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Ricorre lo stress
risarcibile non il mobbing
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Cass., sez. lav., 17 giugno
2011 n. 13356
Danno non patrimoniale sub specie
esistenziale - Onere probatorio a carico ricorrente.
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Il danno non patrimoniale,
nella fattispecie esistenziale, va comunque provato dall’attore,
costituendo la prova (avente ad oggetto precise circostanze atte a
dimostrare l’adozione di scelte di vita diverse da quelle che sarebbero
state seguite in assenza dell’evento dannoso) il presupposto indispensabile
anche per una liquidazione equitativa.
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Se è pur vero che la
prova in questione può essere anche presuntiva, è altrettanto vero che la
parte è onerata di fornire al giudice una serie concatenata di circostanze,
quali la durata, la gravità, la conoscibilità dell’inadempimento all’interno
e all’esterno del luogo di lavoro, le reazioni del lavoratore nei confronti
del datore di lavoro, gli effetti negativi sulle sue abitudini di vita, che
nella specie difettano del tutto (sovrattutto quanto all’incidenza sulle
abitudini di vita e relazionali), o risultano sotto il profilo in esame
insufficienti.
Svolgimento del processo
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La a.s.l. (…) di Siena
proponeva appello avverso la sentenza del locale Tribunale, con cui era
stata condannata a pagare alla dipendente M. €. 19.000,00 complessivi a
titolo di danno esistenziale e biologico, patiti da quest’ultima a causa di
accertate disfunzioni organizzative all’interno del luogo di lavoro.
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Lamentava in particolare che
il Tribunale aveva violato l’art. 112 c.p.c. per aver riconosciuto il danno
ex art. 2087 c.c., laddove la M. aveva dedotto un comportamento mobbizzante
nei suoi confronti, peraltro escluso dal Tribunale, ed inoltre per avere
riconosciuto le poste di danno senza alcuna convincente prova circa il nesso
causale tra la patologia lamentata e le condizioni di lavoro.
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La Corte d’appello di Firenze,
con sentenza depositata il 2 febbraio 2007, riteneva che nonostante la
domanda della M. fosse basata sul lamentato mobbing, il Tribunale non aveva
violato l’art. 112 c.p.c. pur escludendo una condotta cd. mobbizzante.
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Riteneva infatti che tale
illecito rappresentava in generale una violazione dell’obbligo di sicurezza
di cui all’art. 2087 c.c., nella specie ritenuta sussistente, essendo
riservata al giudice la qualificazione della domanda e la sua
riconducibilità o meno ad una determinata previsione di legge.
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Riteneva invece parzialmente
fondato il gravame per non avere la M., quanto al danno esistenziale,
fornito alcuna idonea allegazione o prova circa l’esistenza di una lesione
alla sua sfera soggettiva. Quanto al danno biologico riteneva che esso ben
poteva ricondursi alle disagevoli condizioni di lavoro, accertate dalle
prove documentali e testimoniali acquisite in primo grado, come stabilito
dalla c.t.u. medico legale, mentre la quantificazione del danno doveva
ridursi equitativamente ad €. 10. 400,00 in luogo di €. 11.700,00
riconosciuti dal Tribunal risultando più aderente all’entità della patologia
ansioso - depressiva emersa.
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Avverso tale sentenza propone
ricorso per Cassazione la a.s.l. (…) di Siena, affidato a due motivi poi
illustrati con memoria.
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Resiste la M. con
controricorso e ricorso incidentale affidato a due motivi.
Motivi della decisione
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Preliminarmente vanno riuniti
il ricorso principale e quello incidentale ai sensi dell’art. 335 c.p.c.,
proposti avverso la medesima sentenza.
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1.-
Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione
degli artt. 112 e 412 bis c.pc., lamentando che la corte territoriale da una
parte aveva escluso l’esistenza del mobbing, costituente il presupposto del
danno lamentato dalla M. in primo grado, d’altro canto aveva ritenuto
risarcibile un danno ex art. 2087 c.c., mutando così erroneamente la causa
petendi, senza peraltro consentirle una adeguata difesa, anche in sede di
tentativo obbligatorio di conciliazione.
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Ad illustrazione del motivo
formulava il quesito di diritto di cui all’art. 366 bis c.p.c.
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Denunciava inoltre in
sufficiente e contraddittoria in motivazione in ordine ad un fatto
controverso e decisivo per il giudizio, ravvisato nella erronea valutazione
dei fatti e segnatamente delle condizioni di lavoro in cui la M. era
chiamata ad operare.
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2.
-Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile. Inammissibile in
ordine alla censura di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c., non contenendo il
motivo il prescritto quesito di fatto di cui all’art. 366 bis c.p.c., e cioè
la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la
motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le
quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a
giustificare la decisione (Cass. sez.un. l°ottobre 2007, n. 20673). Il
motivo va dichiarato inammissibile nella parte in cui si lamenta inoltre una
contraddittorietà della motivazione che ricorre solo in presenza di
argomentazioni contrastanti e tali da non permettere di comprendere la ratio
decidendi che sorregge il “decisum” adottato, per cui non sussiste
motivazione contraddittoria allorché, dalla lettura della sentenza, non
sussistano incertezze di sorta su quella che è stata la volontà del giudice,
Cass. sez. un. 22 dicembre 2010, n. 25984.
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Nella specie la corte
territoriale ha ritenuto che dagli elementi di causa (prove documentali e
testimoniali acquisite in primo grado, (pag. 5 sentenza) emergesse la
violazione dell’obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c. La ricorrente
richiede dunque inammissibilmente alla Corte un riesame in fatto delle
circostanze del caso, precluso in sede di legittimità, Cass. 26 marzo 2010
n. 7394.
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Quanto alla violazione degli
artt. 112 e 412 bis c.p.c., si osserva che, come rilevato nella sentenza
impugnata, questa Corte ha già affermato che l’illecito del datore di lavoro
nei confronti del lavoratore consistente nell’osservanza di una condotta
protratta nel tempo e finalizzata all’emarginazione del dipendente (c d.
“mobbing”, rappresenta una violazione dell’obbligo di sicurezza posto a
carico dello stesso datore dall’art. 2087 cod. civ. (Cass. 9 settembre 2008
n. 22858, Cass. 6 marzo 2006 n. 4774), a maggior ragione ove, come nella
specie, siano state dedotte gravi disfunzioni organizzative quali causa dei
danni non patrimoniali richiesti, sicché non può ritenersi violato il
principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, né un
illegittimo mutamento della causa petendi.
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3.
Con secondo motivo la a.s.l. denuncia “erronea ricostruzione ed
interpretazione di atti e fatti processuali. Violazione di legge per falsa
applicazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 115 c.p.c.”
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Lamentava in particolare la
ricorrente principale che nella specie difettava qualsiasi reale prova circa
il danno biologico riconosciuto alla M., che spettava a quest’ultima
provare, laddove la corte di merito aveva semplicemente posto a carico
dell’azienda l’onere di provare il rispetto dell’obbligo di protezione di
cui all’art. 2087 c,c.
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Lamentava anche che nella
fattispecie non era stato dimostrato il nesso di causalità tra le condizioni
di lavoro e la patologia accertata dal c.t.u., consulenza che non poteva in
ogni caso sollevare la parte dal suo onus probanti e che nella specie non
aveva accertato adeguatamente il nesso causale.
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Formulava pertanto il
prescritto quesito di diritto chiedendo in particolare se incorra nella
violazione dell’onere della prova la sentenza che in assenza di allegazioni
attestanti l’esistenza di una patologia, demandi ad una c.t.u.
l’accertamento di un danno biologico nonché del nesso causale tra le
condizioni di lavoro e il danno.
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Anche il secondo motivo
risulta infondato.
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Ed invero la M. dedusse, e
dunque allegò in fatto, di aver contratto una patologia psichica in
conseguenza delle condizioni di lavoro in cui era chiamata ad operare.
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Deve quindi osservarsi che
sebbene la c.t.u. non sia qualificabile come mezzo di prova in senso
proprio, perché volta a coadiuvare il giudice nella valutazione degli
elementi acquisiti o nella soluzione di questioni necessitanti specifiche
conoscenze, essa può essere disposta non solo al fine di valutare i fatti
accertati o dati per esistenti (consulente deducente), ma anche al fine di
accertare i fatti stessi (consulente percipiente), ed in tal caso è
necessario e sufficiente che la parte deduca il fatto che pone a fondamento
del suo diritto e che il giudice ritenga che l’accertamento richieda
specifiche cognizioni tecniche (Cass. 13 marzo 2009 n. 6155; Cass. 26
novembre 2007 n. 24620; Cass. 15 aprile 2002 n. 5422; Cass. 7 marzo 2001 n.
3343).
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Il c.t.u., nella specie, ha
accertato che la M. aveva contratto una patologia ansioso depressiva, di cui
forniva quantificazione percentuale (8-10%), verosimilmente connessa alle
stressanti condizioni lavorative in cui fu chiamata ad operare.
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Deve infine osservarsi che ai
fini della configurabilità del nesso causale tra un fatto illecito ed un
danno di natura psichica non è necessario che quest’ultimo si prospetti come
conseguenza certa ed inequivoca dell’evento traumatico, ma è sufficiente che
la derivazione causale del primo dal secondo possa affermarsi in base ad un
criterio di elevata probabilità, e che non sia stato provato l’intervento di
un fattore successivo tale da disconnettere la sequenza causale così
accertata (Cass. 11 giugno 2009 n. 1353, in base al principio di cui
all’art. 41 c.p. quale norma di carattere generale applicabile nei giudizi
di responsabilità civile (da ultimo, Cass. 30 novembre 2009 n. 25236).
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Nella specie il c.t.u. ha
concluso per l’esistenza del nesso causale, nel senso sopra esposto, mentre
la quantificazione percentuale del danno biologico non è stata oggetto di
censure.
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4.
- 11 ricorso principale va pertanto respinto.
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5.
-Con il primo motivo del ricorso incidentale, la M. denuncia violazione
degli artt. 2727 e 2729 c.c.. 115 c.p.c in relazione al mancato
riconoscimento del danno esistenziale senza ricorrere alla prova presuntiva.
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Il motivo è infondato.
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Va al riguardo rammentato il
principio (da ultimo enunciato da Cass. 30 novembre 2009 n. 25236; Cass.
sez. un. 16 febbraio 2009 n. 3677), che in tema di risarcimento del danno
non patrimoniale, il cosiddetto danno alla vita di relazione ed i pregiudizi
di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti
a lesioni dell’integrità psicofisica, possono costituire solo voci del danno
biologico (al quale va riconosciuta portata tendenzialmente omnicomprensiva)
nel suo aspetto dinamico, sicché darebbe luogo a duplicazione la loro
distinta riparazione.
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Le sezioni unite di questa
Corte (sentenza 24 marzo 2006 n. 6572), seguita dalla successiva
giurisprudenza, hanno chiarito che tale danno, così come ora definito, vada
comunque provato dall’attore, costituendo la prova (avente ad oggetto
precise circostanze atte a dimostrare l’adozione di scelte di vita diverse
da quelle che sarebbero state seguite in assenza dell’evento dannoso) il
presupposto indispensabile anche per una liquidazione equitativa.
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Se è pur vero che la medesima
pronuncia ha affermato che la prova in questione può essere anche
presuntiva, è altrettanto vero che la parte è onerata di fornire al giudice
una serie concatenata di circostanze, quali la durata, la gravità, la
conoscibilità dell’inadempimento all’interno e all’esterno del luogo di
lavoro, le reazioni del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, gli
effetti negativi sulle sue abitudini di vita, che nella specie difettano del
tutto (sovrattutto quanto all’incidenza sulle abitudini di vita e
relazionali), o risultano sotto il profilo in esame insufficienti (quanto ad
esempio alla durata, in ricorso determinata tra l’ottobre 2001 e l’agosto
2002).
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6.
-Col secondo motivo la M. denuncia violazione dell’art. 342 c.p.c. per avere
la corte di merito arbitrariamente ridotto l’entità del danno biologico,
peraltro in difetto assoluto di motivazione sul punto.
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Lamentava che la a.s.l.
appellante aveva contestato l’esistenza del danno biologico solo sotto il
profilo della responsabilità datoriale e del nesso di causalità, ma non in
ordine all’entità del danno riconosciuto nella sentenza di primo grado.
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Il motivo è infondato.
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Come risulta dalla
incontestata ricostruzione in fatto della vicenda processuale, contenuta
nella sentenza impugnata, la a.s.l. impugnò la sentenza del Tribunale di
Siena per avere, per quanto qui interessa, riconosciuto il danno biologico
senza alcuna convincente prova circa il nesso causale tra le condizioni di
lavoro ed il danno lamentato.
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La corte territoriale
risultava dunque ritualmente investita della questione, né la M. allega o
riproduce, in contrasto col principio dell’autosufficienza del ricorso per
cassazione (ex plurimis, Cass. 20 gennaio 2006 n. 1113), l’atto di appello
della a.s.l.
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Pur avendo poi la corte di
merito ritenuto, con motivazione esente da vizi logici e basata sulla
disposta c.t.u., che la somma di € 10.400,00 risultava più aderente
all’entità della patologia accertata dall’ausiliare, la ricorrente
incidentale non solo non allega la relazione di quest’ultimo, in contrasto
col menzionato principio dell’autosufficienza, ma non chiarisce neppure la
ragione per cui la somma liquidata dal Tribunale doveva ritenersi nella
specie più corretta.
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7.
-Anche il ricorso incidentale deve pertanto respingersi.
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La reciproca soccombenza
giustifica la compensazione delle spese di causa.
P.Q.M.
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La Corte, riunisce i ricorsi e
li rigetta entrambi. Compensa le spese del presente giudizio di legittimità.
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Depositata in Cancelleria il
17.06.2011
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