DEQUALIFICAZIONE DA LOTTIZZAZIONE POLITICA

 

Cass. sez.  lav., 16 dicembre 1992, n. 13299 - Pres.  Benanti - Rel.  Aliberti - Moratti c. Rai.

 

Dequalificazione - Lottizzazione politica - Lesione della reputazione e identità personale del dipendente Danno patrimoniale - Danno alla vita di relazione.

 

L'illegittima condotta del datore di lavoro, che a seguito della lottizzazione (pratica spartitoria dei posti e dei ruoli professionali affermatasi nell'ente radioteleviso pubblico e fondata sulla distinzione dei dipendenti non sulla base della loro reputazione, bensì in base a criteri di appartenenza a determinate aree politiche) abbia determinato una grave dequalificazione professionale del dipendente, con l'assegnazione a quest'ultimo di un incarico inconsistente, rende risarcibile non solo il pregiudizio per la perdita di professionalità, ma anche quello conseguente alla lesione della sua reputazione e identità personale.

 

Svolgimento del processo. - Il Tribunale di Roma con sentenza 26 aprile - 16 ottobre 1990 rigettava l'appello proposto da Enrico Moratti avverso la sentenza 27 marzo 1986 del Pretore di Roma, avverso la sentenza 27 marzo 1986 del Pretore di Roma, che aveva rigettato la domanda con la quale il Moratti aveva chiesto la condanna della RAI - Radiotelevisione Italiana - al risarcimento del danno in misura non inferiore a L. 200.000.000 o nel diverso importo ritenuto di giustizia, oltre gli interessi di legge e rivalutazione monetaria.

Nello « svolgimento del processo » contenuto nella sentenza qui impugnata emerge, tra l'altro, che: con ricorso del 27 aprile 1984 Moratti Enrico premesso di aver lavorato dal gennaio 1983 come giornalista alle dipendenze della RAI, di aver ricoperto da ultimo le mansioni di vice direttore del giornale radio 3; che nella seduta del 13 gennaio 1983 il consiglio di amministrazione della RAI aveva deliberato un nuovo assetto degli incarichi presso le testate giornalistiche, applicando criteri diretti a rispecchiare nella ripartizione delle cariche l'influenza di vari partiti politici; che, in conseguenza del nuovo assetto, alla vice direzione del GR3 erano stati chiamati due giornalisti appartenenti ad aree politiche diverse da quella cui avrebbe aderito il ricorrente e quest'ultimo era stato nominato «assistente del direttore del dipartimento radiotelevisivo delle trasmissioni scolastiche ed educativi per adulti, con l'incarico, in particolare, di seguire lo sviluppo dei sistemi educativi o scolastici dei paesi europei a scopo di ricerca, documentazione, ideazione e produzione di programmi»; che, peraltro, tali mansioni non comportavano lo svolgimento di alcuna attività giornalistica, né di incarichi direttivi o di poteri direzionali; di essere stato costretto all'inattività, per mancanza di lavoro da svolgere, e senza prospettiva alcuna di concreto impiego in mansioni proprie della sua qualifica; di essersi rivolto al Pretore di Roma per ottenere, in via di urgenza, la reintegrazione nelle mansioni di vice direttore del GR3 o in altre mansioni equivalenti a quella di vice direttore di testata giornalistica e, nel merito, la declaratoria di nullità della predetta delibera del consiglio di amministrazione della RAI e dell'ordine di servizio con il quale era stato destinato a mansioni diverse da quelle di vice direttore di testata giornalistica, con la condanna della Rai ad adibirlo a mansioni di vice direttore o equivalenti ed al risarcimento del danno in misura da determinarsi in separato giudizio; che il Pretore adito con ordinanza ex art. 700 c.p.c. in data 18 aprile 1983 aveva disposto la reintegrazione del ricorrente nelle mansioni di vice direttore di testata giornalistica o in altre equivalenti, di natura giornalistica; che lo stesso Pretore con sentenza del 21 giugno 1984 aveva accolto la domanda attrice; che la RAI non aveva dato esecuzione né all'ordinanza ex art. 700 c.p.c. né alla sentenza del 21 giugno 1984; in quanto, pur reintegrando il ricorrente nella redazione del GR3 non gli aveva restituito le mansioni di vice direttore e lo aveva fatto lavorare senza poteri né incarichi speciali; che da tale comportamento gli era derivato grave danno, anche non patrimoniale, in quanto: a) l'immotivata rimozione dell'incarico di vice direttore del GR3 aveva assunto agli occhi della collettività significato di apprezzamento negativo per l'attività da lui svolta in esecuzione di tale incarico; b) la privazione delle mansioni giornalistiche e dell'incarico direttivo aveva comportato grave dequalificazione professionale, con conseguente pregiudizio per la possibilità di carriera e deterioramento dell'immagine del ricorrente; c) il brusco allontanamento dall'attività giornalistica, l'attribuzione di un incarico inconsistente, il tardivo reinserimento nella redazione del GR3 in posizione subalter-na erano stati causa per il ricorrente di non lieve sofferenza; tanto premesso, ha chiesto la condanna della R-Al al risarcimento dei danni da determinarsi in misura non inferiore a L. 200 milioni o nel diverso importo ritenuto di giustizia, oltre interessi di legge e rivalutazione monetaria.

Avverso al sentenza del Tribunale di Roma 16 ottobre 1990 ha proposto ricorso il Moratti con un unico mezzo di annullamento.  Ha resistito con controricorso la RAI.  Le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione. - Il ricorrente denunzia carenza o comunque insufficienza per apoditticità e contraddittorietà della motivazione, su punto decisivo con conseguente violazione delle norme in materia di «res indicata» (art. 2909 c.c.) nonché degli artt. 2103 c.c. e 187 e ss. c.p.c. Deduce che è priva di pregio l'affermazione contenuta nell'impugnata sentenza, che dopo aver ritenuto la violazione dell'art. 2103 c.c. in astratto produttiva di danni, valutabili sul piano economico, anche laddove sia stata riconosciuta la normale retribuzione, ritiene che il danno deve essere comunque provato non potendosi ritenerlo sussistente in «re ipsa », neppure in presenza di fatti non contestati (come nel caso di specie) che hanno comportato l'offesa della reputazione - che gode di una ampia tutela in forza dell'ar-t. 2 Cost. - dequalificando il dott.  Moratti anche nella sua vita di relazione.

Rivela che costituisce «res indicata» la violazione dell'ar-t. 2103 c.c. da parte della RAI nei confronti di esso ricorrente (violazione affermata nella sentenza 21 giugno 1984 del Pretore di Roma, confermata dalla sentenza 10 ottobre 1987 del Tribunale di Roma: la sentenza pretorile è stata confermata anche nella parte relativa al risarcimento del danno, da liquidarsi in separata sede, il che significa che costituisce «res indicata» l'esistenza del danno subito per il comportamento illegittimo della RAI, danno da determinarsi nel «quantum» con separato giudizio).

Il Tribunale di Roma, quindi, prima accerta la esistenza del danno e poi non lo ritiene risarcibile per carenza di prova.  Deduce, poi, che il comportamento della RAI che ha dequalificato esso ricorrente (punto sul quale vi è giudicato), vulnerandone la reputazione in quel ristretto «piccolo mondo» dei giornalisti radiotelevisivi, estremamente sensibile ad ogni tentativo di rendere più opaca e più grigia l'immagine dei colleghi.  Assume, quindi, che l'attore soggiace ad un onere probatorio, ma che si può ricorrere ad un sistema di presunzioni, che si limita all'esistenza del danno, non al suo ammontare, che il giudice potrà definire in via equitativa.

Lamenta, poi, essere stata denegata senza valida motivazione la richiesta del danno in via equitativa, così come l'immotivato rigetto della prova testimoniale.

La Corte osserva che il Tribunale di Roma ha escluso che sia stata colpita la reputazione del dott.  Moratti, che questi abbia subito «una significativa lesione del suo diritto al rispetto della identità e dignità personale» e sia stato leso nel suo diritto della personalità nel rilievo che, a tal fine, è necessario che l'atto di parte datoriale debba avvenire con modalità tali da colpire la personalità del lavoratore, mentre «nel caso di specie il Moratti fu allontanato dal posto che ricopriva senza alcun riferimento ai suoi dementi o sue pretese incapacità; in sostanza per fatti (lottizzazione) che nulla avevano a che fare con la persona e la sua preparazione professionale ».

La Corte ritiene che tali argomentazioni non si palesano condivisibili: non tengono conto di circostanze emergenti dal giudizio sull'an.

Invero nella sentenza del Tribunale di Roma 10 febbraio - 2 ottobre 1987, evidenziata la separazione che assume rispetto alle altre aree, sul piano dell'importanza, della specificità e del valore professionale, l'area propriamente giornalistica, veniva ritenuto che «In questa area ed in questo ambito professionale», il Moratti esercitava, per di più (è pacifico e risulta dagli atti), funzioni di vice direttore di testata.  Le « nuove » mansioni attribuite, invece, non solo non avevano « natura » giornalistica e attenévano a servizi esterni all'area giornalistica predetta, ma avevano anche, nella sostanza, un contenuto secondario e marginale, di valore e livello professionale « inferiore » rispetto a quelle svolte in precedenza, anche perché prive di vero e proprio potere decisionale ».

Osserva, quindi, che tali circostanze avrebbero dovuto essere attentamente valutate per stabilire se da esse emergessero elementi tali da far ritenere colpita la personalità del Moratti.

Doveva essere valutato se da esse emergesse che in effetti il predetto fosse stato accantonato e se tale fatto, anche nella sua oggettività, non si fosse risolto - in effetti - in un « vulnus » alla personalità del lavoratore in sé, ed alla sua reputazione date le sue modalità.

Il Tribunale accenna ad un comportamento della RAI non finalizzato a colpire la reputazione del ricorrente, in quanto questi venne allontanato dal posto che ricopriva per fatti (lottizzazione) che nulla avevano a che fare con la sua per-sona e la sua professionalità.  Ma al riguardo è da obiettare che nel suddetto comportamento datoriale non può non essere contenuta la consapevolezza della idoneità del provvedimento ad incidere la personalità del dipendente (che veniva addetto a mansioni non di natura giornalistica e, nella sostanza, di contenuto secondario e marginale), per cui tale risultato, anche se non costituiva il motivo del provvedimento, dava luogo ad un evento, che tuttavia non era rifiutato (da chi assumeva il provvedimento).

Già sotto questo profilo la sentenza è censurabile.

L'argomento addotto dal Tribunale, quello, cioé della « lottizzazione » è solo apparentemente favorevole, ai fini di questo giudizio, alla parte datoriale.

Giova, anzitutto, chiarire che sulla sussistenza della c.d. « lottizzazione » vi è l'accertamento di fatto contenuto nella sentenza del Tribunale.

Va, quindi, osservato che la « lottizzazione » comporta che i dipendenti vengano distinti non sulla base della loro preparazione professionale, della loro personalità ed, in genere, delle loro qualità, bensì in base al criterio dell'appartenenza a determinate aree politiche o, più in generale, di influenza, che diviene criterio prevalente.

Tale modo di procedere è certamente lesivo della personalità dei lavoratori perché colpisce il loro diritto ad essere valutati per le loro qualità professionali e personali, ledendo la libertà (c.d. libertà negativa) di non vincolare la propria attività all'appartenenza a questo o a quel gruppo politico e di non collocarsi in questa o in quell'area di influenza,

La c.d. lottizzazione » opera una sorta di compressione psicologica sul dipendente, che viene a temere la possibilità di un trattamento sfavorevole non conseguente ai propri demeriti, ma a logiche estranee al rapporto di lavoro ed al suo sinallagma.

Da ciò consegue che tale attacco alla (libera) personalità del lavoratore, che può cagionare anche dequalificazione dello stesso (come nella fattispecie), viene ad avere rilievo, anche in mancanza di prova di « vulnus » alla reputazione, sotto il profilo del danno patrimoniale che può causare.

Esso, anche se può apparire fonte di danni, per così dire extra-patrimoniali, finisce - a ben vedere - per assumere rilievo nell'ambito di rapporti di natura patrimoniale.

La lesione dei valori della personalità del lavoratore comporta un danno che si patrimonializza: una diversa lettura che ne consentisse la violazione, senza che ne consegue una riparazione, appare come privare di tutela tali valori e si palesa difficilmente conciliabile con il senso della norma di cui al 1° comma dell'art. 35 Cost.

A parte ciò va considerata l'incidenza del fatto sotto il profilo del c.d. danno alla vita di relazione (che è una componente specifica del danno patrimoniale), che consiste nella compromissione peggiorativa della c.d. capacità di concorrenza dell'individuo rispetto ad altri soggetti nei rappor-ti sociali ed economici.

Seppure concernenti diversa fattispecie vanno anche tenuti presente i principi affermati da questa Corte nella sentenza 3679/85 (Cass. 1, civ.): « L'interesse della persona fisica o giuridica, a preservare la propria identità personale, nel senso di immagine sociale, cioè di coacervo di valori (intellettuali, politici, religiosi, professionali, ecc.) rilevanti nella rappresentazione che di essa viene data nella vita di relazione, nonché, correlativamente, ad insorgere contro comportamenti altrui che menomino tale immagine, pur senza offendere l'onore e la reputazione, ovvero ledere il nome o l'immagine fisica, deve ritenersi qualificabile come posizione di diritto soggettivo, alla stregua dei principi fissati dall'art. 2 della Costituzione, in tema di difesa della personalità nella complessità ed unitarietà di tutte le sue componenti, ed inoltre tutelabile in applicazione analogica della disciplina dettata dall'art. 7 codice civile con riguardo al diritto al nome, con la conseguente esperibilità, contro i suddetti comportamenti, di azione inibitoria e di risarcimento del danno, nonché possibilità di ottenere, ai sensi del 2° comma del citato art. 7, la pubblicazione della sentenza che accolga la domanda, ovvero, se si tratti di lesione verificatasi a mezzo della stampa, anche la pubblicazione di una rettifica a norma dell'art. 42 della L. 5 agosto 1981, n. 416 ».

Per quanto concerne in particolare l'art. 2 Cost. (cui si è richiamato anche l'odierno ricorrente), nella suindicata decisione questa Corte ha precisato che la finalità di tale precetto costituzionale « è proprio quello di tutelare la persona umana integralmente in tutti i suoi modi di essere essenziali ».

Per quanto concerne la fattispecie attuale è da aggiungere che fra tali modi di essere - specialmente in riferimento anche ai valori democratici e lavoristici proclamati dall'art. 1 Cost. - assume prioritario rilievo l'esigenza che sia risarcito il pregiudizio subito dal lavoratore in conseguenza di una dequalificazione che oltre ad essere in violazione del diritto alla qualifica di cui all'art. 2103 c.c., sia anche il risultato di un fatto, per altro verso, già di per sé ingiusto e lesivo di un diritto fondamentale dello stesso lavoratore, in quanto cittadino.

Ne consegue che un fatto come quello in esame, che si incentra (in sostanza) prima ancora che sulla qualifica, sul « vulnus » alla personalità ed alla libertà del lavoratore-giornalista, contiene necessariamente, oltre che la potenzialità del danno, una inseparabile carica di effettività (senza che ciò significhi ricorso a presunzioni) per la diminuzione del patrimonio professionale, anche ai fini dell'ulteriore sviluppo di carriera, del lavoratore ingiustamente rimosso dalle mansioni corrispondenti alla sua qualifica.  Quindi il danno va risarcito: questo è l'essenziale, che, cioè, un risarcimento (la cui misura va fissata dal giudice del rinvio, che, ove ne concorrano le condizioni, potrà procedere anche con il ricorso al criterio di cui all'art. 1226 c.c.) vi deve essere, perché resti tutelata l'esigenza del libero svolgimento dell'attività lavorativa e della salvaguardia della personalità e libertà del lavoratore.

Il ricorso va, quindi, accolto, con cassazione dell'impugnata sentenza e rinvio ad altro Tribunale, che si designa in quello di Viterbo, al quale si rimette anche la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso.  Cassa l'impugnata sentenza e rinvia la causa anche per le spese del giudizio di legittimità al Tribunale di Viterbo.

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