Demansionamento del coordinatore di risorse umane
 
Cass., sez. lav., 27 giugno 2007 n. 14813 - Pres. Senese - Rel. Nobile – Telecom Italia SpA (avv. Maresca, Tosi) c. T.G. (avv. Cipriani, Crugnola, Imberti).
 
Dequalificazione  delle mansioni del coordinatore di risorse – Fattispecie – Sussistenza -  Concorso di colpa del ricorrente per impugnativa dopo 2 anni – Insussistenza.
 
La Corte d’Appello, con specifico accertamento di merito e con motivazione adeguata e priva di vizi logici non ha affatto applicato un “proprietà transitiva della dequalificazione” - facendo derivare la dequalificazione del ricorrente dall' avvenuta dequalificazione dei lavoratori da esso coordinati -  ma ha riscontrato, invece, in concreto la lamentata dequalificazione proprio nei compiti specifici svolti dal capo turno Gianfranco T. prima e dopo il luglio 1997, in base alle risultanze istruttorie, dalle quali è risultato che gli è stato richiesto un minore apporto di conoscenze professionali specifiche.
Non può ravvisarsi un concorso di colpa sub specie dell'articolo 1227 c.c., nel semplice fatto "che sia stato proposto il giudizio dopo alcuni anni".
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 
Con sentenza del Giudice del lavoro del Tribunale di Milano n. 1977/2001 veniva dichiarata illegittima la dequalificazione subita dal 1/8/1997 da TR.Gi., dipendente della Te. It. s.p.a. capoturno presso il CLSUT di Milano ovest dal 1990, e veniva condannata la società al pagamento, a titolo risarcitorio, del 10 % della retribuzione per ogni mese di dequalificazione, oltre le spese.
Proponeva, quindi, appello la Te. sostenendo che il primo giudice aveva errato nel ritenere dequalificanti le nuove mansioni attribuite all'attore, posto che le stesse erano espressione di pari contenuto professionale e (tanto più che) erano state attuate in seguito a modifiche radicali dei servizi di utenza (corrispondenti ai numeri telefonici 187 e 12) realizzate con il consenso delle organizzazioni sindacali, come confermato anche da un accordo del (OMESSO).
Inoltre, secondo la società, il TR., svolgendo mansioni di capoturno, e quindi di supervisione e coordinamento dell'attività degli addetti ai servizi 12 e 187, non era intervenuto se non eccezionalmente nelle conversazioni con i clienti. La stessa attività, poi, di supervisione e di coordinamento aveva svolto anche dopo il (OMESSO) e fino alle dimissioni.
Lamentava, infine, la appellante che la quantificazione del danno era comunque eccessiva anche perché vi era stato concorso colposo del dipendente nella causazione del danno stesso stante la sua inerzia nel far valere il diritto.
Si costituiva, dal canto suo, l'appellato resistendo al gravame.
La Corte d'Appello, con sentenza depositata il 4/4/2003, confermava la sentenza appellata e condannava l'appellante alle spese.
In sostanza la Corte di merito rilevava che la sottrazione della supervisione e del coordinamento del servizio "187", in concreto ben più qualificante rispetto al servizio "12", costituiva illegittimo depauperamento delle mansioni del TR., e, escluso il concorso di colpa ex articolo 1227 c.c., nel mero fatto che il giudizio fosse stato proposto dopo alcuni anni, riteneva che la accertata dequalificazione implicava perdita di professionalità per il dipendente in questione e si risolveva così in danno patrimoniale derivante dalla sua conseguente diminuzione di "valore" sul mercato del lavoro.
La Corte d'Appello, quindi, quantificava il danno ex articolo 1226 c.c., nella misura del 10% della retribuzione mensile tenendo conto di tutte le circostanze del caso.
Per la cassazione della detta sentenza ha proposto ricorso la Te. It. s.p.a. con quattro motivi.
Il TR. ha resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex articolo 378 c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la Te. It. s.p.a., denunciando violazione e falsa applicazione dell'articolo 2103 c.c., e vizio di motivazione, deduce che la Corte d'Appello avrebbe configurato la dequalificazione del TR. "sulla base di una impiegabile "proprietà transitiva della dequalificazione" che non trova alcun riscontro nel nostro ordinamento", ritenendo, in sostanza, che "l'ipotetico demansionamento di un addetto al servizio si trasmetterebbe osmoticamente ai superiori gerarchici di questo, indipendentemente dalle mansioni concretamente svolte da questi ultimi, con conseguenze a dir poco aberranti". Rileva, altresì, in particolare, la ricorrente "la sostanziale indifferenza dei compiti del capo - turno e della sua professionalità, rispetto a quelli delle persone da questi coordinate".
Il motivo è infondato.
L'accertamento di fatto della dequalificazione operato dalla Corte d'Appello non scaturisce affatto dal mero riscontro del depauperamento delle mansioni svolte dagli addetti, coordinati dal capo turno TR. , bensì è incentrato soprattutto sulla mutate mansioni concretamente svolte da quest'ultimo, proprio nella sua attività di coordinamento e supervisione.
In particolare, la impugnata sentenza, afferma si che dal luglio 1997 i lavoratori già addetti al CLSUT, comprendente i servizi del "187" e del "12", erano stati adibiti esclusivamente al secondo servizio, con compiti ("mera ricerca dei numeri telefonici, indirizzi, etc. reperiti con la consultazione degli elenchi") meno qualificanti rispetto al primo ("informazioni, promozione, vendita di servizi e risposte adeguate al riguardo"). La stessa sentenza, nel contempo, nega però espressamente che per il TR. vi sia stato un "mutamento neutro" "per essere rimasta, quella da lui svolta, attività di supervisione e controllo e per risolversi, prima e dopo, nella gestione delle risorse umane", precisando che "proprio per far ciò, infatti, necessita una conoscenza professionale specifica... calibrata sulle esigenze del servizio e che per questo consenta a chi dirige di intervenire per risolvere i problemi che gli altri non sanno risolvere, di rimediare agli errori, di dare consigli opportuni, di capire le eventuali origini dei contrasti tra i dipendenti; il tutto con la autorevolezza, che appunto viene anche dalla conoscenza e che è un requisito strettamente legato alle mansioni di chi dirige; infatti, agevola moltissimo la conformazione spontanea e partecipata dei dipendenti alle indicazioni ricevute, la quale è fondamentale per il funzionamento di qualsiasi organizzazione. Che poi gli interventi del "capo " diretti sul campo possano essere più o meno numerosi conta pochissimo, contando invece, per compiti siffatti, il possesso degli strumenti per eseguirli.
Nel caso concreto ciò è ancora più vero se si considera che il capo turno aveva compiti anche di addestramento e aggiornamento inerente il servizio "187" (v. deposizioni assunte)".
La Corte d'Appello di Milano, quindi, con specifico accertamento di merito e con motivazione adeguata e priva di vizi logici, non ha affatto applicato una "proprietà transitiva della dequalificazione", ma ha riscontrato, invece, in concreto la lamentata dequalificazione proprio nei compiti specifici svolti dal capo turno TR. prima e dopo il luglio 1997, in base alle risultanze istruttorie.
Con il secondo motivo, la società, denunciando violazione e falsa applicazione dell'articolo 2697 c.c., in sostanza deduce che il TR. non avrebbe "fornito alcuna prova in merito al reale contenuto delle mansioni svolte (né quelle di provenienza né tanto meno quelle da ultimo assegnategli) per cui nessuna dequalificazione può ritenersi provata".
In particolare rileva la ricorrente che "nessuno dei testimoni..ha mai visto lavorare il sig. TR., né ha mai svolto mansioni analoghe alle sue, fatta eccezione per il sig. NE. il quale però, come ammesso dallo stesso, da un lato aveva da poco promosso una vertenza analoga con conseguente inutilizzabilità della sua deposizione, dall'altro aveva "visto" il ricorrente in un periodo del tutto irrilevante ai fini di causa".
Il motivo è inammissibile.
La censura, involge, in effetti, valutazioni strettamente di merito insindacabili in questa sede, risolvendosi il motivo, in sostanza, in una inammissibile richiesta di riesame del merito da parte di questa Corte.
Sul punto deve ribadirsi l'indirizzo consolidato in base al quale "la valutazione delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull'attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata" (v. Cass. 9/4/2001 n. 5231, Cass. 15/4/2004 n. 7201, Cass. 7/8/2003 n. 11933). Con il terzo motivo, la società, denunciando violazione e falsa applicazione degli articoli 2103, 1226, 1227, 2697 c.c., e vizio di motivazione, lamenta che la impugnata sentenza "muove dall'erroneo presupposto che il danno alla professionalità sarebbe "in re ipsa" e rileva che "nel caso di specie manca qualsiasi prova dell'asserito danno, ma vi è la prova inequivocabile della sua inesistenza, costituita dal comportamento tenuto dal sig. TR. che, al termine ormai della sua carriera si è dimesso con una congrua incentivazione (prima di intentare la causa)".
Anche tale motivo risulta inammissibile.
La impugnata sentenza ha affermato che la pronuncia di primo grado era stata appellata, oltre che sulla ritenuta dequalificazione in capo al TR., soltanto in relazione alla "quantificazione del danno" fatta dal primo giudice, la quale era stata, "comunque, eccessiva", anche perché vi era stato "concorso colposo del dipendente nella causazione del danno stante la sua inerzia nel far valere il diritto".
La Corte d'Appello, pertanto, trattando solo il punto della quantificazione del danno, ha rilevato che la "diminuzione di valore sul mercato del lavoro" subita dal TR. "è stata correttamente computata dal primo giudice in ragione del 10% della retribuzione mensile", precisando che "tale modesta percentuale tiene conto della durata piuttosto lunga della dequalificazione (e quindi della perdita di professionalità), del tipo di mansioni, delle ragioni alla base della condotta aziendale, delle avvenute dimissioni dell'attore".
Orbene la ricorrente non ha censurato la affermazione della Corte d'Appello circa la delimitazione del gravame alla sola quantificazione del danno operata dal primo giudice, di guisa che la censura riguardante la prova della sussistenza del danno non coglie nel segno la decisione impugnata.
Peraltro la ricorrente neppure ha fornito nel ricorso alcuna indicazione circa la deduzione nel giudizio di merito, ed in specie in appello, della questione oggetto dell'odierna censura, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso stesso (cfr. Cass. 15/2/2003 n. 2331, Cass. 10/7/2001 n. 9336).
Con il quarto motivo la società, denunciando violazione e falsa applicazione degli articoli 1227 e 1375 c.c., nonché vizio di motivazione, deduce in sostanza che il comportamento del TR. (che "ha atteso di conoscere l'esito delle controversie di altri lavoratori impiegati nello stesso Centro di Lavoro e solo dopo le proprie dimissioni con un incentivo pari a 20 mensilità ha depositato il suo ricorso...ad oltre due anni e mezzo dalla asserita dequalificazione.. ") va senz'altro qualificato come fatto colposo ai sensi dell'articolo 1227 c.c., non potendo la questione essere risolta con il rilievo che la legge consente la proposizione del giudizio nei limiti della prescrizione.
Il motivo è infondato in quanto, pur essendo indubbio che il rispetto del termine di prescrizione nella proposizione della azione non può valere ad escludere la applicabilità dell'articolo 1227 c.c., è altrettanto indubitabile che da tale rilievo non può, di per sé, scaturire il carattere colposo, ai sensi della detta norma, per il ritardo nella proposizione stessa.
Al riguardo questa Corte così come più volte ha affermato che tale ritardo può essere ritenuto, in concreto, comportamento colposo ex articolo 1227 c.c., del pari ha più volte negato che sussista un errore di diritto nelle sentenze di merito che abbiano escluso un siffatto comportamento per il solo detto ritardo (v. per tutte Cass. n. 22551 del 20/10/2006).
Nella fattispecie la impugnata sentenza non si è discostata da tali principi, in quanto ha in sostanza ritenuto, con valutazione di fatto riservata al giudice del merito, che non potesse ravvisarsi un concorso di colpa sub specie dell'articolo 1227 c.c., nel semplice fatto "che sia stato proposto il giudizio dopo alcuni anni".
Del resto la sentenza impugnata resiste anche alla generica denuncia di vizio di motivazione, non essendo indicati nel ricorso né elementi e circostanze decisivi che sarebbero stati trascurati dalla Corte d'Appello né specifici vizi logici nei quali la stessa sarebbe incorsa.
Il ricorso va pertanto respinto e la ricorrente va condannata alle spese.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro oltre euro 2.000,00, per onorari, oltre spese generali, IVA E CPA.

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