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Irrogazione di
licenziamento per causale diversa dal primo soggetto a impugnativa -
legittimità
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Cass., sez.
lav., 20 gennaio 2011 n. 1244 – Pres. Foglia – Rel. Zappia -
S.p.a. Banca CARIMA (ora Banca delle Marche s.p.a.)
(avv. Gentile) c. A.M. (avv. Scoccini)
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Impugnazione di licenziamento – Giudizio pendente – Irrogazione di altro
licenziamento per diversa causale– Legittimità.
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Il datore
di lavoro, qualora abbia già intimato al lavoratore il licenziamento per una
determinata causa o motivo, può legittimamente intimargli un secondo
licenziamento, fondato su una diversa causa o motivo, restando quest’ultimo
del tutto autonomo e distinto rispetto al primo, con la conseguenza che
entrambi gli atti di recesso sono in sé astrattamente idonei a raggiungere
lo scopo della risoluzione del rapporto, dovendosi ritenere il secondo
licenziamento produttivo di effetti solo nel caso in cui venga riconosciuto
invalido o inefficace il precedente.
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Il
licenziamento illegittimo, intimato a lavoratori per i quali è applicabile
la tutela cosiddetta reale, determina solo un’interruzione di fatto del
rapporto di lavoro, ma non incide sulla sua continuità, assicurandone la
copertura retribuiva e previdenziale, di modo che “il recesso illegittimo
non può valere ad escludere la debenza, dei contributi previdenziali sulle
retribuzioni dovute al lavoratore reintegrato” (Cass. 1.3.05 n. 4261).
Non può, infatti, negarsi che l’annullamento abbia natura costitutiva e
che gli effetti della pronunzia abbiano effetto ex tunc; tuttavia, esso
interviene in una situazione in cui il rapporto non è stato interrotto dal
licenziamento (si veda in tal senso Corte Cost. 14.1.86 n. 7).
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La
continuità e la permanenza del rapporto giustifica l’irrogazione di un
secondo licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, ove basato su
una nuova e diversa ragione giustificatrice, dal quale solamente, in
mancanza di tempestiva impugnazione, deriverà l’effetto estintivo del
rapporto”.
Fatto
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Con
sentenza in data 7.7.2004 n. 12528 questa Corte di Cassazione, pronunciando
sul ricorso proposto da A.M. Nei confronti della Banca delle Marche s.p.a.
Avverso la sentenza del Tribunale di Macerata in data 18.4.2002 – con la
quale era stata confermata la sentenza del Pretore, giudice del lavoro, di
Macerata che aveva respinto l’impugnativa di licenziamento e la conseguente
domanda di risarcimento del danno proposta dall’ A. - in accoglimento del
ricorso, cassava la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, dichiarava
l’illegittimità del provvedimento disciplinare di destituzione –
licenziamento comminato all’ A. dalla s.p.a.
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Banca
Carima (ora Banca delle Marche s.p.a.) e disponeva l’immediata
reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro; rinviava la causa alla
Corte d’appello di Ancona per la decisione sul capo dell’originaria domanda
relativo alla richiesta di risarcimento del danno.
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Con ricorso
in riassunzione in data 30.3.2005 l’ A. chiedeva che la Corte adita, in
riforma della sentenza del Pretore del lavoro di Macerata, dato atto della
pronuncia della Corte di Cassazione ed accertato altresì che il rapporto di
lavoro ricostituito in forza di tale decisione era cessato in data
10.12.2004 per avvenuto recesso della società datoriale, o in subordine in
data 14.10.1998 al compimento del 65anno di età del dipendente, volesse
condannare la Banca al risarcimento del danno da licenziamento illegittimo
in misura della retribuzione globale di fatto dal 16.9.1993 al 10.12.2004
(o, in subordine, al 14.10.1998).
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Istauratosi
il contraddittorio l’Istituto datoriale chiedeva che l’ipotesi risarcitoria
fosse commisurata alla minore durata del rapporto di lavoro, deducendo che
secondo le previsioni del contratto collettivo di settore del 1999 (artt. 80
ed 85) il rapporto stesso doveva obbligatoriamente cessare al compimento dei
65 anni di età da parte del dipendente.
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Con
sentenza in data 5.1.2007 la Corte di Appello di Ancona, non definitivamente
pronunciando, dichiarava che il rapporto di lavoro tra l’ A. e la Banca
doveva intendersi cessato alla data del dicembre 2004; disponeva con
separata ordinanza per l’ulteriore corso del giudizio, ai fini della
quantificazione del risarcimento dovuto L. n. 300 del 1970, ex art. 18,
nonché per l’accertamento del danno biologico eventuale.
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In
particolare la Corte territoriale rilevava che la norma
contrattuale-collettiva, alla stregua della quale il lavoratore doveva
essere collocato a riposo al compimento del 65^ anno di età, non prevedeva
la cessazione automatica del rapporto di lavoro ma soltanto la
obbligatorietà del collocamento a riposo, che comunque richiedeva una
manifestazione di volontà in tal senso da parte del datore di lavoro.
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Avverso
questa sentenza propone ricorso per cassazione la Banca delle xxxx s.p.a.
Con due motivi di impugnazione.
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Resiste con
controricorso il dipendente intimato.
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Entrambe le
parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Diritto
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Col primo
motivo di ricorso l’Istituto lamenta violazione e/o falsa applicazione
dell’art. 85 del CCNL di settore del 16.6.1995, ai sensi dell’art. 360
c.p.c., n. 3.
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In
particolare rileva che la Corte territoriale, dopo aver correttamente
inquadrato la categoria giuridica relativa all’estinzione del rapporto di
lavoro disciplinata dall’art. 85, comma 2, del contratto collettivo
applicato, in quella del recesso obbligatorio e non della risoluzione
automatica, aveva in maniera non consequenziale ritenuto che il rapporto di
lavoro in questione dovesse ritenersi cessato alla data del dicembre 2004
(data di comunicazione del recesso datoriale) anziché a quella del
14.10.1998 (data di compimento del 65^ anno di età del dipendente). Ciò in
quanto la comunicazione del recesso datoriale per superamento dei limiti di
età non poteva considerarsi come una comunicazione avente effetto
costitutivo, ma come atto avente un’efficacia prettamente dichiarativa.
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Il suddetto
motivo di ricorso è improcedibile a causa del mancato deposito del CCNL in
forma integrale, avendo parte ricorrente depositato solo stralci, seppure
ampi, della normativa contrattuale in materia.
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Invero,
dopo alcune perplessità (Cass. Sez. lav., 4.8.2008 n. 21080, per cui l’onere
di depositare i contratti e gli accordi collettivi sui quali il ricorso si
fonda va riferito sia alle norme collettive della cui violazione il
ricorrente si duole attraverso le censure mosse alla sentenza impugnata, sia
ad ogni altra norma collettiva utile per l’interpretazione delle prime,
sempre però che essa appartenga alla causa per essere stata dedotta e
prodotta nei precedenti gradi di merito), la giurisprudenza maggioritaria di
questa Corte (Cass. Sez. lav., 11.2.2008 n. 6432, Cass. Sez. lav., 5.2.2009
n. 2855, Cass. Sez. lav., 2.7.2009 n. 15495) si è orientata nel senso che è
necessario il deposito del testo integrale del contratto.
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Ciò in
primo luogo in forza del dettato letterale dell’art. 369 cod. proc. Civ.,
comma 2, n. 4 (come modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 7),
il quale prevede che gli atti processuali, i documenti e i contratti o
accordi collettivi su cui il ricorso si fonda devono essere depositati
insieme al ricorso a pena di improcedibilità, norma che non sembra prevedere
deroghe, consentendo il deposito solo di stralci del contratto collettivo da
interpretare.
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Al riguardo
conviene innanzi tutto richiamare i rilievi già svolti da questa Corte sul
punto nei giudizi ex art. 420 bis cod. proc. Civ., per decidere se essi
possano valere anche quando non si tratta di quella speciale procedura, ma
del normale ricorso per cassazione, ex art. 360 cod. proc. Civ., n. 3, in
cui si assume che la sentenza impugnata abbia violato o falsamente applicato
i contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro.
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E’ stato
precisato (Cass. Sez. lav., 21.9.2007 n. 19560) che, in sede di applicazione
dell’art. 420 bis c.p.c., la Corte di legittimità – nell’enunciare, in
funzione nomofilattica, un principio – è tenuta ad operare come se l’oggetto
del suo esame fosse una norma giuridica e non, invece, un negozio di natura
privatistica.
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Si è
aggiunto, nella sentenza citata, per quanto attiene specificamente ai poteri
della Corte di Cassazione, che nell’interpretazione del contratto, essa non
è condizionata dalle domande delle parti e dal loro comportamento, potendo
ricercare liberamente all’interno de contratto collettivo (da depositarsi ex
art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4) ciascuna clausola – anche se non oggetto
dell’esame delle parti e del primo giudice – comunque ritenuta utile alla
interpretazione.
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Di
conseguenza non si dubita che in quei procedimenti sia necessario depositare
il contratto collettivo nella sua interezza (Cass. Sez. lav., 16.7.2009 n.
16619).
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Ritiene il
Collegio che alla stessa conclusione si debba pervenire in relazione
all’ambito dell’interpretazione che compete alla Corte nel caso in cui venga
proposto ordinario ricorso per cassazione ex art. 360 cod. proc. Civ., n. 3.
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Ed invero
il procedimento ex art. 420 bis c.p.c., trova necessario fondamento nella
nuova formulazione dell’art. 360, n. 3, e nulla autorizza a ritenere che,
nell’un caso, l’analisi della contrattazione collettiva debba essere più
limitata rispetto a quanto previsto per l’altro. Se pur è infatti innegabile
che la interpretazione resa ex art. 420 bis, oltre avere effetto
anticipatorio, abbia una maggiore forza cogente, stante il disposto
dell’art. 146 bis disp. Att. c.p.c., in cui, richiamando il D.Lgs. n. 165
del 2001, art. 64, comma 7, si sancisce l’influenza della decisione della
Corte in altri processi in cui si controverta sulla medesima questione,
tuttavia nessuna disposizione diversifica il processo interpretativo da
applicare in caso di ricorso normale ed in caso del ricorso per saltum.
Infatti la nomofilachia, cui le nuove norme sono finalizzate, sarebbe
pregiudicata ove si ritenesse che, nell’un caso, l’interpretazione debba
essere astretta alle clausole contrattuali esaminate nei gradi di merito,
mentre, nell’altro, la interpretazione si possa svolgere a tutto campo,
reperendo nel contratto altre clausole, non esaminate, che però potrebbero
risolvere ogni margine di incertezza.
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Ed invero,
se fosse precluso alla Corte, anche in sede di ricorso ordinario, di
applicare il criterio sistematico, interpretando le clausole le une per
mezzo delle altre, la decisione che ne sortirebbe sarebbe sicuramente meno
affidabile e meno “resistente” rispetto ad altri interventi, sentenze rese
ex art. 420 bis c.p.c., che si possono invece giovare di questo fondamentale
criterio ermeneutico.
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Deve
ritenersi pertanto che la norma di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4,
imponga alla parte un onere di produzione che ha per oggetto il contratto
nel suo testo integrale.
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La
disposizione infatti si riferisce ai “contratti o accordi collettivi”, senza
fornire alcun elemento che possa consentire di effettuare una produzione
parziale, limitata a singole clausole, singoli articoli, o parti di articoli
del contratto.
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La scelta
legislativa è coerente con i principi generali dell’ordinamento, che certo
non consentono a chi invoca in giudizio un contratto, di produrre al giudice
solo una parte del documento.
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E’ coerente
altresì con i canoni di ermeneutica contrattuale dettati dall’art. 1362
c.c., e segg., in particolare, con la regola denominata dal codice
“Interpretazione complessiva delle clausole”, secondo la quale “le clausole
del contratto si interpretano le une per mezzo delle altre, attribuendo a
ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto” (art. 1363 c.c.).
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La scelta
legislativa è poi coerente con i criteri di fondo dell’intervento
legislativo in cui si inserisce (D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 e relativa
legge delega) volto a potenziare la nomofilachia della Corte di cassazione.
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Deve di
conseguenza affermarsi il principio di diritto per cui la produzione di meri
stralci del contratto collettivo nazionale di lavoro non corrisponde alla
prescrizione di cui all’art. 369 cod. proc. Civ., comma 2, n. 4.
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E tale
principio è stato, di recente, ribadito con la sentenza n. 20075/10 dalle
Sezioni Unite di questa Corte, investite della problematica con ordinanza in
data 17.3.2010 nel ricorso iscritto al R.G. Al n. 3277/09.
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Col secondo
motivo di ricorso l’Istituto datoriale lamenta insufficiente e/o
contraddittoria motivazione dell’impugnata sentenza, ai sensi dell’art. 360
c.p.c., n. 5.
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In
particolare rileva che la Corte territoriale, con motivazione insufficiente
e contraddittoria, aveva ritenuto del tutto irrilevante la circostanza che
il dipendente, alla data del compimento del 65^ anno di età, non fosse più
in forza alla Banca, essendo stato licenziato per giusta causa il 16.9.1993,
ed essendo stato il recesso datoriale già confermato in sede di giudizio di
primo grado; per cui l’Istituto predetto non poteva procedere ad un nuovo
licenziamento per la semplice ragione che tra le parti non sussisteva alcun
rapporto giuridico.
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Il motivo
non è fondato.
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Deve invero
ritenersi non corretto l’assunto di parte ricorrente circa l’assenza del
potere di procedere ad un nuovo licenziamento del dipendente prima
dell’ordine di reintegrazione conseguente alla declaratoria di nullità del
precedente licenziamento.
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Osserva in
proposito il Collegio che il datore di lavoro, qualora abbia già intimato al
lavoratore il licenziamento per una determinata causa o motivo, può
legittimamente intimargli un secondo licenziamento, fondato su una diversa
causa o motivo, restando quest’ultimo del tutto autonomo e distinto rispetto
al primo, con la conseguenza che entrambi gli atti di recesso sono in sé
astrattamente idonei a raggiungere lo scopo della risoluzione del rapporto,
dovendosi ritenere il secondo licenziamento produttivo di effetti solo nel
caso in cui venga riconosciuto invalido o inefficace il precedente.
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Tale
principio è stato a più riprese affermato da questa Corte soprattutto con
riferimento alla rinnovazione del licenziamento disciplinare in base agli
stessi motivi sostanziali determinativi del precedente recesso, anche se la
questione della validità formale del primo licenziamento sia ancora sub
iudice, risolvendosi tale rinnovazione nel compimento di un negozio diverso
dal precedente. Ed a maggior ragione lo stesso principio deve trovare
applicazione nell’ipotesi di intimazione di ulteriore licenziamento per
motivi diversi da quelli oggetto del precedente recesso, dovendosi
esclusivamente ritenere che l’efficacia del secondo è subordinata alla
ritenuta illegittimità del primo.
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Non ignora
peraltro il Collegio che questa Corte, con le sentenze n. 10394 del
18.5.2005 e n. 5092 del 4.4.2001 n. 5092, ha ritenuto che il licenziamento
intimato nell’area della stabilità reale per mancanza di giusta causa o
giustificato motivo costituisce negozio risolutivo del rapporto, il quale
produce i suoi effetti tipici fino a quando non venga eventualmente
annullato dal giudice; con la conseguenza che un secondo licenziamento, ove
irrogato prima dell’annullamento, sarebbe privo di effetto, in quanto
interverrebbe su un rapporto non più esistente.
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La
questione è stata di recente affrontata da questa Corte la quale, con la
sentenza 6.3.2008 n. 6055, ha rilevato che “tale impostazione, ad avviso del
Collegio, non appare condivisibile poiché si limita a considerare solamente
l’aspetto degli effetti caducatori della pronunzia di illegittimità del
licenziamento per carenza di giusta causa o giustificato motivo,
enfatizzando il dato testuale della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 1
(nel testo introdotto dalla L. n. 108 del 1990), a proposito della
qualificazione di azione di annullamento dell’impugnazione del recesso per
giusta causa o giustificato motivo (”il giudice, con la sentenza con cui...
annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato
motivo...”), senza tenere conto del significato complessivo della norma.
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La norma,
infatti, prevede che nel caso di annullamento del recesso disposto dal
giudice per mancanza di giusta causa o giustificato motivo, scattino a
favore del lavoratore una serie di conseguenze favorevoli per il lavoratore
(reintegrazione nel posto di lavoro, pagamento di un’indennità pari alla
retribuzione di fatto che sarebbe maturata tra il licenziamento e la
reintegrazione, versamento dei contributi previdenziali per il periodo tra
licenziamento e reintegrazione) che postulano che il rapporto medio tempore
sia continuato, seppure solamente de iure. In altre parole, non può negarsi
che l’annullamento abbia natura costitutiva e che gli effetti della
pronunzia abbiano effetto ex tunc; tuttavia, esso interviene in una
situazione in cui il rapporto non è stato interrotto dal licenziamento (si
veda in tal senso Corte Cost. 14.1.86 n. 7).
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Incisivamente è stato affermato che il licenziamento illegittimo non è
idoneo ad estinguere il rapporto al momento in cui è stato intimato
“determinando unicamente una sospensione della prestazione dedotta nel
sinallagma a causa del rifiuto del datore di ricevere la prestazione stessa,
sino a quando, a seguito del provvedimento di reintegrazione del giudice,
non venga ripristinata la situazione materiale antecedente al licenziamento”
(Cass. 4.11.00 n. 14426).
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Può
affermarsi, dunque, che il licenziamento illegittimo, intimato a lavoratori
per i quali è applicabile la tutela cosiddetta reale, determina solo
un’interruzione di fatto del rapporto di lavoro, ma non incide sulla sua
continuità, assicurandone la copertura retribuiva e previdenziale, di modo
che “il recesso illegittimo non può valere ad escludere la debenza, dei
contributi previdenziali sulle retribuzioni dovute al lavoratore
reintegrato” (Cass. 1.3.05 n. 4261).
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La
continuità e la permanenza del rapporto giustifica l’irrogazione di un
secondo licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, ove basato su
una nuova e diversa ragione giustificatrice, dal quale solamente, in
mancanza di tempestiva impugnazione, deriverà l’effetto estintivo del
rapporto”.
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A tale
pronuncia ritiene il Collegio di dover dare continuità, condividendone
l’impostazione ed il contenuto, pervenendo quindi alla conclusione del
rigetto del secondo motivo di ricorso.
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La proposta
impugnativa non può pertanto trovare accoglimento, ed a tale pronuncia segue
la condanna della Banca ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che
si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
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La Corte
dichiara improcedibile il primo motivo di ricorso e rigetta il secondo;
condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio di
cassazione, che liquida in Euro 25,00 oltre Euro 3.000,00 (tremila) per
onorari, oltre spese generali, I.V.A. E C.P.A. Come per legge.
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Così deciso
in Roma, il 14 dicembre 2010.
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Depositato
in Cancelleria il 20 gennaio 2011
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