-
Il danno da violazione della personalità morale del lavoratore – ex art.
2087 c.c. - va risarcito anche se impropriamente qualificato dal ricorrente
(ma non riscontrato) come mobbing e a prescindere dalla ricorrenza
dell'animus nocendi datoriale
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Cass., sez. lav., 20 maggio 2008, n. 12735 - Pres. De Luca - Rel. Ianniello
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Comportamenti
mortificatori aziendali strutturanti giusta causa di dimissioni giudizialmente
accertate – Spettanza dell’indennità supplementare per i dirigenti – Richiesta
di addizionale indennizzo come danno da mobbing, in forma di danno biologico e
morale – Cassazione della sentenza della Corte d’Appello che lo ha negato in
ragione della carenza dell’intenzionalità aziendale – Irrilevanza della
qualificazione di “mobbing”, fenomeno vessatorio non tipizzato nell’ordinamento,
e risarcibilità comunque del danno per comportamenti aziendali lesivi della
personalità morale del prestatore, contrari all’art. 2087 c.c.,
indipendentemente dal dolo (o animus nocendi del vessatore) – Rinvio ad altra
Corte d’Appello.
-
-
Ritenendo il
mobbing un fenomeno unitario caratterizzato dalla reiterazione e dalla
sistematicità delle condotte lesive e dalla intenzionalità delle stesse in
direzione del risultato perseguito di isolamento ed espulsione della vittima dal
gruppo in cui è inserito, la Corte territoriale ne ha infatti escluso la
ricorrenza per l'assenza di tali caratteristiche di reiterazione, sistematicità
e intenzionalità delle condotte denunciate. Sennonché, il nostro Ordinamento
giuridico non prevede una definizione nei termini indicati di condotte
rappresentative del fenomeno mobbing, come un fatto pertanto tipico, a cui
connettere conseguenze giuridiche anch'esse previste in maniera tipicizzata. Ciò
che pertanto il ricorrente con l'espressione riassuntiva di mobbing riferita
alle condotte del datore di lavoro poste in essere nei suoi confronti aveva
sottoposto alla valutazione dei giudici di merito, ai fini del richiesto
risarcimento dei danni, era la violazione da parte di tali condotte, considerate
singolarmente e nel loro complesso, degli obblighi gravanti sull'imprenditore a
norma dell'art. 2087 c.c., da accertare alla stregua delle regole ivi stabilite
per il relativo inadempimento contrattuale, le quali prescindono dalla
necessaria presenza del dolo. Con l'erronea motivazione adottata, la Corte
territoriale ha pertanto omesso di valutare correttamente i fatti accertati, tra
quelli denunciati dal dirigente, nell'ambito della fattispecie ipotizzata di
inadempimento agli obblighi contrattuali stabiliti dall'art. 2087 c.c..
-
Concludendo, la
sentenza impugnata va annullata in relazione al ricorso accolto e nei limiti del
relativo accoglimento, con rinvio, anche per ciò che riguarda il regolamento
delle spese, alla Corte d'appello di Genova, che si atterrà alle regole
enunciate.
-
Svolgimento del
processo
-
Con sentenza
depositata in cancelleria il 5 luglio 2003, il Tribunale di Torino aveva
respinto integralmente le domande proposte da D.C.G. - assunto il primo
settembre 1990 dalla I. s.p.a. come dirigente con compiti di direttore generale
e dimessosi per giusta causa con lettera del 2 luglio 2001 - nei confronti della
propria datrice di lavoro, dirette ad ottenere la condanna di quest'ultima a
pagargli la somma di L. 59.144.000 a titolo di indennità sostitutiva di
preavviso illegittimamente trattenutagli, di L. 191.872.000 a titolo di
indennità sostitutiva del preavviso dovutagli ai sensi dell'art. 2119 c.c., di
L. 47.968.000 a titolo di retribuzioni per la durata garantita del rapporto fino
al 30 settembre 2001, di L. 157.284.870 a titolo di indennità integrativa che
sarebbe stata convenuta in rapporto alla quantità di rifiuti trattati ogni anno
dalla società, oltre a L. 150.000.000 a titolo di risarcimento del danno
derivato dalla dequalificazione operata dalla società e L. 182.105.000 a titolo
di risarcimento del danno biologico e morale subito a causa di una pratica di
mobbing posta in essere dalla datrice di lavoro nei suoi confronti.
-
Su appello del
D.C., la Corte d'appello di Torino, con sentenza depositata il 23 febbraio 2005,
in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha condannato la I. s.p.a. a
pagare al proprio ex direttore generale, la somma di Euro 129.638,00 - oltre
rivalutazione e interessi - a titolo di indennità sostitutiva del preavviso e di
restituzione delle somme trattenute dalla società per il medesimo titolo.
-
La Corte ha
invece confermato la sentenza di primo grado nella parte in cui questa aveva
rigettato le ulteriori domande del D.C..
-
Avverso tale
sentenza propone tempestivo ricorso per cassazione la I. s.p.a. articolato su
due motivi. Si oppone alle domande di cui al ricorso il D.C. con proprio rituale
controricorso, contenente altresì ricorso incidentale con un unico articolato
motivo. Resiste al ricorso incidentale la società con proprio controricorso.
Ambedue le parti hanno depositato memorie difensive.
Motivi della
decisione
-
I due ricorsi,
principale e incidentale, in quanto attinenti alla medesima sentenza, vanno
riuniti.
-
1
- Col primo motivo, la società ricorrente denuncia la violazione e la falsa
applicazione dell'art. 2119 c.c..
-
In proposito la
I. s.p.a. sostiene che la Corte territoriale avrebbe ravvisato la giusta causa
delle dimissioni unicamente sulla base dell'episodio del ritiro, nel febbraio
del 2001 - successivamente all'inizio di un periodo di assenza per malattia del
D.C. - dell'auto di servizio, delle carte aziendali di credito, etc. nonché
della revoca della firma sul conto corrente. E deduce che erroneamente la
medesima Corte ha affermato che tale fatto sarebbe avvenuto in prossimità
temporale rispetto alle dimissioni, che invece erano state presentate il 2
luglio 2001, dopo che il periodo di malattia era stato interrotto nel mese di
maggio, quando il D.C. aveva fruito di ferie e quindi era proseguito fino alla
data delle dimissioni. Poiché l'immediatezza delle reazione rappresenta un
elemento costitutivo della nozione di giusta causa, la Corte sarebbe incorsa nel
vizio denunciato di violazione della norma di cui all'art. 2119 c.c..
-
2
- Col secondo
motivo, la ricorrente deduce l'omessa, insufficiente e contraddittoria
motivazione su di un punto decisivo della controversia. Sostiene che
contraddittoriamente la sentenza, pur muovendo dalla corretta considerazione
della necessità di una valutazione unitaria delle diverse condotte asseritamene
vessatorie poste in essere dalla società ai danni del proprio direttore
generale, che ne aveva affermato la formazione progressiva e la natura
composita, avrebbe poi disatteso le stesse proprie premesse, incentrando la
motivazione su di un unico elemento di fatto (il ritiro delle carte aziendali e
della auto e la revoca della firma sul conto corrente aziendale), che per la sua
natura marginale e la posteriorità temporale rispetto a ben più gravi e numerose
condotte datoriali denunciate dal D. C. nel ricorso sarebbe inidoneo a dar
contezza del dedotto progressivo avveramento dell'emarginazione del dipendente.
Del resto la Corte, pur avendo affermato che i fatti posti dall'appellante a
sostegno delle domande sono pacifici e risultano dai documenti, sarebbe poi
giunta a negare le più importanti tra le condotte vessatorie e illecite
denunciate: quanto alla dequalificazione, alla disdetta dal contratto di
locazione, al licenziamento delle due impiegate, al mobbing. Inoltre, anche
l'affermazione della importanza del ritiro dell'auto etc. sarebbe apodittica e
non motivata, se non contraddittoriamente, in quanto la Corte territoriale non
avrebbe tenuto conto che, già alla fine di gennaio 2001, il D.C., avviando il
tentativo di conciliazione avanti alla direzione provinciale del lavoro col
denunciare, tra l'altro, un progressivo esautoramento, aveva praticamente
dimostrato di ritenere che il rapporto fosse già in crisi; da ciò i giudici di
merito avrebbero dovuto desumere che i fatti più importanti sul piano della
lesione del rapporto fiduciario erano quelli precedenti rispetto alla predetta
revoca, quelli che viceversa la Corte aveva ritenuto insussistenti o dei quali
aveva svalutato la rilevanza. In realtà la deduzione di una giusta causa di
dimissioni sarebbe stato solo un pretesto del D.C. per allontanarsi da una
società di cui non condivideva più le linee di politica industriale. Infine,
anche il fatto del ritiro delle carte di credito etc. era stato illogicamente
ritenuto lesivo della fiducia nei confronti del dirigente, mentre si trattava di
un comportamento giustificato, a fronte del fatto documentato di un uso
personale fattone dal D. C. nel periodo di malattia e non lesivo, dato che il
dirigente era in malattia e quindi impossibilitato ad usare tali strumenti ed
esercitare i relativi poteri. I due motivi possono essere trattati
congiuntamente proponendo questioni in parte connesse.
-
Anzitutto va
rilevato che non corrisponde al reale contenuto della sentenza, il fatto che
questa attribuisca alla responsabilità della società, tra i comportamenti
censurati dal dipendente, unicamente il ritiro delle carte aziendali e dell'auto
di servizio nonché la revoca della firma sul conto corrente bancario. Ancorché
attraverso una tecnica espositiva abbastanza sintetica, la Corte d'appello ha
infatti chiaramente riferito dell'avvenuto accertamento in giudizio di una serie
di condotte della società, poste in essere in progressione nell'ultima fase del
rapporto di lavoro, a partire dal gennaio 2000, lesive del ruolo e della dignità
professionale del proprio direttore generale, indicative della sopravvenuta
sfiducia nei suoi confronti, ritenendole giusta causa delle dimissioni.
-
In particolare,
si sarebbe trattato della disdetta pretestuosa del contratto di locazione dei
locali ove aveva sede la Direzione Generale con conseguente trasferimento della
stessa a (omissis), del licenziamento di due impiegate assunte dal D.C.,
valutato come irrispettoso delle competenze del Direttore generale, della
cessione, all'insaputa di questi, dell'impianto di (omissis) e soprattutto del
fatto, nella valutazione della Corte territoriale il più importante, anche
perché maggiormente prossimo alle dimissioni, dell'avvenuto ritiro al dirigente
nel febbraio 2001 della disponibilità di un'auto di servizio, della via-card,
telepass, bancomat e carte di credito aziendali e della successiva revoca della
firma sul conto corrente della società. Quello che la Corte ha viceversa escluso
è la dequalificazione e il mobbing, ambedue peraltro senza escludere
completamente i fatti al riguardo denunciati dal D.C., come si vedrà in sede di
esame del ricorso incidentale.
-
Non coglie
pertanto nel segno la censura di contraddittorietà della sentenza laddove
avrebbe attribuito rilevanza ad un fatto unico, svalutando fatti precedenti che
pure doveva ritenere i più importanti nell'ottica del dipendente, se nel gennaio
del 2001 questi aveva già attivato una procedura conciliativa lamentando
emarginazione e dequalificazione. La Corte territoriale, con motivazione al
riguardo incensurabile in quanto adeguatamente fondata sui fatti accertati in
giudizio e articolata secondo una struttura sufficientemente logica (sui limiti
del controllo di legittimità sulla motivazione della sentenza, che è
circoscritta alla verifica, attraverso il filtro di specifiche censure
provenienti dalla parte, della correttezza giuridica e coerenza logica della
stessa su punti ritenuti decisivi, cfr., per tutte, Cass. S.U. 11 giugno 1998 n.
5802 e, più recentemente, Cass., sez. lav. 6 marzo 2006 n. 4770 e Cass. sez. 1^,
26 gennaio 2007 n. 1754), ha quindi colto in questa progressione dei
comportamenti accertati, culminati in quello ritenuto come il più grave, perché
segno di sfiducia estrema, di vero e proprio vulnus alla dignità del direttore
generale della società, le ragioni fondanti delle dimissioni. Una tale
valutazione è anzitutto censurata dalla società con la deduzione che la Corte
territoriale non avrebbe rilevato la tardività della reazione del D.C. rispetto
al verificarsi dei comportamenti aziendali che l'avrebbero provocata, in
violazione del principio di immediatezza che connota la giusta causa anche delle
dimissioni, quale causa che non consente neppure provvisoriamente la
prosecuzione del rapporto di lavoro (su cui cfr., tra le scarse pronunce che
riguardano alle dimissioni per giusta causa, Cass. 15 maggio 1980 n. 3222).
-
Va in proposito
osservato che non risulta dalle dichiarazioni del ricorso che una tale deduzione
abbia costituito oggetto di specifica articolazione in fatto (ad es. con la
deduzione oggi formulata secondo cui la malattia non avrebbe impedito
l'immediata reazione in quanto interrotta da un periodo di ferie) nell'ambito
delle tesi difensive sviluppate nei due gradi del giudizio di merito dalla
società e pertanto la stessa dovrebbe ritenersi tardiva. In ogni caso, in una
situazione processuale siffatta, deve ritenersi che la Corte territoriale,
accertato che il dirigente era assente per malattia dalla fine del mese di
gennaio 2001 e ritenendo che l'assenza, come dichiarato dallo stesso in ricorso,
fosse durata fino alla data delle dimissioni, abbia implicitamente valutato, con
giudizio di fatto incensurabile in cassazione, che la piena presa di coscienza e
valutazione della portata del comportamento in progresso della società sul piano
della permanenza del rapporto di lavoro fosse stata ragionevolmente ritardata
dallo stato di malattia del D. C. (per una valutazione di tal genere,
nell'ambito del principio più volte affermato per cui tale tempestività deve
essere intesa in senso relativo, cfr. Cass. 15 giugno 1977 n. 2485).
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Ne consegue che
non solo la sentenza impugnata ha interpretato correttamente la norma di cui
all'art. 2119 c.c., ma ne ha fatto corretta, adeguata applicazione al caso
considerato. Inoltre, la società deduce che i fatti accertati e valutati dalla
Corte come giusta causa di dimissioni non sarebbero stati tali da indurre il
dipendente alle dimissioni con effetto immediato. La deduzione è in parte
fondata sull'erroneo convincimento che la Corte abbia negato la effettiva
verificazione dei fatti denunciati o la lesività degli stessi sul piano della
dignità e della professionalità del D.C., salvo per ciò che riguarda il ritiro
delle carte aziendali, della autovettura e la revoca della firma sul conto
corrente bancario, comportamento che comunque la ricorrente ritiene, come prima
enunciato, giustificato e non lesivo.
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Per il resto,
la censura si traduce unicamente nel tentativo di una diversa valutazione degli
elementi emersi in giudizio, con riguardo a tutti i comportamenti che la
sentenza ha giudicato lesivi con argomentazioni giuridicamente corrette e prive
di salti logici su snodi decisivi della vicenda. Inoltre, per sostenere la
valutazione di opportunità e giustificatezza del ritiro delle carte e della
macchina, la società introduce genericamente l'argomento di un abuso che il
dipendente avrebbe al riguardo commesso, senza specificare di che si tratti, con
la dettagliata descrizione dei fatti e pertanto in maniera inammissibile.
-
Infine, appare
fuori luogo il rilievo che la misura adottata nel febbraio 2001 era anche poco
rilevante perché il dipendente in malattia non avrebbe comunque potuto
utilizzare le carte, usare l'autovettura, firmare assegni di c.c.. In proposito,
va infatti rilevato che la Corte ha riconosciuto a tale comportamento una
incidenza infine decisiva sul piano delle dimissioni in ragione della sua
sostanziale concomitanza con l'inizio dell'assenza per malattia del D.C., del
quale in quel momento era prevedibile, sulla base della prognosi nota, il
prossimo rientro in servizio e quindi massimamente espressiva, oltre che di
disistima nei suoi confronti, anche di assoluta sfiducia in ordine alla
correttezza e correntezza futura del rapporto.
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Concludendo,
sulla base delle considerazioni svolte, il ricorso principale è infondato e va
respinto. Col ricorso incidentale, il D.C. deduce l'illogicità e
contraddittorietà della sentenza impugnata con riferimento agli artt. 2103 e
2087 c.c. nonché agli obblighi contrattuali assunti dalla società nella lettera
di assunzione.
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In particolare,
la Corte d'appello di Torino, pur riconoscendo che la posizione del ricorrente
incidentale, di direttore generale, era stata progressivamente e fortemente
ridimensionata in termini decisionali a seguito della modifica degli organi
societari (gennaio 2000, con la nomina a Presidente del c.d.a. del dott. R.) e
avendo accertato la serie di comportamenti denunciati, che avevano creato per
il ricorrente un ambiente ostile, contraddittoriamente avrebbe assolto la
società dalle domande di risarcimento del danno da dequalificazione nonché del
danno biologico e morale subito a causa di una pratica di mobbing, sulla base
dell'erroneo assunto che sarebbe stato necessario per la realizzazione degli
illeciti denunciati l'animus nocendi da parte del datore di lavoro. Il
vizio di motivazione riguarderebbe infine anche il diniego della cd. indennità
integrativa, operato sulla base dell'erroneo presupposto che le parti dopo
averlo concordato, avessero poi raggiunto un accordo per non ritenere più
operante un siffatto impegno.
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Il ricorso è
parzialmente fondato.
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E' infondato
nella censura relativa al mancato riconoscimento del danno da dequalificazione
professionale, in quanto il rigetto non è stato al riguardo conseguente
all'accertamento di assenza di animus nocendi della società, ma è stato
motivato con la considerazione - non censurata dal ricorrente incidentale - che,
cessate le mansioni in precedenza svolte nell'ultimo periodo dal dirigente, per
esaurimento del relativo oggetto, la società non aveva potuto provvedere ad
assegnargli nuovi equivalenti compiti, in ragione della sua assenza per malattia
prolungata fino alle dimissioni. Una analoga sfasatura tra motivo di appello e
contenuto della sentenza è verificabile sul punto relativo alla c.d. indennità
integrativa, che secondo la sentenza impugnata non sarebbe stata corrisposta in
ragione del fatto che alla generica previsione di una indennità siffatta nel
contratto di assunzione, con rinvio a singoli accordi successivi tra le parti
per la concreta determinazione della stessa, era seguito un solo accordo che
aveva coperto unicamente il periodo fino al 31 dicembre 1994. Appare viceversa
fondata la censura relativa al difetto di motivazione, in rapporto alla
disciplina di cui all'art. 2087 c.c., quanto al rigetto della domanda di
"risarcimento del danno biologico e morale subito a causa del mobbing" (pag. 3
in fine della sentenza impugnata).
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Ritenendo il
mobbing un fenomeno unitario caratterizzato dalla reiterazione e dalla
sistematicità delle condotte lesive e dalla intenzionalità delle stesse in
direzione del risultato perseguito di isolamento ed espulsione della vittima dal
gruppo in cui è inserito, la Corte territoriale ne ha infatti escluso la
ricorrenza per l'assenza di tali caratteristiche di reiterazione, sistematicità
e intenzionalità delle condotte denunciate. Sennonché,
il nostro Ordinamento giuridico non prevede una definizione nei termini
indicati di condotte rappresentative del fenomeno mobbing, come un fatto
pertanto tipico, a cui connettere conseguenze giuridiche anch'esse previste in
maniera tipicizzata. Ciò che pertanto il ricorrente con l'espressione
riassuntiva di mobbing riferita alle condotte del datore di lavoro poste in
essere nei suoi confronti aveva sottoposto alla valutazione dei giudici di
merito, ai fini del richiesto risarcimento dei danni, era la violazione da parte
di tali condotte, considerate singolarmente e nel loro complesso, degli obblighi
gravanti sull'imprenditore a norma dell'art. 2087 c.c., da accertare alla
stregua delle regole ivi stabilite per il relativo inadempimento contrattuale,
le quali prescindono dalla necessaria presenza del dolo. Con l'erronea
motivazione adottata, la Corte territoriale ha pertanto omesso di valutare
correttamente i fatti accertati, tra quelli denunciati dal dirigente,
nell'ambito della fattispecie ipotizzata di inadempimento agli obblighi
contrattuali stabiliti dall'art. 2087 c.c..
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Nei limiti
indicati, il ricorso incidentale è fondato e va quindi accolto.
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Concludendo, la
sentenza impugnata va annullata in relazione al ricorso accolto e nei limiti del
relativo accoglimento, con rinvio, anche per ciò che riguarda il regolamento
delle spese, alla Corte d'appello di Genova, che si atterrà alle regole
enunciate.
P.Q.M.
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La Corte
riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale e accoglie, per quanto di
ragione, quello incidentale. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo
accolto e rinvia anche per le spese alla Corte d'appello di Genova.
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Depositato in
Cancelleria il 20 maggio 2008
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In tema
di cd. mobbing e sulla prassi di far giustizia... con lo sconto
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1. Il 20
maggio 2008 la sezione lavoro della Cassazione, con il n. 12735, ha emesso
una importante decisione, sulla quale di seguito ci intratterremo,
delineando preliminarmente la vicenda da cui è scaturita.
-
Il
Direttore Generale di un’azienda torinese – facente parte di un Gruppo – ad
un certo momento e per ragioni poco comprensibili cade in disgrazia. I
vertici aziendali iniziano un’opera di emarginazione con la tecnica di
bypassarlo, di non invitarlo alle riunioni, esautorandolo nelle decisioni
aziendali e nei poteri di pertinenza; il direttore generale imputa
all’azienda una dequalificazione e intraprende una vertenza convocando,
senza esiti, i rappresentanti aziendali presso la commissione di
conciliazione della DPL; i vertici aziendali progressivamente provvedono a
spostargli la sede di lavoro, a licenziare (per esubero di personale o
soppressione di posizione di lavoro) due addette del di lui ufficio da
questi fiduciariamente assunte, e – come avviene in simili situazioni di
disagio da ambiente ostile – il direttore generale cade in malattia da
sindrome depressiva. Durante la medesima gli viene revocata l’auto di
servizio, il via card, il bancomat, la firma sul conto corrente bancario.
Percependo pacificamente di essere stato sfiduciato senza alcuna
motivazione, alla fine della malattia rassegna con immediatezza le
dimissioni per giusta causa ex art. 2119 c.c. e inizia una
rivendicazione legale. L’azienda, disconoscendo la giusta causa di
dimissioni, trattiene dalle spettanze di fine rapporto l’indennità di
mancato preavviso. Nella vertenza, pertanto, il dirigente rivendica: a) la
corresponsione dell’indennità di supposto mancato preavviso trattenutagli
dal tfr, l’indennità di preavviso per dimissioni per giusta causa ex
art. 2119 c.c. (o ex art. 16 ccnl per i dirigenti d’industria
dimessisi per cd. mutamento sostanziale di posizione), l’annuale premio di
risultato (cd. indennità integrativa), il danno da dequalificazione, il
danno biologico e morale conseguente ad una asserita pratica di mobbing
aziendale.
-
Il
tribunale di Torino, in primo grado, rigetta integralmente il ricorso; adita
la Corte d’Appello, questa riscontra sussistente la giusta causa di
dimissioni, imponendo all’azienda la corresponsione di quanto trattenuto dal
tfr ed il versamento della consistente indennità di preavviso, tuttavia
nega la dequalificazione in quanto la ricerca di nuove mansioni sarebbe
stata oggettivamente impedita dalla caduta in malattia del dirigente; nega
altresì la sussistenza di una strategia persecutoria idonea – per carente
reiterazione, sistematicità e intenzionalità vessatoria delle plurime
condotte aziendali – a legittimare il risarcimento dei danni biologico e
morale da cd. mobbing.
-
-
2.
L’azienda non paga di una simile soluzione giudiziale “transattiva” (giacché
a fronte dell’aliquid datum dalla magistratura al ricorrente c’è
anche il cd. aliquid retentum a favore della convenuta, in forma di
esenzione dal risarcimento danni da dequalificazione e da condotte
mortificanti e vessatorie, condensate dal ricorrente nella dizione
sociologica d’uso, “mobbing”), ricorre in Cassazione e qui riceve la
classica “lezione”.
-
La
Cassazione non solo riconferma la pacifica sussistenza della giusta causa di
dimissioni, sottraendo l’accertamento operato dalla Corte d’Appello
torinese, sul punto specifico, a qualsiasi vizio di motivazione, in quanto
giudica la condotta aziendale
“massimamente espressiva, oltre che di disistima nei confronti del direttore
generale, anche di assoluta sfiducia in ordine alla correttezza e
correntezza futura del rapporto”, ma - salvo
non riconoscere il danno da dequalificazione in ragione della sopravvenuta
malattia che l’ha reso temporalmente residuale e poco percettibile -
sconfessa la Corte d’Appello di Torino in ordine alla irrisarcibilità del
danno biologico e morale da comportamenti vessatori, lesivi della
personalità morale ex art. 2087 c.c. e rinvia per un esame di
riscontro, esente dai vizi argomentativi e concettuali della Corte torinese,
alla Corte d’Appello di Genova.
-
La
motivazione della Corte torinese in ordine al diniego dei danni da cd.
mobbing è espressamente qualificata erronea.
-
Erronea
perché la Corte – a fini di negazione – si è autoconfezionata (o ha
recepito) una nozione maldestra e stereotipata del mobbing che incontra il
condivisibile dissenso della Cassazione, nella misura in cui ha
inopinatamente addizionato alle caratteristiche della lesività (sistematica, reiterata e non sporadica o episodica) delle condotte quello
della cd. intenzionalità o finalizzazione intenzionale di nuocere alla
vittima, in fattispecie non riscontrata dalla Corte di merito. Cioè a dire,
vi ha addizionato il requisito penalistico del dolo o animus nocendi
o cd. elemento soggettivo/psicologico, del tutto pertinente in ambito
penalistico ma nient’affatto necessario, anzi del tutto estraneo all’ambito
della responsabilità civile di natura contrattuale, sufficiente essendo
l’elemento colposo.
-
E’
da tempo che la Corte d’Appello Torino, in tema di mobbing, ricorre alle
argomentazioni che di seguito riproduciamo: «(…) stando ai contributi
scientifici più accreditati ma anche all'orientamento oramai prevalente
della giurisprudenza, risulta essere la definizione comune del mobbing/bossing
(o mobbing datoriale), quella per cui deve
essere inteso come una situazione
lavorativa di conflittualità sistematica, persistente
e in costante progresso, in cui una persona viene fatta oggetto da parte
del datore di lavoro, o dei suoi
preposti, di azioni di alto contenuto persecutorio, con lo scopo di
causare alla vittima danni di vario tipo e gravità e con la
conseguenza che il mobbizzato si trova nella impossibilità di reagire
adeguatamente a tali attacchi e, a lungo andare, accusa disturbi
psicosomatici, relazionali e
dell’umore che possono portare anche a invalidità psicofisiche permanenti.
È opinione comune, inoltre, che è onere del lavoratore provare in
modo rigoroso che il datore di lavoro ha
posto in essere nei suoi confronti una
precisa strategia persecutoria,
attraverso una serie ripetuta di comportamenti materiali finalizzati
ad espellerlo dall'ambiente di lavoro». Mobbing che non sarebbe
ravvisabile – sempre secondo la Corte d’Appello di Torino - se «i
comportamenti del datore di lavoro sono comunque privi di carattere
vessatorio o persecutorio (...), e se nei confronti degli stessi non è
ravvisabile il carattere della ripetitività (...)». In concreto,
prosegue sempre la Corte d’appello torinese, «non è sufficiente
a costituire mobbing una situazione conflittuale nei rapporti interpersonali, essendo invece necessario che esista una condotta vessatoria,
reiterata e duratura, finalizzata
all'isolamento del lavoratore nel proprio contesto lavorativo ovvero
alla sua estromissione dall'azienda e che l’effetto di tali soprusi
provochi nel soggetto mobbizzato uno stato di disagio psichico e l’insorgere
di un danno alla salute, non dovendosi per vero dimenticare che la
norma alla quale occorre fare riferimento
è l’art. 2087 cod. civ. e che, pertanto, è necessario
dimostrare che il datore di lavoro è
venuto meno all'obbligo di tutelare la salute psico-fisica del
proprio dipendente (...)». Ciò in quanto «in assenza di una
definizione legislativa del mobbing e di una tutela specifica della vittima,
la scienza psichiatrica prima e la dottrina giuslavoristica e la
giurisprudenza poi si sono
occupate dell’elaborazione dei tratti caratteristici del mobbing e a tale
elaborazione occorre
necessariamente riferirsi nel valutare la fattispecie oggetto di
causa»(così, C.
App. Torino, Sez. lav., 27 maggio 2005, inedita, e conf. C. App. Torino,
Sez. lav., 14 luglio 2004, inedita; porzioni di sentenze entrambe tratte dal
volume curato da C. Parodi – con la collaborazione di R. Sanlorenzo,
consigliere della sezione lavoro della C. d’Appello di Torino - Mobbing,
Il sole 24 Ore, 2007, 65 e ss.).
-
Stavolta, a quanto leggiamo dal resoconto della motivazione fornitoci dalla
Cassazione nella decisione n. 12735/08 in commento, la Corte d’Appello deve
essere stata più esplicita ed incisiva nel postulare l’esigenza del
riscontro del requisito dell’intenzionalità o dolo, acclarabile in capo al
vessatore, requisito che
Trib. Bari, 20.2./12.3.2004 (est. Rubino), in D&G n. 15/2004,
ha addirittura enfatizzato con l’aggettivo “indefettibile” a fini di
diniego, incontrando a suo tempo il nostro deciso dissenso. Con la
conseguenza che quando il ricorrente non lo dimostri (invero dopo le prime
decisioni la pretesa è oramai stata lasciata cadere, nella consapevolezza
che non si può onerare la vittima di provare ciò che sta nella mente del
vessatore) o obbiettivamente non appaia possibile il riscontro da parte del
magistrato in ragione delle caratteristiche delle condotte, il vessatore va
esente da responsabilità risarcitorie ed il ricorrente se ne torna a casa
con “le pive nel sacco”.
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Chi scrive da tempo ha evidenziato
diffusamente l’erroneità della richiesta del suddetto requisito psicologico
o soggettivo, al fine di sottrarre all’obbligo di risarcibilità l’autore di
una condotta contrattualmente e oggettivamente inadempiente e lesiva
dell’art. 2087 c.c. (che fa obbligo al datore di tutelare anche la
personalità morale del prestatore) nonché dell’art. 2103 c.c. (quando
ricorra congiuntamente la dequalificazione).
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Ci siamo spesi in articoli e in capitoli di
volumi (cfr. da ultimo il nostro, Il rapporto di lavoro in azienda,
Ediesse, Roma 2008, p. 108 e ss.) nel tentare di far percepire e recepire
quanto segue:
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«In
ordine al riscontro dell’elemento soggettivo o teleologico della
finalizzazione degli atti persecutori o vessatori, riteniamo – in contrasto
con chi si ostina, anche in sede giudiziale, per tale riscontro con onere
probatorio a carico del mobbizzato e non già semmai per una emersione dagli
atti istruttori – che tale riscontro non sia affatto necessario, essendo
sufficiente a strutturare la fattispecie non già la finalizzazione quanto la
«idoneità» dei comportamenti a ledere oggettivamente la dignità, immagine e
reputazione professionale del lavoratore. Sul punto non può che convenirsi –
non già in generale, ma sullo specifico aspetto – con quella dottrina (A.
Vallebona, Il mobbing senza veli, in DRI, 4/2005, 1052 e ss.,
concetto ripetuto dall’autore in Mobbing: qualificazione, oneri probatori
e rimedi, in MGL 2006, 9) che
al riguardo ha evidenziato come: “L’idea di valorizzare l’elemento
soggettivo della condotta lesiva, non solo, come si vedrà, è incompatibile
col diritto vigente, ma condizionerebbe ogni tutela alla difficile prova di
tale elemento. Quello che conta, invece, è la oggettività della condotta,
come è stato già chiarito per le discriminazioni e per il comportamento
antisindacale”, da Cass., Ss.Uu., 12 giugno 1997 n. 5295 (da
noi commentata in D&L 1998, nell’articolo Irrilevanza
dell’intenzionalità nella condotta antisindacale, ivi 1998,
293)». Tale
decisione aveva al riguardo risolto una divergenza di opinioni in seno alle
sezioni semplici della Cassazione – in tema di condotta antisindacale – in
questi termini: «Per integrare gli estremi della condotta
antisindacale di cui all’art. 28 dello Statuto dei lavoratori (l. n. 300 del
1970) è sufficiente che tale comportamento leda oggettivamente gli interessi
collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali, non essendo
necessario (ma neppure sufficiente) uno specifico intento lesivo da parte
del datore di lavoro né nel caso di condotte tipizzate […], né nel caso di
condotte non tipizzate ed in astratto lecite, ma in concreto oggettivamente
idonee, nel risultato, a limitare la libertà sindacale, sicché ciò che il
giudice deve accertare è l’obiettiva idoneità della condotta denunciata a
produrre l’effetto che la disposizione citata intende impedire, ossia la
lesione della libertà sindacale e del diritto di sciopero».
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Nello
stesso senso, autorevolmente da altra dottrina, è stato detto: «Anche la
finalità di allontanare o escludere il lavoratore dal posto di lavoro non
può considerarsi un requisito presente in ogni pratica di mobbing; non è, in
altri termini, necessario, o comunque rilevante, il “dolo specifico”»
(S.
Banchetti, Mobbing, danni alla persona del lavoratore e strumenti di
tutela, in www. personaedanno.it, 2005, 5; S. Banchetti, Il
mobbing, in Trattato breve dei nuovi danni, a cura di P. Cendon,
Cedam, Milano 2001, 2082; H. Ege, nota critica a Trib. Como, 22.5.2001, in
LG., 2002, 76; M. Pedrazzoli – a cura di – Vessazioni e angherie
sul lavoro, Zanichelli, Bologna 2007, 28 e ss., secondo cui «l’intento
persecutorio della condotta non occorre ma può giovare per andare oltre il
danno prevedibile»).
Del tutto confermativamente, C. Cardarello
(Il
mobbing e il risarcimento del danno: quando le sentenze anticipano le norme,
in D&G, n. 9, 2005, 55)
secondo
cui: «Ancorare la sussistenza del mobbing alla contemporanea esistenza
dell’elemento doloso sembra profondamente errato, giacché ciò che deve
rilevare, pur in presenza di un comportamento colposo, è l’oggettività del
fatto, o dei fatti, costituenti compressione della sfera professionale e
personale del lavoratore, dovendosi semmai ritenere che il profilo doloso
possa, anzi debba, costituire un elemento aggravante la responsabilità del
mobber in termini risarcitori».
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L’alternativa tra concezione cd. «soggettiva» – per la quale verrebbe in
rilievo l’elemento psicologico, il dolo generico o specifico – e la cd.
concezione «oggettiva» (che noi sosteniamo), è stata esaminata anche da R.
Scognamiglio, che lo ha portato in due saggi (A
proposito di mobbing,
in RIDL 2004, I, 503-505 e in Mobbing: profili civilistici e
giuslavoristici, in MGL 2006, 5)
ad una chiara opzione per la tesi «oggettiva» asserendo, nell’ultimo
articolo sul tema, che: «A mio avviso, la teoria che attribuisce rilevanza
all’elemento soggettivo si espone all’obiezione, e fa correre il rischio di
restringere l’ambito di operatività del mobbing, implicando la difficile
verifica della intenzione del trasgressore. Laddove appare sufficiente per
la ricorrenza, e la rilevanza del fenomeno che la sequenza di atti e
comportamenti contrastanti con gli interessi e le esigenze del lavoratore
assuma una valenza persecutoria, in cui risulta implicito, per tagliare
corto alla questione, il perseguimento di una finalità illecita». Lo stesso
accademico, nel precedente saggio, in senso conforme, affermava con altre
parole che: «A ben vedere l’alternativa tra le concezioni soggettiva ed
oggettiva del mobbing costituisce frutto di una considerazione astratta del
fenomeno, che poco contribuisce, seppure non risulta fuorviante, alla sua
corretta configurazione. In effetti la distinzione, che si propone, tra
motivo discriminatorio o vessatorio e l’aspetto soggettivo della condotta
individuato nel dolo o nella colpa, induce ad identificare l’elemento
soggettivo nella finalità illecita della condotta illegittima, riconducibile
piuttosto alla componente obiettiva della condotta medesima».
-
Sul punto
specifico – tra le diverse decisioni giurisprudenziali – si è pronunciato
abbastanza recentemente Tar del Lazio, III sez. bis, 12.1/5.4.2004
(est. Arzillo, inedita), che ha opposto alla pretesa di condizionare il
mobbing al riscontro del requisito dell’intenzionalità, tali condivisibili
argomentazioni: «Al riguardo va precisato che questo intento persecutorio
non va configurato in termini eccessivamente soggettivistici: il Tribunale,
discostandosi da un orientamento giurisprudenziale (Trib. Como, 22 febbraio
2003, in MGL 2003, 328), ritiene che non sia comunque necessario
indagare nella loro interezza i motivi che sono a base dell’intento
persecutorio, essendo sufficiente attenersi ai caratteri oggettivi della
condotta (ripetitiva, emulativa, pretestuosa e quindi oggettivamente
vessatoria e discriminatoria), ai fini di poter considerare dolosi i
comportamenti lamentati (in questo senso cfr. Trib. Milano, 20 maggio 2000,
in LG 2001, 367). Risultano quindi inconferenti le deduzioni della
difesa (…), secondo cui la vicenda presupporrebbe una ricostruzione in
chiave penalistica, con le connesse conseguenze sia in ordine
all’interruzione del cd. “nesso di occasionalità necessaria”, sia in ordine
alla necessità di rilevare la sussistenza di un disegno criminoso
puntualmente preordinato e coordinato in danno dell’odierna ricorrente.
Siffatto ordine di idee è del tutto improprio in questa sede».
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Anche nei
recenti lavori parlamentari per l’eventuale emanazione di una disciplina
legislativa del mobbing, si è assistito a nutriti emendamenti tesi a
sostituire termini teleologici del d.d.l. unificato in discussione quali
«comportamenti finalizzati» o «tesi a», con terminologia oggettivante
espressa dagli aggettivi «idonei» o «atti a» ledere la personalità morale
del lavoratore (in analogia con la formulazione antidiscriminatoria
dell’art. 15 Stat. lav., in cui è reperibile la dizione «diretto a»).
Perché, come ha insegnato il precedente delle Sezioni Unite in tema di
condotta antisindacale, quello che rileva è l’idoneità oggettiva ad arrecare
pregiudizio e non si vede per quale ragione in tale tematica –
caratterizzata da lesioni di diritti maggiormente protetti in quanto
riconducibili nell’ambito degli «inviolabili» dell’individuo – ci si debba
discostare, in omaggio a incomprensibile tolleranza, suscettibile di
risultare ostativa nei confronti di una auspicabile deterrenza alla
reiterazione di una forma patologica di concepire ed affrontare i rapporti
interpersonali nell’ambiente di lavoro.
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3.
La Cassazione – in questa egregia decisione - dimostra di condividere la
nostra stessa (e tutt’altro che isolata, in dottrina) impostazione.
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Afferma
incisivamente e correttamente la Cassazione: «Ritenendo il mobbing un
fenomeno unitario caratterizzato dalla reiterazione e dalla sistematicità
delle condotte lesive e dalla intenzionalità delle stesse in direzione del
risultato perseguito di isolamento ed espulsione della vittima dal gruppo in
cui è inserito, la Corte territoriale (torinese, ndr)
ne ha escluso la ricorrenza per l'assenza di tali caratteristiche di
reiterazione, sistematicità e intenzionalità delle condotte denunciate.
Sennonché, il nostro Ordinamento giuridico non prevede una definizione nei
termini indicati di condotte rappresentative del fenomeno mobbing, come un
fatto pertanto tipico, a cui connettere conseguenze giuridiche anch'esse
previste in maniera tipicizzata. Ciò che pertanto il ricorrente con
l'espressione riassuntiva di mobbing riferita alle condotte del datore di
lavoro poste in essere nei suoi confronti aveva sottoposto alla valutazione
dei giudici di merito, ai fini del richiesto risarcimento dei danni, era la
violazione da parte di tali condotte, considerate singolarmente e nel loro
complesso, degli obblighi gravanti sull'imprenditore a norma dell'art. 2087
c.c., da accertare alla stregua delle regole ivi stabilite per il relativo
inadempimento contrattuale, le quali prescindono dalla necessaria presenza
del dolo. Con l'erronea motivazione adottata, la Corte territoriale ha
pertanto omesso di valutare correttamente i fatti accertati, tra quelli
denunciati dal dirigente, nell'ambito della fattispecie ipotizzata di
inadempimento agli obblighi contrattuali stabiliti dall'art. 2087 c.c.».
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La
motivazione del diniego risarcitorio da parte della Corte d’Appello di
Torino viene quindi espressamente qualificata erronea.
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Quello che
ne esce come lezione per avvocati e ricorrenti è che nei ricorsi non
andrebbe mai menzionato o enfatizzato il termine sociologico “mobbing” - per
non imbattersi in rifiuti da parte di magistrati comodamente ancorati a
fattispecie sociologiche di incerta o controversa configurazione - ma le
richieste risarcitorie di danno da vessazioni, mortificazioni e persecuzioni
vanno avanzate in quanto inadempimento agli obblighi contrattuali di tutela
della personalità morale sanciti nell’art. 2087 c.c. Quantomeno fintanto che
non vi sarà una legge che giuridicizzi, correttamente, la nozione di
mobbing.
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Infine ci
piace leggere la decisione della Cassazione anche per quello che non dice
espressamente e che auspichiamo abbia voluto perlomeno lasciar intendere.
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Confermando gli indennizzi da dimissioni per giusta causa liquidati dalla
Corte d’Appello di Torino ed accrescendoli al momento virtualmente (in
ragione della loro concreta implementazione ad opera della Corte di rinvio,
designata ad applicare le statuizioni di principio asserite) per effetto del
parziale accoglimento dell’appello incidentale del ricorrente in ordine al
risarcimento del cd. mobbing (correttamente inteso), l’attuale decisione
contrasta e scoraggia di fatto quella prassi su cui si adagia molta nostra
magistratura di merito quando nel decidere una controversia in cui talora il
lavoratore ha ragione al 100% fa giustizia con lo sconto… all’insegna del
“prego, s’accontenti!”. E’ una prassi che riscontriamo troppo spesso, che
finisce per essere altamente irrispettosa oltreché massimamente irritante e
che dà corpo alla cd. “giustizia” transattiva, ben lungi dall’essere vera
giustizia, ma compromesso mercantile realizzato in una sede e da una
struttura istituzionale a ben altro deputata.
Roma, 6 giugno 2008
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