DANNO PROFESSIONALE: CONTENITORE DI PLURIME VOCI DI DANNO

 

Cass. sez. lav., 14 novembre 2001, n. 14199 (ud. 15 giugno 2001) – Pres. Amirante – Rel. Giannantonio – Luigi Rosin (avv. D’Aloisio) c. Alitalia, linee aeree italiane SpA (avv. Marazza)

 

Dequalificazione professionale e forzata inattività – Concretizzano danno professionale – Va  accertato dal giudice di merito, nelle sue varie componenti (patrimoniali e  personali) ed è  risarcibile in via equitativa ex art 432 c.p.c.

 

La violazione dell’art. 2103, attraverso dequalificazione o forzata inattività del lavoratore, costituisce un  atto illecito – anche quando si continui a corrispondergli, come di norma avviene,  la retribuzione - perché il lavoro costituisce non soltanto un mezzo di sostentamento e di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità del lavoratore stesso. Il danno da dequalificazione professionale, difatti, non si identifica con il danno derivante dalla mancata corresponsione del trattamento retributivo ma può consistere semplicemente nel mancato aggiornamento e nella mancata pratica della propria professione. Giacché, secondo la giurisprudenza di questa Corte, sussiste un diritto del lavoratore all'effettivo svolgimento della propria prestazione di lavoro (Cass. 15 giugno 1983 n. 4106; Cass. 6 giugno 1985 n. 3372; Cass. 10 febbraio 1988 n. 1437; Cass. 13 novembre 1991 n. 12088; Cass. 15 luglio 1995 n. 7708; Cass. 4 ottobre 1995 n. 10405), un diritto la cui lesione da parte del datore di lavoro costituisce un inadempimento contrattuale e determina, oltre all'obbligo di corrispondere le retribuzioni dovute, l'obbligo del risarcimento del danno da dequalificazione professionale o, più sinteticamente, del danno professionale.

Questo danno può assumere aspetti diversi. Innanzitutto può consistere nel danno patrimoniale derivante, in via diretta ed automatica, dalla dequalificazione, dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità (un danno molto evidente e grave nell'esercizio di alcune particolari professioni, soggette a una continua evoluzione e quindi bisognose di continui aggiornamenti),  così come può consistere nella perdita addizionale, a seguito della minor qualificazione (conseguente a dequalificazione), di un maggior guadagno  per privazione della possibilità per il lavoratore di sfruttare particolari occasioni di lavoro o, come preferiscono esprimersi alcune decisioni, nella perdita di chance.

Peraltro il danno professionale potrebbe assumere anche aspetti non patrimoniali.  Potrebbe, ad esempio, costituire una lesione del diritto del lavoratore all'integrità fisica (art. 2087 del c.c.) o, più in generale, alla salute (art. 32 della Costituzione), quando la forzosa inattività, o l'esercizio di mansioni inferiori, ha determinato nel lavoratore non soltanto un dispiacere, una afflizione dello spirito rientrante tra i danni morali, ma una vera e propria patologia psichica, come uno stato ansioso o una sindrome da esaurimento (Cass. 16 dicembre 1992 n. 13299) e, secondo alcune decisioni, potrebbe anche costituire una lesione del diritto all'immagine o del diritto alla vita di relazione (Cass. 10 aprile 1996 n. 3341).

L'accertamento della sussistenza e dell'ammontare del danno professionale o, meglio, delle varie specie di danni, patrimoniali o personali, compresi in questa ampia denominazione, è compito del giudice di merito e si risolve in una valutazione di fatto incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivata.

Svolgimento del processo

Con sentenza dell'8 novembre 1976 il Pretore di Roma dichiarava il diritto del sig.  Luigi Rosin e di altri piloti della Società SAM di essere considerati dipendenti della società SAM fino al luglio 1974 e, quindi, in base al disposto dell'art. 2112 del codice civile, della società Alitalia.  Il Pretore riconosceva il diritto dei piloti a conservare l'anzianità di servizio già maturata presso la SAM “con esclusione quindi di ogni frazionamento dell'indennità finale e di ogni mutamento in pejus della posizione degli stessi”.  Il Pretore aggiungeva, “senza entrare nel merito della questione relativa alle liste di anzianità”, che la conservazione della pregressa anzianità di servizio non doveva pregiudicare le posizioni già acquisite dagli altri piloti dell'Alitalia.

La pronuncia è stata confermata dal Tribunale di Roma con sentenza del 14 novembre 1977 e dalla Corte di Cassazione con la sentenza 10 aprile 1981 n. 2094.

Con successivo ricorso al Pretore di Roma, i piloti chiedevano la ricostruzione della loro carriera, attraverso l'inserimento nelle liste di anzianità dell'Alitalia a far tempo dalla loro assunzione da parte della SAM; e chiedevano, di conseguenza, il pagamento delle differenze retributive e di indennità e il risarcimento dei danni.

Veniva ordinata la chiamata in causa dei piloti dell'Alitalia la cui posizione poteva essere interessata negativamente dall'accoglimento delle domande proposte.

Con sentenza del 14 febbraio 1985 il Pretore accoglieva la domanda.  In particolare riconosceva il diritto dei piloti “di essere considerati parti integranti delle rispettive liste di anzianità Alitalia con collocazione rispondente alle date dell'effettiva assunzione ed altresì dell'eventuale nomina al comando presso la SAM”.  Il Pretore, peraltro, faceva salve le posizioni dei piloti dell'Alitalia e limitava gli effetti dell'inserzione nelle liste di anzianità all'eventuale profilo economico, escludendo i maggiori compensi legati alla effettività delle ore di volo e i rimborsi di spese non sostenute.  Il Pretore, infine, rinviava al prosieguo del giudizio tutte le ulteriori decisioni, compresa quella sulla rilevanza della lista di anzianità dei piloti e sulla quantificazione giudiziale dell'eventuale differenza retributiva.

La decisione è stata parzialmente riformata dal Tribunale di Roma che, con sentenza del 17 luglio 1989, ha affermato, tra l'altro, che era passata in giudicato, perché mai impugnata dagli interessati, la pronuncia del Pretore di Roma in data 8 novembre 1976, con cui, a giudizio del Tribunale, il Pretore stesso aveva escluso l'inserimento dei ricorrenti nelle liste di anzianità Alitalia, anche con riferimento al servizio già prestato alle dipendenze della SAM.  Il Tribunale riteneva, pertanto, che l'iscrizione dei piloti della SAM nelle liste di anzianità dell'Alitalia non potesse avvenire con decorrenza anteriore al luglio 1974.

La decisione del Tribunale è stata cassata da questa Corte con la sentenza 9 luglio 1991 n. 7562.  In particolare la Corte ha ritenuto che la sentenza del Tribunale fosse contraddittoria in quanto da una parte riconosceva che il Pretore non era entrato nel merito della questione relativa all'inserimento dei piloti nelle liste di anzianità dell'Alitalia e, dall'altra, affermava che si era formato il giudicato sulla medesima questione.

Con sentenza in data 26 febbraio 1993 il Tribunale di Civitavecchia, quale giudice di rinvio, confermava la decisione emessa dal Pretore di Roma in data 14 febbraio 1985.

Nel frattempo il processo era proseguito per la liquidazione delle somme dovute dinanzi al Pretore di Roma e questi, con sentenza in data 24 novembre 1987, aveva dichiarato il diritto del signor Luigi Rosin e di altri piloti al trattamento economico connesso all'aeromobile di II livello a far tempo dalla prima occasione utile posteriore al 1° luglio 1974 e al successivo trattamento economico connesso all'aeromobile di III livello e aveva condannato l'Alitalia al pagamento delle somme dovute dichiarando cessata la materia del contendere quanto alla domanda di avviamento all'aeromobile superiore.

La decisione del Pretore è stata parzialmente riformata dal Tribunale di Roma che, con sentenza depositata il 23 dicembre 1998, in parziale accoglimento dell'appello dell'Alitalia, ha condannato la stessa al pagamento a favore del Rosin del 40% dell'indennità di volo come quantificata nel totale dalla sentenza impugnata; in parziale accoglimento dell'appello del Rosin ha dichiarato il diritto dello stesso al risarcimento del danno professionale subito nel periodo (anni 1978-1980) in cui era stato adibito a mansioni di CM3, ossia di terzo pilota, in luogo di quelle di comandante pilota, così come individuate nella sentenza di primo grado.  Per il resto il Tribunale ha confermato la decisione del Pretore.

Avverso la decisione del Tribunale il sig.  Rosin propone ricorso articolato in tre motivi.

La società Alitalia resiste con controricorso e propone a sua volta ricorso incidentale costituito da un unico motivo.

Motivi della decisione

 

Innanzitutto deve essere disposta la riunione in un solo processo dei due ricorsi, proposti separatamente contro la stessa sentenza; ai sensi dell'art. 335 del codice di procedura civile.

Con il primo motivo il ricorrente principale denunzia la violazione e l'erronea interpretazione del d.p.r. 917/86 e del d.p.r. 597/73 in relazione alla legge 9 ottobre 1971 n. 825 e alla legge 6 dicembre 1971 n. 1036, nonché il vizio di omessa o, comunque, insufficiente motivazione.  Lamenta che il Tribunale abbia riconosciuto l'indennità di volo in relazione al superiore trattamento economico non nella misura intera, ma solo nella misura del 40 per cento, in quanto il residuo 60 per centro costituirebbe non retribuzione, ma rimborso delle spese affrontate per lo svolgimento delle mansioni.

In tal modo, ad avviso del ricorrente, il Tribunale non avrebbe tenuto presente che, ai fini previdenziali, l'indennità di volo viene computata per intero e che le norme richiamate nella sentenza attengono al trattamento fiscale dell'indennità di volo, trattamento che rimane del tutto estraneo alla controversia.

Assume, infine, che è del tutto arbitraria l'affermazione del Tribunale che il Rosin non abbia diritto alla indennità di volo nella misura integrale per effetto del mancato svolgimento delle mansioni di pertinenza.  Il Tribunale in particolare non avrebbe tenuto presente, ad avviso del ricorrente, che l'indennità di volo erogatagli in misura inferiore riguardava comunque prestazioni effettive.

Il motivo è infondato.

Al riguardo occorre innanzitutto osservare che l'art. 6 del c.c.n.l. del 30 dicembre 1978 riconosce ai piloti una indennità di volo oraria commisurata al tipo di aeromobile pilotato. Ne consegue che, salvo comunque il minimo garantito, per ogni ora di volo il pilota riceverà un corrispettivo differenziato in relazione al tipo di aeromobile su cui ha volato e che i coefficienti orari aumentano con il passaggio del pilota a un aeromobile di categoria superiore.

Occorre inoltre osservare che l'art. 48, quinto comma, del d.p.r. 22 dicembre 1986 n. 917 dispone che “le indennità di navigazione e di volo previste dalla legge o dal contratto collettivo, nonché gli assegni di sede e le altre indennità percepiti per servizi prestati all'estero costituiscono reddito nella misura del 40 per cento del loro ammontare”.

Nel caso in esame il Rosin ha ricevuto una indennità di volo inferiore perché determinata nella misura corrispondente a quella prevista per gli aeromobili su cui il Rosin aveva effettivamente volato e non a quella prevista per gli aeromobili su cui il Rosin avrebbe avuto diritto di volare.

Il Tribunale ha quindi riconosciuto il diritto alla maggiore indennità di volo prevista per i piloti del livello del Rosin e cioè per i piloti destinati ai voli internazionali e intercontinentali.  Egli, infatti, aveva il diritto a essere destinato a tale tipo di voli e solo l'inadempimento della società gli aveva impedito di effettuarli e di guadagnare così il maggiore compenso.

Lo stesso Tribunale ha tuttavia limitato tale riconoscimento al 40 per cento della indennità e cioè alla sola parte retributiva di essa.  Il residuo sessanta per cento, difatti, deve essere considerato non come retribuzione, ma come compenso per le spese sostenute dal pilota.  Il maggiore coefficiente è di fatti giustificato dalla presunzione che voli più lunghi espongono il pilota a spese superiori e presuppone che tali voli siano stati realmente effettuati; cosa che nel caso in esame non si è verificata in quanto il Rosin ha effettuato, sia pure non per colpa sua, voli ritenuti meno impegnativi per i quali ha ricevuto l'indennità di volo nella misura per loro prevista.

In sostanza il Tribunale, ha determinato la quota retributiva e quella risarcitoria della indennità di volo in base al parametro fiscale con una decisione che appare immune da censura perché conforme alla lettera della norma, l'art. 48 del d.p.r. 91711986, e ai principi indicati da questa Corte di legittimità.

Difatti, come ha già affermato questa Corte, l'accertamento della natura retributiva, risarcitoria o mista dei trattamenti considerati è compito del giudice di merito il quale, ove ne accerti la natura mista, può determinare l'incidenza della componente retributiva e di quella risarcitoria.  A tal fine egli può far ricorso anche a disposizioni fiscali o previdenziali o ad altri elementi desunti dalla fattispecie concreta; e può anche esercitare il potere di valutazione equitativa previsto dall'art. 432 del codice di procedura civile. (Cass. 1° giugno 1992 n. 6593; Cass. 8 marzo 1994 n. 2255; Cass. 26 maggio 1993 n. 5907; Cass. 27 gennaio 1994 n. 814; Cass. 19 gennaio 1995 n. 540; Cass. 19 febbraio 1998 n. 1754).

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell'art. 2112 e degli articoli 1362 e seguenti del codice civile, nonché il vizio di contraddittorietà della motivazione.  Lamenta che il Tribunale non gli abbia riconosciuto il diritto al risarcimento del danno per il mancato avvio al corso di comando secondo le liste di anzianità dei piloti dell'Alitalia.

Il motivo è infondato.

L'art. 2103 del c.c. dispone che il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione.

La giurisprudenza di questa Corte ha più volte affermato che il datore di lavoro viola la norma e compie un atto illecito, definito come atto di dequalificazione professionale, non solo quando assegna il dipendente a mansioni inferiori, ma anche quando, pur corrispondendogli la retribuzione, lo lasci in condizione di forzata inattività e senza assegnazione di compiti; in sostanza, anche quando lo paga, ma non lo fa lavorare. (Cass. 13 agosto 1991 n. 8835).  E ciò perché il lavoro costituisce non soltanto un mezzo di sostentamento e di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità del lavoratore.

Sussiste dunque, secondo la giurisprudenza di questa Corte, anche se la questione è controversa in dottrina, un diritto del lavoratore all'effettivo svolgimento della propria prestazione di lavoro (Cass. 15 giugno 1983 n. 4106; Cass. 6 giugno 1985 n. 3372; Cass. 10 febbraio 1988 n. 1437; Cass. 13 novembre 1991 n. 12088; Cass. 15 luglio 1995 n. 7708; Cass. 4 ottobre 1995 n. 10405); un diritto la cui lesione da parte del datore di lavoro costituisce un inadempimento contrattuale e determina, oltre all'obbligo di corrispondere le retribuzioni dovute, l'obbligo del risarcimento del danno da dequalificazione professionale o, più sinteticamente, del danno professionale.

Questo danno può assumere aspetti diversi. Innanzitutto può consistere nel danno patrimoniale derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità: un danno molto evidente e grave nell'esercizio di alcune particolari professioni, soggette a una continua evoluzione e quindi bisognose di continui aggiornamenti, come in materia di pilotaggio degli aerei.

Il danno professionale, peraltro, potrebbe essere costituito anche dal fatto che la minore qualificazione professionale ha impedito al lavoratore di sfruttare particolari occasioni di lavoro o, come preferiscono esprimersi alcune decisioni, ha determinato la perdita di chance.

Si tratta in entrambi casi di un danno patrimoniale con la differenza che nel primo il danno incide direttamente sulle capacità professionali del lavoratore, nel secondo deriva dalla perdita di una ulteriore possibilità di guadagno.

Peraltro il danno professionale potrebbe assumere anche aspetti non patrimoniali.  Potrebbe, ad esempio, costituire una lesione del diritto del lavoratore all'integrità fisica (art. 2087 del c.c.) o, più in generale, alla salute (art. 32 della Costituzione), quando la forzosa inattività, o l'esercizio di mansioni inferiori, ha determinato nel lavoratore non soltanto un dispiacere, una afflizione dello spirito rientrante tra i danni morali, ma una vera e propria patologia psichica, come uno stato ansioso o una sindrome da esaurimento (Cass. 16 dicembre 1992 n. 13299) e, secondo alcune decisioni, potrebbe anche costituire una lesione del diritto all'immagine o del diritto alla vita di relazione (Cass. 10 aprile 1996 n. 3341).

Tutto ciò, peraltro, non deve far ritenere che l'atto di dequalificazione professionale di un lavoratore costituisca sempre un atto dannoso. Difatti, a parità di retribuzione, la forzata inattività, o lo svolgimento di mansioni inferiori per un determinato periodo di tempo, potrebbero, in alcuni casi, non incidere affatto sulla capacità professionale del lavoratore o sulle sue occasioni di lavoro; e in alcuni soggetti, anziché procurare patemi di animo o psico-patologie da stress, potrebbero apparire addirittura come una insperata situazione ottimale.

L'accertamento della sussistenza e dell'ammontare del danno professionale o, meglio, delle varie specie di danni, patrimoniali o personali, compresi in questa ampia denominazione, è compito del giudice di merito e si risolve in una valutazione di fatto incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivata.

La liquidazione può avvenire in via equitativa qualora non sia possibile individuare con precisione l'esatto ammontare del danno. Il danneggiato, tuttavia, ha l'onere di fornire gli elementi probatori e i dati di fatto in suo possesso per consentire che l'apprezzamento equitativo sia, per quanto possibile, limitato e riconducibile alla sua caratteristica funzione di colmare solo le inevitabili lacune al fine della precisa determinazione del danno (Cass. 13 agosto 1991 n. 8835; Cass. 6 maggio 1988 n. 3367; Cass. 29 aprile 1986 n. 2957; Cass. 26 febbraio 1986 n. 1212).

Nel caso in esame il Tribunale ha accertato che nel periodo di tempo, decorrente dal 3 febbraio 1978 al 22 aprile 1980, il signor Rosin, pur possedendo la qualifica di pilota, è stato adibito alle inferiori mansioni di CM3, ossia di terzo membro di equipaggio; mansioni che sono distinte e diverse da quelle di pilota e di copilota in quanto non implicano una diretta responsabilità di conduzione del volo e non costituiscono neppure un modo di addestramento alle funzioni di pilota.

Il Tribunale ha inoltre ritenuto che l'effettività del danno da dequalificazione professionale subito dal signor Rosin derivasse “dalla natura delle mansioni pretermesse, di carattere squisitamente tecnico, richiedente un continuo addestramento e aggiornamento e dal prolungato mancato esercizio delle stesse, protrattosi per oltre due anni”.

In sostanza il Tribunale ha ritenuto che la natura dell'attività svolta, una attività di alta tecnologia e soggetta a continui aggiornamenti, comportasse inevitabilmente un pregiudizio della capacità professionale del pilota.  Si tratta di una valutazione che, adeguatamente motivata, non può essere oggetto di questo giudizio di legittimità.

D'altra parte non rileva in senso contrario il fatto che il signor Rosin abbia comunque conservato nel periodo in questione il brevetto e le abilitazioni al volo e abbia ricevuto le retribuzioni dovute a un pilota.  Il danno da dequalificazione professionale, difatti, non si identifica con il danno derivante dalla mancata corresponsione del trattamento retributivo dovuto in relazione alle mansioni; e non richiede necessariamente la perdita dei titoli di abilitazione, ma può consistere semplicemente nel mancato aggiornamento e nella mancata pratica della propria professione.

Per quanto riguarda, invece, l'ulteriore danno lamentato dal signor Rosin, il danno conseguente al mancato inserimento nella lista di anzianità dei piloti dell'Alitalia, il Tribunale ne ha negato la risarcibilità.

E' vero infatti che il signor Rosin non è stato inserito nella lista di anzianità dei piloti dell'Alitalia; ed è anche vero che, in base al contratto collettivo nazionale di lavoro del 1973, i piloti da avviare all'addestramento per il comando vengono esaminati secondo le liste di anzianità e, se giudicati idonei in quanto in possesso dei requisiti voluti dalla compagnia, sono avviati a tale addestramento secondo l'ordine occupato nelle liste.

Sennonché il signor Rosin non ha in alcun modo provato, e neppure dedotto, il danno ulteriore che sarebbe derivato dalla mancata inserzione nelle liste; come ha osservato il Tribunale, non ha indicato “una sola componente legata all'impiego che non gli sia stata attribuita per effetto della forzata inattività, né perché queste, ove allegate e dimostrate esistenti, debbano o meno essere computate”.  Di conseguenza il Tribunale ha ritenuto che mancasse la prova del danno da dequalificazione professionale corrispondente alla mancata possibilità di sfruttamento delle occasioni di lavoro.

Si tratta, anche qui, di una valutazione di merito che, adeguatamente motivata, non può essere oggetto di questo giudizio di legittimità.

D'altra parte non rileva il fatto che in un analogo giudizio questa Corte abbia ritenuto che “una volta affermata la ricostruzione della carriera, il Tribunale avrebbe dovuto dar conto del diverso sviluppo della stessa relativamente all'altro dipendente con tale anzianità, a sua volta avviato al corso comandanti e in ogni caso non avrebbe potuto negare il diritto al risarcimento solo per difetto di prova sul quantum”.  Si tratta infatti non di due diverse interpretazioni della stessa norma di diritto, ma della diversa valutazione di due diverse situazioni di fatto.  In una di esse la Corte ha ritenuto che sussistesse il danno da perdita di occasioni di lavoro in quanto l'inserimento nella lista di anzianità avrebbe potuto dare al dipendente quei vantaggi che aveva dato ad altri e a uno in particolare; nell'altra ha ritenuto che non sussistessero gli estremi del danno in quanto non vi era alcuna prova che l'avviamento il comando, nel caso di inserimento nelle liste di anzianità, si sarebbe verificato.

Ed è appena il caso di notare che la cassazione della sentenza impugnata è avvenuta per difetto di motivazione tanto che il giudice di rinvio ha potuto confermare, con una nuova e più adeguata motivazione, la sentenza cassata affermando che il pilota “non aveva per nulla dimostrato che una diversa collocazione nella lista di anzianità Alitalia gli avrebbe permesso di ottenere l'assegnazione al corso comando con conseguenti vantaggi di carriera o professionali”.

Con il terzo motivo il ricorrente denunzia la violazione degli artt. 91 e 512 del codice di procedura civile, nonché il vizio dì insufficiente motivazione.  Lamenta che il Tribunale abbia immotivatamente compensato tra le parti le spese di causa, nonostante che uno solo dei motivi di appello dell'Alitalia fosse stato accolto e nonostante che, in ogni caso, l'eventuale accoglimento del primo motivo del ricorso avrebbe reso l'Alitalia unica soccombente.

Il motivo è infondato.

Come è noto, in tema di condanna alle spese processuali l'art. 91 c.p.c. dispone che “il giudice con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell'altra parte...”; e l'art. 92, secondo comma, dello stesso codice, prevede che “se vi è soccombenza reciproca o concorrano altri giusti motivi, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti...”.

La giurisprudenza di questa Corte ha precisato che, in base al disposto dell'art. 91, il giudice non può condannare al pagamento delle spese processuali la parte totalmente vittoriosa; in base, poi, al secondo comma dell'art. 92 è rimesso al potere del giudice l'accertamento della sussistenza dei giusti motivi, e quindi, l'apprezzamento dell'opportunità di compensare, in tutto o in parte, le spese stesse. Tale potere è discrezionale e può essere esercitato senza la necessità di alcuna specifica motivazione.

Ne consegue che la decisione del giudice di merito, in materia di spese processuali, è censurabile in sede di legittimità sotto il profilo della violazione di legge, solo quando le spese siano state poste, in tutto o in parte, a carico della parte totalmente vittoriosa; non è invece sindacabile, neppure sotto il profilo del difetto di motivazione, l'esercizio del potere discrezionale del giudice del merito sulla opportunità di compensare, in tutto o in parte, le spese medesime.

Con il motivo di ricorso incidentale l'Alitalia denunzia la violazione dell'art. 360 n. 3 e n. 5 del codice di procedura civile e l'omessa motivazione su un punto decisivo della controversia.

Lamenta che il Tribunale di Roma non abbia considerato che, dopo l'impiego in mansioni ritenute inferiori, l'Alitalia aveva assunto le iniziative necessarie per l'addestramento e il successivo impiego del signor Rosin come pilota e aveva così eliminato la stessa sussistenza del richiesto danno alla professionalità.

Il Tribunale, inoltre, non avrebbe tenuto presente che la posizione di pilota impiegato come CM3 era propria del pilota in addestramento; e ciò in virtù sia della sua partecipazione al volo, sia della rotazione del CM3 pilota al posto del copilota disposta, a sua discrezione, dal comandante.

Il motivo è infondato per le considerazioni svolte in relazione al secondo motivo del ricorso principale.

I due ricorsi devono pertanto essere rigettati.

Si ritiene equo dichiarare integralmente compensate tra le parti le spese di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta.  Dichiara integralmente compensate tra le parti le spese di questo giudizio di legittimità.

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