la medesima decisione.
2. Con il primo motivo il Vida denunzia omesso esame di fatti decisivi nonchè violazione e falsa applicazione degli artt. 1226, 2103 e 2697 c.c. nonché degli artt. 432 c.p.c. e 2727 e 2729 c.c. ed ancora vizio di motivazione, lamentando in particolare che la Corte d'appello di Genova aveva rigettato la domanda relativa al risarcimento del danno patrimoniale subito in seguito al demansionamento in quanto nessuna prova sarebbe stata al riguardo fornita dal lavoratore. Di contro il danno patrimoniale sussisteva per avere dovuto esso ricorrente dimettersi dal lavoro per non aggravare le sue già precarie condizioni di salute, per cui risultava poi possibile quantificare i danni alla luce delle retribuzioni spettanti ad esso sulla base delle tabelle retributive ed alla gravità ed alla durata del demansionamento.
2.1. Il motivo va rigettato perché privo di fondamento.
2.2. Con la sentenza 11 novembre 2008 n. 26972 le Sezioni Unite di questa Corte di cassazione - in una fattispecie in cui erano chiamate a stabilire se fosse corretta o meno la decisione con la quale il giudice di merito aveva liquidato il danno non patrimoniale causato da lesioni colpose senza tenere conto del c.d. danno esistenziale - nel risolvere un contrasto sorto anche tra i giudici di legittimità in materia di danni da fatti illegittimi (sulla prova degli elementi costitutivi del danno - e quindi anche sul nesso di causalità tra condotta illegittima ed evento dannoso e sulla esistenza ed entità del danno stesso - sulla generale distinzione tra danni patrimoniali e danni non patrimoniali nonché sulle diverse qualificazioni di questi ultimi e sulla configurabilità di tali qualificazioni - danno biologico, danno esistenziale, danno morale, danno estetico, danno da perdita del rapporto parentale ecc. - ad assurgere a tipi autonomi di danno o a semplici componenti del generale ed unico tipo di danno non patrimoniale) hanno statuito tra l'altro che il danno non patrimoniale configura una "lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica sì da costituire una categoria ampia ed onnicomprensiva all'interno della quale non sono possibili ulteriori sottodistinzioni, se non con valore meramente descrittivo". Hanno poi affermato i giudici di legittimità che il danno patrimoniale ed il danno non patrimoniale hanno identica struttura e che l'uno come l'altro sarà risarcibile ove sussista una condotta, un nesso causale tra questa e la lesione di una situazione protetta dall'ordinamento ed un danno conseguente a detta lesione, ed hanno poi puntualizzato che il danno patrimoniale è atipico - perché risarcibile quale sia la condotta illecita che l'abbia determinato - mentre il danno non patrimoniale è tipico perché risarcibile solo nei "casi previsti dalla legge" , secondo le previsioni di cui all'art. 2059 c.c. che, sotto tale aspetto, costituisce una norma in bianco o di rinvio.
2.3. La doverosa estensione applicativa di tali principi generali, validi in ogni materia e settore ordinamentale, abbisogna di alcune precisazioni per quanto attiene l'area giuslavoristica in considerazione della peculiarità e specificità degli interessi che connotano il rapporto di lavoro.
Nella già richiamata decisione delle Sezioni Unite si è detto per quanto riguarda il danno non patrimoniale che tale tipo di danno può distinguersi in tre gruppi: gruppo di danni non patrimoniali causati da un fatto oggettivamente integrante gli estremi di un reato, nel qual caso il danno non patrimoniale sarà risarcibile ai sensi del summenzionato art. 2059 c.c. e dell'art. 185 c.p. anche se detto danno si sostanzia nella lesione di interessi della persona privi di rilevanza costituzionale; gruppo di danni non patrimoniali, che pur non derivanti da reato siano comunque risarcibili stante una espressa previsione di legge (come, avviene, ad esempio, nelle fattispecie previste: dall'art. 89 c.p.c. nonché dall' art. 15, comma 2, d. lgs. 30 giugno 2003 n. 196; dall'art. 125 d. lgs. 10 febbraio 2005 n. 30, nel testo modificato dall'art. 17, comma 1, d. lgs. 16 marzo 2006 n. 140), in ragione della quale devono essere risarciti - anche in assenza di reato - non tutti i danni non patrimoniali comunque lamentati dalla vittima ma unicamente quelli derivanti dalla lesione degli interessi che il legislatore ha voluto tutelare tramite la norma attributiva del diritto al risarcimento; ed infine gruppo di danni non patrimoniali, costituito da fattispecie in cui il fatto illecito abbia leso un diritto inviolabile della persona, come tale tutelato dalla Costituzione.
2.4. La risarcibilità in queste ultime fattispecie presuppone a sua volta tre condizioni: la prima che la condotta illecita abbia leso un interesse garantito a livello costituzionale e sia pertanto da ritenere ingiusta, dovendo in altri termini la rilevanza costituzionale riguardare l'interesse leso e non il pregiudizio conseguentemente sofferto perché il condividere una diversa tesi finirebbe per tradursi in una abrogazione per via interpretativa dell'art. 2959 c.c. in quanto qualsiasi danno non patrimoniale per il fatto stesso di essere tale, di toccare cioè gli interessi della persona, sarebbe sempre risarcibile; la seconda condizione è che la lesione sia grave, sicchè anche nelle ipotesi in cui la condotta illecita abbia leso interessi della persona di rilievo costituzionale è richiesto che tale offesa superi una soglia minima di tollerabilità altrimenti il danno non patrimoniale risulta irrisarcibile; ed infine la terza condizione è che il danno non sia futile o che il pregiudizio sia consistito in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti da considerarsi del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita od alla felicità (cfr. al riguardo Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008 n. 26972 cit.).
2.5. Orbene, se la funzione nomofilattica devoluta a questa Corte di Cassazione importa l'applicazione dei principi enunciati dal recente arresto giurisprudenziale - non ravvisandosi ragioni suscettibili di contestarne la fondatezza - criteri di razionalità volti ad evitare che nella loro concreta applicazione possano configurarsi letture antinomiche dei numerosi dicta giurisprudenziale sopraenunciati, inducono a tenere nel dovuto conto della peculiarità del settore giuslavoristico, al quale tutti i suddetti principi vanno estesi.
2.6. Ciò induce ad una preliminare considerazione, quella cioè che nell'area del diritto del lavoro sono particolarmente frequenti i danni non patrimoniali derivanti da fatti illeciti che ledono diritti della persona, tutelati dalla Costituzione. Ciò è attestato, da un lato, dalle specialità del rito del lavoro, caratterizzato sin dalla sua entrata in vigore da un complesso di disposizioni - quali, ad esempio, le ordinanze anticipatorie di cui all'art. 423 c.p.c., l'esecutorietà della sentenza di primo grado ex art. 431 c.p.c. , la rivalutazione dei crediti di lavoro ex art. 429, ultimo comma c.p.c. - che trovano la loro ratio in quella che la dottrina processualistica ha chiamato la tutela differenziata dei crediti in ragione del loro rilievo socio-economico, nonché in numerose disposizioni di diritto sostanziale, tra le quali vanno incluse tra le espressioni più significative le norme dettate - oltre che a tutela delle organizzazioni sindacali anche a garanzia della «persona» del lavoratore - dalla legge 20 maggio 1970 n. 300, ed il disposto dell'art. 2087 c.c. che, è opportuno ricordare, statuisce che «l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio della impresa le misura che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro».
2.7. In altri termini nella disciplina del rapporto di lavoro si riscontra un reticolato di disposizioni specifiche volte ad assicurare una ampia e speciale tutela alla «persona» del lavoratore con il riconoscimento espresso dei diritti a copertura costituzionale (art. 32 e 37 Cost.).
2.8. Ciò non significa però che i presupposti e le condizioni per la liquidazione dei danni non patrimoniali nella materia giuslavoristica debbano differenziarsi da quelli in precedenza esplicitati - così come sembra volere sostenere il ricorrente - richiedendosi in ogni caso per detta liquidazione che non solo sia provato il nesso causale tra la condotta illecita ed il pregiudizio lamentato, ma anche che sia accertata l'esistenza del danno seppure a seguito di presunzioni, che però devono assurgere ex art. 2729 c.c. - in quanto «gravi, precise e concordanti» - anche esse a fonti di prova.
2.9. Come dimostra il thema decidendum della presente controversia - in cui il lavoratore ha chiesto oltre il danno biologico anche il danno esistenziale - è frequente nel rito del lavoro l'uso di espressioni molteplici e varie (ad esempio: danno biologico, danno esistenziale, danno estetico, danno alla vita di relazione, danno morale soggettivo, danno da perduta professionalità, danno morale soggettivo, ecc.) volte a convogliare - spesso attraverso procedimenti di fungibilità o osmosi semantica tra espressioni - pregiudizi o sofferenze, costituenti solo una parte dei danni morali subiti. Dette espressioni però possono essere utilizzate, come si è detto, con valore meramente descrittivo e non per indicare tipi di danno dotati di propria autonomia data l'unicità ed onnicomprensività del danno non patrimoniale come tipo di danno che per comprendere , come si è detto, «tutti gli interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica», si contrappone al danno patrimoniale. Da ciò consegue che l'evocazione ed il richiamo attraverso la formulazione di definizioni, che trovano la loro origine nella pratica giudiziaria senza un adeguato riscontro nella disciplina normativa, non può servire per una duplicazione ai fini liquidatori di danni di identico contenuto e natura, sì da snaturare la stessa funzione dell'istituto del risarcimento del danno, che non deve vedere la sua natura, volta ad una doverosa, giusta ed integrale finalità recuperatoria, trasformarsi in uno istituto realizzante un non giustificato arricchimento.
2.10. Non può però sottacersi sotto altro versante che la valutazione sulle condotte datoriali di cui si denunzia la illegittimità costituisce per il giudice di merito un rilevante e difficile compito che richiede - in ragione della rilievo che il lavoro assume a livello della Carta Costituzionale e che connota l'intera disciplina legale che lo regola - una particolare e vigile attenzione al fine di individuare di volta in volta il discrimine tra meri pregiudizi, che si concretizzano in disagi o in lesioni di interessi che per essere privi di qualsiasi consistenza e gravità non possono trovano riconoscimento in sede risarcitoria, e danni che, per concretizzare di contro un vulnus ad interessi che, per essere oggetto di copertura costituzionale, devono essere risarciti. La valutazione del giudice di merito relativa alla individuazione del superamento della soglia oltre la quale l'interesse leso va risarcito, se supportato da una motivazione congrua, coerente sul piano logico e rispettosa - anche per quanto attiene alla determinazione ed alla liquidazione del danno non patrimoniale - si sottrae a qualsiasi censura in sede di legittimità.
2.11. Le argomentazioni svolte forniscono i parametri per concludere per l'infondatezza del primo motivo del ricorso.
La Corte d'appello di Genova ha osservato per la parte che ancora interessa in questa sede - che la domanda del Vida in ordine alla declaratoria di legittimità della sua messa in cassa integrazione non risultava fondata non sussistendo i vizi procedimentali lamentati dallo stesso Vida né una errata valutazione da parte del primo giudice sulla legittimità della sospensione del rapporto lavorativo. Ed invero dalle risultanze istruttorie era emerso che il Vida aveva chiesto di essere posto in cassa integrazione perché era intenzionato ad aiutare il proprio figliuolo nel momento che lo stesso iniziava una attività commerciale, né tale consenso rendeva di per sé illegittimo il provvedimento datoriale di messa in cassa integrazione, atteso che a fronte di un mutuo consenso alla sospensione del rapporto lavorativo non vi era alcuna disposizione di carattere inderogabile capace di rendere illegittima tale sospensione. In relazione poi al verificarsi del denunziato demansionamento del Vida presso ambedue i suoi datori di lavoro, la Corte territoriale ha osservato che in realtà tale demansionamento vi era stato perché dopo il rientro del lavoratore dalla cassa integrazione, al Vida - inquadrato nella ottava categoria del contratto collettivo nazionale di lavoro - era stato affidato dalla Ansaldo il trasloco dell'archivio storico presso i nuovi locali dell'area Campi, mediante il coordinamento di una squadra di 10 persone e, successivamente, gli era stata affidata la gestione dell'Archivio dell'Ufficio Approvvigionamenti. Mansioni queste di certo inferiori a quelle proprie della ottava categoria atteso che il coordinamento di una squadra di 10 operai per lo svolgimento di lavori di pulizia e per il materiale trasloco di un archivio non integrano "attività di coordinamento di servizi, uffici, enti produttivi, fondamentali dell'azienda" né "attività di alta specializzazione ed importanza" . Per il periodo alle dipendenze del Manital al Vida era stata poi assegnata la gestione dello stabile della sede dell'Ansaldo Trasporti, mansione che dalle emergenze istruttorie era risultata tradursi in una modesta attività di ordinaria amministrazione eseguita personalmente dal Vida stessa e da un suo collega.
Con riferimento poi alla quantificazione del danno biologico correttamente tale danno poteva - ha precisato il giudice d'appello - liquidarsi in euro 13.233,25, sulla base delle corrette considerazioni svolte nel suo elaborato peritale dal consulente d'ufficio, che ha riconosciuto l'esistenza di un nesso causale tra condotta della Ansaldo e lo stato depressivo del lavoratore che non si sarebbe verificato in assenza dell'illecito comportamento della società, che pertanto doveva rispondere dell'intero danno. Nessun danno patrimoniale era stato poi dimostrato come dipendente dal demansionamento per cui non poteva essere riconosciuto alcun pregiudizio di tale tipo, dovendo appunto la sua sussistenza essere provata dal Vida, incombendo sullo stesso il relativo onere probatorio. Sulla quantificazione del danno morale, ricavabile della anamnesi del consulente, la Corte territoriale precisava, infine, che lo stesso danno ben poteva essere quantificato - così come aveva fatto il primo giudice - nella misura di un terzo della somma del danno biologico per cui la doglianza del lavoratore circa la esiguità della somma liquidatagli non poteva trovare ingresso, essendosi adottato nel caso di specie criteri parametrici adottati da altri Tribunali e dovendosi tenere conto anche che non si verteva nella totale privazione di ogni tipo di mansioni. Non poteva condividersi - a parere del giudice d'appello - sotto un opposto versante la doglianza di Manital secondo cui il danno biologico comprendeva anche il danno non patrimoniale alla vita di relazione atteso che nel sistema bipolare introdotto nel nostro sistema ordinamentale in materia di liquidazione dei danni - incentrato nella ripartizione di detti danni in patrimoniali e non patrimoniali - in questi ultimi vanno annoverati oltre che il danno biologico in senso stretto anche il danno morale soggettivo come tradizionalmente inteso, ed i pregiudizi diversi ed ulteriori purchè costituenti conseguenza della lesione di un interesse costituzionalmente protetto.
Ed ugualmente infondata si rilevava la doglianza di Manital sul riconoscimento da parte del primo giudice della liquidazione del danno biologico per invalidità temporanea - sofferta dal Vida in base alle certificazioni mediche dei periodi di malattia acuta del Vida stesso- perché poteva tale danno ritenersi compreso in quello permanente solo nella ipotesi - non ricorrente nel caso di specie - di causazione immediata di un danno totale nella misura del 100 per cento.
2.12. La motivazione della impugnata sentenza - se letta nell'intero suo contenuto e quindi al di là di singole espressioni - attesta che il giudice d'appello è correttamente partito dalla nozione bipolare del danno da condotta illecita datoriale (danni patrimoniali - danni non patrimoniali)  e su tale distinzione ha fondato la liquidazione dei danni di cui è risultata provata l'esistenza e di cui si è accertato il loro collegamento causale con la illegittima condotta datoriale, sicchè il suo pronunziato non merita le censure che le sono state mosse perché esso è rispettoso del principio di diritto che, in ragione del disposto dell'art. 384, comma 1, c.p.c. va enunciato in questi termini : «Per essere il rapporto di lavoro disciplinato da un ricco reticolato di disposizioni volte ad assicurare al lavoratore una tutela rafforzata della sua <persona>, è sovente riscontrabile nella materia giuslavoristica l'esistenza di un danno non patrimoniale che, configurabile ogni qualvolta il fatto illecito datoriale abbia violato in modo grave diritti della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale, consente alla vittima di ottenere il ristoro del danno scaturente dalla lesione di interessi, che per non essere regolati "ex ante" da norme di legge, dovranno essere individuati caso per caso dal giudice di merito. Detto giudice però non dovrà mai duplicare il risarcimento attraverso l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici e dovrà in ogni caso individuare il discrimine tra meri pregiudizi, che si concretizzano in semplici disagi - o in lesioni di interessi che, per essere privi di qualsiasi consistenza e gravità, non possono trovare riconoscimento in sede risarcitoria - e danni che, per importare di contro un vulnus ad interessi oggetto di copertura costituzionale, vanno risarciti all'esito di una valutazione, che se supportata da una motivazione congrua, coerente sul piano logico e rispettosa dei principi giuridici applicabili alla materia si sottrae - anche per quanto attiene alla quantificazione del danno - a qualsiasi censura in sede di legittimità».
3. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 3 della legge 13 giugno 1942 n. 794 nonché dell'art. 5 del decreto del Ministro della Giustizia 5 ottobre 1994 n. 5785 nonché omesso esame di un fatto decisivo e falsa applicazione dell'art. 91 c.p.c. ed infine contraddittorietà della motivazione. Assume al riguardo il ricorrente che con l'atto di appello aveva censurato la sentenza impugnata nella parte in cui il primo giudice aveva proceduto alla compensazione delle spese, ed aveva altresì lamentato in relazione all'entità della liquidazione, che la causa era di valore indeterminato, di notevole complessità ed infine che erano stati violati i minimi come risultava dalla nota prodotta. Il giudice d'appello aveva però respinto la questione di compensazione e quella del riconoscimento della domanda di valore indeterminato e di particolare importanza ed, inoltre, in relazione alle altre questioni, si era limitato ad osservare che mancava una specifica indicazione della violazione della tariffa per cui non poteva verificarsi se ed in quale misura il giudice aveva violato i minimi ivi stabiliti. Si era così in presenza di una sostanziale omissione di pronunzia oltre che in presenza di una palese violazione dell'art. 3 della legge n. 794 del 1942 perché il giudice d'appello aveva dapprima riconosciuto che la causa era caratterizzata da molteplici questioni e da attività istruttorie alquanto elaborate, ed aveva poi dichiarato che non era possibile verificare se ed in quale misura il primo giudice aveva violato i minimi tariffari.
3.1. Anche detto motivo è infondato.
3.2. Il giudice del gravame con riferimento al regime delle spese di primo grado ha riconosciuto come la relativa liquidazione risultava immune da censure sia perché la compensazione risultava giustificata dall'esito della lite, sia perché non era giustificata la richiesta di raddoppio degli onorari non presentando la presente controversia quei caratteri di particolare importanza giustificativi del chiesto raddoppio, sia perché infine mancando la specifica indicazione della violazione della tariffa non era possibile verificare se ed in quale misura il primo giudice aveva violato i minimi stabiliti.
3.3. La motivazione sul punto della sentenza impugnata si presenta congrua, logica e rispettosa delle norme che si denunziano come violate, atteso che la determinazione degli onorari di difesa costituisce un potere discrezionale del giudice di merito e che rientra nell'ambito della stessa discrezionalità - basata essenzialmente su elementi di fatto ed insindacabile in sede di legittimità - lo stabilire se una causa presenti oppure no straordinaria importanza e possa quindi giustificare il raddoppio dei massimi degli onorari (cfr. tra le tante: Cass. 23 marzo 1995 n. 3381 cui adde Cass. 30 gennaio 1997 n. 932), e considerato altresì che nel caso di specie il giudice del gravame ha motivato sulla compensazione delle spese rispettando il disposto dell'art. 92, comma 2, c.p.c. (cfr. al riguardo da ultimo: Cass. 30 maggio 2008 n. 14563, secondo cui l'art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., nel testo introdotto dall'art. 2, comma 1, lett. a), della legge 28 dicembre 2005, n. 263, dispone che il giudice può compensare le spese, in tutto o in parte, se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione).
4. Le ragioni che hanno portato a rigettare il ricorso del Vida inducono a rigettare anche il ricorso incidentale della s.p.a. Ansaldo Energia, con il quale si nega che vi sia stato un demansionamento ai danni del suddetto Vida. Ed invero va ribadito che la sentenza impugnata è fondata su un iter argomentativo     che, anche per quanto riguarda l'accertato demansionamento, si sottrae ad ogni censura, avendo il giudice d'appello valutato le concrete mansioni svolte dal Vida alle dipendenze dei suoi datori di lavoro, riscontrando una violazione del disposto dell'art. 2103 c.c. all'esito di una attento vaglio delle risultanze processuali ed un compiuto accertamento dei fatti in contestazione, che non possono essere riesaminati in questa sede di legittimità.
5. Ricorrono giusti motivi - in considerazione della natura della controversia e delle questioni trattate nonché del rigetto sia del ricorso principale che di quello incidentale - per compensare interamente tra le parti le spese del presente giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa tra le parti le spese del presente giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma il 25 febbraio 2009 (depositato il 12.5.2009)

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