Demansionamento ed inattività per fatto non colpevole del datore di lavoro (liquidazione coatta amministrativa dell’azienda): insussistenza del risarcimento del danno

 

Cass. I sez. civ. 2 agosto 2006 n. 17564 – Pres. Proto - Rel. Napoleoni - Cenciarelli (avv. Pirani, Parascandolo) c. EFIMPIANTI s.p.a. in liquidazione coatta amministrativa (avv. Alessi, Bianconi, Contino)

 

Liquidazione coatta amministrativa dell’azienda – Conseguente demansionamento ed inattività del dirigente – Richiesta di danno da dequalificazione – Non compete in mancanza di scelta (e quindi di colpa) datoriale - Onere datoriale di fornire la prova liberatoria della non imputabilità del demansionamento ex art. 1218 c.c.

 

La violazione del diritto del lavoratore all'esecuzione della propria prestazione è fonte di responsabilità risarcitoria per il datore di lavoro: responsabilità che, peraltro, derivando dall'inadempimento di un'obbligazione, resta pienamente soggetta alle regole generali in materia di responsabilità contrattuale. Se essa prescinde, cioè, da uno specifico intento di declassare o svilire il lavoratore a mezzo della privazione dei suoi compiti, la responsabilità stessa deve essere nondimeno esclusa - oltre che nei casi in cui possa ravvisarsi una causa giustificativa del comportamento del datore di lavoro connessa dall'esercizio di poteri imprenditoriali, garantiti dall'art. 41 Cost., ovvero di poteri disciplinari (Cass., 6 marzo 2006, n. 4766; Cass., 3 giugno 1995, n. 6265) - anche quando l'inadempimento della prestazione derivi comunque da causa non imputabile all'obbligato: fermo restando che, in base alla generale previsione dell'art. 1218 cod. civ. (cfr. Cass., Sez. Un., 30 ottobre 2001, n. 13533), l'onere della prova della sussistenza delle ipotesi ora indicate grava sul datore di lavoro, in quanto avente, per questo verso, la veste di debitore (Cass., 6 marzo 2006, n. 4766). Come correttamente rimarcato dalla Corte territoriale, nessuna norma autorizza infatti a ritenere che, nella materia in esame, viga un principio di responsabilità oggettiva, per cui l'inadempimento dell'obbligo di adibire il lavoratore alle mansioni per cui é stato assunto obbligherebbe eo ipso il datore di lavoro a risarcire il danno anche nel caso di impossibilità sopravvenuta della prestazione senza sua colpa.

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso ex artt. 98 e 209 legge fallim. il Dott. Giuliano Cenciarelli proponeva davanti al Tribuna-le di Roma opposizione allo stato passivo della Efimpianti S.p.A. in liquidazione coatta amministrativa, dolendosi dell'esclusione di propri crediti derivanti dal rapporto di lavoro già intrattenuto, quale dirigente, con la predetta società, e relativi, da un lato, alla c.d. indennità supplementare al trattamento di fine rapporto, che assumeva competergli - nella misura di lire78.421.004 - tanto ai sensi dell'art. 1, comma 2-bis, del d.l. 22 novembre 1994, n. 643, aggiunto dalla legge di conversione 27 dicembre 1994, n. 738, quanto in forza dell'accordo integrativo del contratto collettivo nazionale di lavoro per i dirigenti industriali del 3 ottobre 1989; e, dall'altro lato, al risarcimento del danno da dequalificazione professionale - quantificato in lire 134.436.006 (pari a diciotto mensilità di retribuzione) - per la progressiva privazione della funzione dirigenziale patita nella fase del rapporto di lavoro precedente il licenziamento.

Con sentenza del 12 settembre 2000 l'adito Tribunale rigettava la domanda concernente l'indennità supplementare, accogliendo, invece, quella relativa al risarcimento del danno da dequalificazione professionale.

Avverso la decisione interponeva appello la liquidazione coatta, la quale lamentava - con riferimento al capo che la vedeva soccombente - che il primo Giudice non avesse tenuto conto della correlazione fra la riduzione dei compiti dell'opponente e la cessazione delle attività sociali, come pure della carenza di prove del nocumento dedotto in giudizio, del quale contestava in ogni caso la quantificazione.

Nel resistere al gravame, il Cenciarelli proponeva a propria volta appello incidentale riguardo al mancato riconoscimento del diritto all'indennità supplementare.

Con sentenza del 21 ottobre 2002 la Corte d'appello di Roma accoglieva l'appello principale, respingendo l'incidentale; di conseguenza, rigettava integralmente l'opposizione allo stato passivo proposta dal Cenciarelli, che condannava al pagamento della metà delle spese di entrambi i gradi del giudizio, compensando la residua metà.

Quanto all'appello principale, la Corte territoriale osservava come la violazione del diritto del prestatore di lavoro all'espletamento delle mansioni per le quali è stato assunto, sancito dall'art. 2103 cod. civ., possa ritenersi fonte di danno risarcibile, in base ai principi generali, solo qualora derivi da un comportamento colpevole del datore di lavoro. Nella specie, al contrario, alla luce della stessa prospettazione dei fatti contenuta nell'atto di opposizione allo stato passivo, nonché delle deduzioni istruttorie formulate dall'opponente in prime cure, la lamentata privazione della possibilità di espletare le proprie mansioni costituiva conseguenza diretta del generale ridimensionamento delle attività aziendali della Efimpianti, susseguente alla messa in liquidazione dell'EFIM (Ente Partecipazioni e Finanziamento Industria Manifatturiera), da cui l'Efimpianti stessa era controllata. La riduzione dell'impegno lavorativo dell'opponente era dunque dipesa non già da una scelta organizzativa del datore di lavoro, nella quale potessero ravvisarsi quantomeno gli estremi della colpa, ma da fattori estranei alla di lui volontà, legati alla diminuzione dei livelli di produttività dell'azienda, e dunque insuscettivi di fondare la pretesa risarcitoria dedotta in giudizio a meno di configurare a carico dell'imprenditore una responsabilità a carattere oggettivo.

Pienamente condivisibili dovevano ritenersi, per converso - ad avviso della Corte di merito - le conclusioni del primo Giudice riguardo alla non spettanza al Cenciarelli della c.d. indennità supplementare, essendo il suo rapporto di lavoro cessato in data anteriore a quella di entrata in vigore della legge n. 738 del 1994, che aveva attribuito ai dirigenti delle società controllate dall'EFIM il trattamento economico in questione. L'opponente era stato infatti licenziato a far data dal 2 agosto 1994 ed aveva incassato, nel successivo mese di settembre, l'indennità sostitutiva del preavviso, manifestando implicitamente con ciò la volontà di porre immediatamente termine al rapporto di lavoro, con conseguente inapplicabilità al medesimo di disposizioni legislative solo successivamente intervenute.

Né, d'altro canto, l'indennità in parola poteva competere all'opponente in base all'accordo del 3 ottobre 1989, integrativo del contratto collettivo nazionale di lavoro per i dirigenti di aziende industriali. La sfera applicativa di tale accordo risultava infatti circoscritta a specifiche ipotesi («ristrutturazione, riorganizzazione, riconversione, ovvero crisi settoriale o aziendale, accertate e dichiarate a norma dell'art. 2 della legge 12 agosto 1977, n. 675, nonché ... situazioni aziendali accertate dal Ministero del lavoro ai sensi dell'art. 1 della legge 19 dicembre 1984, n. 863», ed ancora «amministrazione straordinaria attuata ai sensi e con la procedura della legge 3 aprile 1979, n. 95») e non poteva essere dunque estesa a situazioni che apparivano non solo distinte, ma neppure assimilabili, quanto a finalità, rispetto a quelle espressamente contemplate, quale in specie la liquidazione coatta amministrativa.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso il Cenciarelli sulla base di tre motivi, cui resiste con controricorso la Efimpianti in liquidazione coatta amministrativa.

Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1. - Con il primo motivo il ricorrente deduce «violazione di legge (arti. 1362-1365 cod. civ.) e delle regole di interpretazione dei contratti in relazione all'accordo 3 ottobre 1989, allegato al C.C.L. per i dirigenti industriali», nonché omesso esame di un punto decisivo della controversia, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso il proprio diritto all'indennità supplementare in ragione della ritenuta estraneità della liquidazione coatta amministrativa al perimetro applicativo dell'accordo dianzi citato.

Premesso che l'indennità in questione è da esso prevista nel caso di cessazione del rapporto di lavoro del dirigente a seguito di «ristrutturazione, riorganizzazione, riconversione, ovvero crisi settoriale o aziendale», il ricorrente osserva come la cessazione del proprio rapporto di lavoro fosse stata determinata non già dalla liquidazione coatta amministrativa della Efimpianti, ma proprio da quella ristrutturazione cui l'accordo ricollega il pagamento dell'indennità: venendo, in fatti, il licenziamento motivato, nella relativa lettera del 31 agosto 1994, con la testuale affermazione che «tale situazione ha determinato una inevitabile riduzione e riorganizzazione delle attività societarie con conseguente ridimensionamento e soppressione di alcune posizioni», tra cui quella del ricorrente medesimo.

L'accordo ricollega inoltre l'indennità, in via alternativa, alla verificazione di una «crisi settoriale o aziendale», accertata e dichiarata da un atto amministrativo formale a norma dell'art. 2 della legge n. 675 del 1977 o dell'art. 1 della legge n. 863 del 1984, e, cioè, a situazioni in presenza delle quali viene erogata la cassa integrazione guadagni: costituendo, in effetti,l'indennità supplementare - negli intenti delle parti - una forma di tutela economica dei dirigenti industriali assimilabile alla cassa integrazione, normativamente prevista solo per gli impiegati e gli operai.

Nella specie, v'era prova della circostanza - peraltro pacifica tra le parti - che il personale dell'Efimpianti era stato posto in cassa integrazione: onde la liquidazione coatta amministrativa della società altro non era che la conseguenza della crisi aziendale già accertata con le modalità previste dall'accordo.

La Corte territoriale avrebbe dunque interpretato quest'ultimo in modo restrittivo e formalistico, senza indagare l'effettiva volontà delle parti, alla stregua della quale l'ipotesi dianzi indicata non poteva ritenersi esclusa dal suo ambito di operatività.

1.2. - Il motivo non merita accoglimento.

Per costante giurisprudenza di questa Corte, l'interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune è riservata al giudice del merito, la cui valutazione è censurabile in sede di legittimità soltanto sotto il profilo della violazione dei criteri di ermeneutica contrattuale ovvero della insufficienza o contraddittorietà della motivazione (ex plurímís, Cass., 16 febbraio 2006, n. 3402; Cass., 13 luglio 2005, n. 14769; Casa., 1° giugno 2005, n. 11691). La denuncia di tali vizi esige, d'altro canto, la specifica indicazione dei criteri interpretativi in concreto violati e del modo in cui il giudice del merito si sarebbe da essi discostato, ovvero delle ragioni della asserita obiettiva deficienza e contraddittorietà dell'íter logico seguito, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione di una interpretazione diversa da quella criticata, giacché, in tal caso, si solleciterebbe una valutazione che investe il «merito» dell'apprezzamento operato dal predetto giudice, affatto estranea ai confini del sindacato di legittimità (tra le altre, Cass., 5 dicembre 2005, n. 26351; Cass., 25 novembre 2003, n. 17993; Cass., 1° ottobre 2002, n. 14119; Cass., 21 luglio 2001, n. 9950).

Nel caso di specie - come già affermato da questa Corte in rapporto a fattispecie del tutto analoga (Cass., 2 novembre 2001, n. 13580) - il Giudice di appello è pervenuto alla conclusione interpretativa fatta oggetto di censura sulla scorta di motivazione congrua e scevra da vizi logico-giuridici. La Corte territoriale ha rilevato, infatti, come l'indennità supplementare al trattamento di fine rapporto fosse riconosciuta ai dirigenti di aziende industriali dall'accordo sindacale di cui si discute solo in presenza di situazioni specifiche e fortemente tipizzate - «ristrutturazione, riorganizza­zione, riconversione, ovvero crisi settoriale o aziendale, accertate e dichiarate a norma dell'art. 2 della legge 12 agosto 1977, n. 675»; «situazioni aziendali accertate dal Ministero del lavoro ai sensi dell'art. 1 della legge 19 dicembre 1984, n. 863»; «amministrazione straordinaria (gestione commissariale) attuata ai sensi e con la procedura della legge 3 aprile 1979, n. 95» - derivandone quindi l'impossibilità di far luogo ad una estensione in via analogica del relativo campo applicativo ad ipotesi non espressamente previste, quale segnatamente quella della risoluzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato del dirigente susseguente all'assoggettamento del datore di lavoro alla procedura di liquidazione coatta amministrativa: estensione della quale mancherebbero per giunta i presupposti, stante il carattere prettamente liquidativo dell'anzidetta procedura concorsuale, che - al di là del «comune denominatore» della crisi aziendale - non permette comunque di assimilarla alle situazioni contemplate nell'accordo, connotate da un intento lato sensu conservativo.

La censura di violazione dei criteri di ermeneutica contrattuale che il ricorrente muove a tale ricostruzione si palesa, invero, del tutto generica, risultando formulata sulla base di un onnicomprensivo e indistinto richiamo agli artt. 1362-1365 cod. civ., senza che vengano specificate le singole regole interpretative concretamente violate dal Giudice del merito, né il punto ed il modo in cui la supposta violazione si sarebbe realizzata: onde, in sostanza, la doglianza si esaurisce - inammissibilmente - nella proposta di una ricostruzione alternativa e in assunto piú attendibile della volontà negoziale (cfr., con riferimento a fattispecie concreta identica alla presente, Cass., 26 maggio 2005, n. 11089).

Né giova, d'altra parte - in rapporto al dedotto vizio di omesso esame di un punto decisivo della controversia - il riferimento alla circostanza che il licenziamento sia stato motivato evocando la «inevitabile riduzione e riorganizzazione delle attività societarie» determinata dall'apertura della liquidazione coatta amministrativa, trattandosi di «riorganizzazione» comunque distinta - al lume della ricostruzione operata dalla Corte di merito - da quella presa in considerazione dall'accordo. Così come resta priva di rilievo l'ulteriore eventualità, pure prospettata dal ricorrente, che la liquidazione coatta amministrativa fosse stata preceduta da una crisi aziendale rientrante in ipotesi fra quelle considerate dall'accordo, ma nel corso della quale il rapporto di lavoro del dirigente non sia stato comunque risolto. Al riguardo, si palesa invero non conferente il richiamo alle pronunce di questa Corte che, in rapporto ad analoghi accordi sindacali, hanno ritenuto che non valga ad escludere il diritto all'indennità la mancata menzione espressa, nell'atto di licenziamento, di una delle ipotesi previste dagli accordi stessi, quante volte la soppressione del posto di lavoro rappresenti comunque la diretta conseguenza della situazione di «crisi» attraversata dall'impresa (così in particolare Casa., 23 febbraio 2004, n. 3572, citata nella memoria illustrativa del ricorrente): trattandosi, infatti, di pronunce relative ad ipotesi di avvenuto assoggettamento del datore di lavoro alla procedura di amministrazione straordinaria, ricompresa tra quelle contemplate (v. pure, analogamente, Cass., 13 luglio 2005, n. 14769).

2.1. - Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge in relazione all'art. 1, comma 2-bis, del d.l. n. 643 del 1994, conv. in legge n. 738 del 1994.

Tale disposizione ha esteso ai dirigenti delle società finanziarie caposettore, delle società di servizi e delle società di servizi finanziari controllate dall'EFIM la previsione di cui all'art. 3, comma 2-quater, del d.l. 19 dicembre 1992, n. 487, conv., con modif., in legge 17 febbraio 1993, n. 33, che riconosceva ai dirigenti dell'EFIM stesso, licenziati a seguito della soppressione di tale ente, i «trattamenti previsti dai contratti o dagli accordi vigenti applicabili al momento del licenziamento per i casi di ristrutturazione, riorganizzazione, riconversione, ovvero crisi settoriale o aziendale», e dunque anche l'indennità supplementare al trattamento di fine rapporto.

Il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso che egli potesse usufruire di tale emolumento per essere il suo rapporto di lavoro cessato in data anteriore a quella di entrata in vigore della norma che l'ha introdotto.

L'assunto non potrebbe essere condiviso, giacché, per il principio della c.d. efficacia reale del preavviso, il rapporto di lavoro del ricorrente doveva ritenersi cessato non già alla data indicata nella lettera di licenziamento - 31 agosto 1994 - ma solo alla scadenza del periodo di preavviso, pari ad otto mesi e mezzo, e cioè nel maggio 1995: ben oltre, dunque, la data di entrata in vigore della legge n. 738 del 1994.

Né assumerebbe rilievo, in senso contrario, l'avvenuta accettazione, da parte del ricorrente, dell'indennità sostitutiva del preavviso. Alla stregua della consolidata giurisprudenza di legittimità, infatti, il datare di lavoro non può provocare la cessazione immediata del rapporto di lavoro esonerando il lavoratore dalle prestazioni ed offrendogli l'indennità di preavviso, se non a seguito di accordo intervenuto tra le parti: accordo che non potrebbe, nella specie, ritenersi concluso neppure soltanto per facta concludentia, avendo il ricorrente prontamente instaurato un contenzioso nei confronti dell'Efimpianti, col proporre sin dal settembre 1994 la domanda di ammissione al passivo della liquidazione coatta amministrativa che ha originato il presente giudizio.

2.2. - Anche tale motivo è infondato.

Come reiteratamente affermato da questa Corte, il principio in base al quale il preavviso di licenziamento comporta la prosecuzione del rapporto di lavoro e di tutte le connesse obbligazioni fino alla scadenza del termine di preavviso è derogabile per accordo delle parti, le quali possono pattuire l'esonero dagli obblighi relativi alle reciproche prestazioni, determinando con ciò la cessazione immediata del rapporto di lavoro. L'accertamento in ordine all'esistenza di tale accordo - che è desumibile anche da comportamenti concludenti, tra cui, in specie, l'accettazione senza riserve da parte del lavoratore dell'indennità sostitutiva del preavviso - costituisce oggetto di apprezzamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione immune da errori logici e giuridici (Cass., 8 maggio 2004, n. 8797; Cass., 26 maggio 2000, n. 6914; Cass., 29 luglio 1999, n. 8256).

Nella specie, la Corte di merito ha ravvisato l'esistenza di un simile accordo per l'appunto nella circostanza che il ricorrente - licenziato nell'agosto 1994 - abbia percepito nel mese di settembre 1994 l'indennità sostitutiva del preavviso. Né ad inficiare la correttezza logica della conclusione può valere il rilievo dell'avvenuta presentazione, da parte del ricorrente stesso, della domanda di ammissione al passivo della liquidazione coatta amministrativa, posto che tale domanda non era affatto volta a contestare l'avvenuta risoluzione del rapporto (o la data della medesima), ma unicamente a far valere particolari e distinte ragioni di credito (indennità supplementare e risarcimento del danno per il pregresso demansionamento).

Del tutto correttamente, pertanto, la Corte di merito ha escluso che a1 ricorrente potessero competere emolumenti introdotti da una disposizione legislativa entrata in vigore in epoca successiva a quella dell'accettazione dell'indennità sostitutiva del preavviso (con riferimento a identiche fattispecie concrete, Cass., 26 maggio 2005, n. 11089; Casa., 2 novembre 2001, n. 13580).

3.1. - Con il terzo motivo il ricorrente lamenta violazione di legge (artt. 1226 e 2103 cod. civ.) e falsa applicazione di norme di diritto (art. 2697 cod. civ.), in relazione all'art. 360, primo comma, nn. 3 e 5 cod. civ., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha disatteso la propria domanda di risarcimento del danno da dequalificazione professionale sul rilievo che non sarebbero stati addebitati all'Efimpianti comportamenti illegittimi, essendo la dequalificazione conseguita ad eventi indipendenti dalla volontà del datore di lavoro e legati alla contrazione dell'attività aziendale.

Posto, infatti, che a mente dell'art. 2103 cod. civ. il dipendente ha il diritto (oltre che il dovere) di svolgere le mansioni per le quali è stato assunto, l'inadempimento di tale obbligazione contrattuale dovrebbe ritenersi fonte di danno risarcibile indipendentemente dalla volontà o meno del datore di lavoro di dequalificare il dipendente stesso. Per giurisprudenza consolidata, d'altra parte, detto danno è bene liquidabile in via equitativa, anche in mancanza di specifica prova sulle singole voci di pregiudizio, connettendosi al fatto stesso dell'esautoramento del dipendente dalle sue funzioni. Onde solo di quest'ultima circostanza il ricorrente era tenuto a fornire prova.

Tale onere probatorio era stato, in effetti, ampiamente assolto, essendo emerso dai documenti prodotti e dall'istruttoria espletata in prime cure che - così come puntualmente affermato dal Tribunale - la posizione lavorativa del ricorrente ebbe a modificarsi, in senso peggiorativo, «già all'atto della messa in liquidazione dell'EFIM» (avvenuta nel luglio 1992), cui aveva fatto seguito «il progressivo svuotamento delle funzioni di dirigente a far tempo dal gennaio 1993, sino a giungere all'inattività pressoché totale nel marzo 1994».

3.2. - Il motivo è infondato.

Questa Corte ha avuto di modo di affermare ripetutamente che il lavoratore - cui l'art. 2103 cod. civ. (nel testo sostituito dall'art. 13 della legge 20 maggio 1970, n. 300), con norma applicabile anche ai dirigenti, riconosce esplicitamente il diritto a svolgere le mansioni per le quali è stato assunto ovvero equivalenti alle ultime effettivamente svolte - ha a fortiori il diritto a non essere lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazione di compiti, ancorché sen­za conseguenze sulla retribuzione: e, dunque, non solo il dovere, ma anche il diritto all'esecuzione della propria prestazione lavorativa - cui il datore di lavoro (tradizionalmente considerato come creditore esclusivo della medesima) ha il correlativo obbligo di adibirlo - costituendo il lavoro non solo un mezzo di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino (Cass., 6 marzo 2006, n. 4766; Cass., 3 giugno 1995, n. 6265; Cass., 13 agosto 1991, n. 8835). Nel riconoscere l'esistenza di un interesse giuridicamente tutelato del lavoratore all'esecuzione della pro­pria prestazione, il citato art. 2103 cod. civ. viene infatti a saldarsi, dando loro concretezza applicativa, con le indicazioni ricavabili dalla Carta costituzionale (artt. 4 e 35), a fronte delle quali il lavoro si configura non soltanto come una fonte di sostentamento (così che il solo interesse rilevante del prestatore sarebbe, in una prospettiva di scambio, quello al pagamento della retribuzione); ma anche uno strumento tramite il quale ciascuna persona realizza le proprie capacità, contribuendo al tempo stesso al progresso e all'evoluzione del consesso sociale.

La violazione di tale diritto del lavoratore all'esecuzione della propria prestazione è fonte di responsabilità risarcitoria per il datore di lavoro: responsabilità che, peraltro, derivando dall'inadempimento di un'obbligazione, resta pienamente soggetta alle regole generali in materia di responsabilità contrattuale. Se essa prescinde, cioè, da uno specifico intento di declassare o svilire il lavoratore a mezzo della privazione dei suoi compiti, la responsabilità stessa deve essere nondimeno esclusa - oltre che nei casi in cui possa ravvisarsi una causa giustificativa del comportamento del datore di lavoro connessa dall'esercizio di poteri imprenditoriali, garantiti dall'art. 41 Cost., ovvero di poteri disciplinari (Cass., 6 marzo 2006, n. 4766; Cass., 3 giugno 1995, n. 6265) - anche quando l'inadempimento della prestazione derivi comunque da causa non imputabile all'obbligato: fermo restando che, in base alla generale previsione dell'art. 1218 cod. civ. (cfr. Cass., Sez. Un., 30 ottobre 2001, n. 13533), l'onere della prova della sussistenza delle ipotesi ora indicate grava sul datore di lavoro, in quanto avente, per questo verso, la veste di debitore (Cass., 6 marzo 2006, n. 4766). Come correttamente rimarcato dalla Corte territoriale, nessuna norma autorizza infatti a ritenere che, nella materia in esame, viga un principio di responsabilità oggettiva, per cui l'inadempimento dell'obbligo di adibire il lavoratore alle mansioni per cui é stato assunto obbligherebbe eo ipso il datore di lavoro a risarcire il danno anche nel caso di impossibilità sopravvenuta della prestazione senza sua colpa.

Nel caso in esame, la Corte territoriale ha ritenuto che sussistesse giust'appunto la prova della non imputabilità all'Efimpianti dell'inadempimento dedotto in giudizio, giacché, sulla scorta delle risultanze processuali, la progressiva privazione della possibilità di espletare le proprie funzioni dirigenziali, patita dal ricorrente a partire dal gennaio 1993, sino a giungere alla pressoché totale inattività nel marzo 1994, era dipesa da fattori oggettivi del tutto estranei alla sfera della volontà del datore di lavoro: ponendosi, in specie, il lamentato demansionamento in diretta correlazione con la generale contrazione delle attività imprenditoriali dell'Efimpianti seguita alla messa in liquidazione dell'EFIM, la quale aveva comportato, in pratica, il «blocco» di ogni attività, fatta eccezione per la definizione delle commesse già in corso.

Le censure formulate dal ricorrente non investono, d'altro canto, il decisivo profilo ora indicato, vertendo, nella sostanza, esclusivamente sugli aspetti - non conferenti - della generale sussistenza, "a monte", del diritto del lavoratore allo svolgimento della propria prestazione professionale; e della possibilità, "a valle", di liquidare il danno conseguente alla violazione di tale diritto in via equitativa, anche a prescindere da una specifica prova del nocumento dedotto.

Giova soggiungere, per completezza, che la conclusione raggiunta non si pone in contrasto con la precedente decisione di questa Corte, invocata dal ricorrente, relativa a fattispecie analoga, concernente altra società del gruppo EFIM posta anch'essa in liquidazione coatta amministrativa: decisione che ha respinto il ricorso della procedura volto a contestare il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno da dequalificazione professionale nell'occasione operato dalla pronuncia di appello (Cass., 2 novembre 2001, n. 13580; in direzione contraria, tuttavia, Cass., 26 maggio 2005, n. 11089). In detta circostanza, difatti, formava oggetto di ricorso unicamente il punto relativo alla asserita carenza di prova del danno in questione, e non anche quello della non imputabilità dell'inadempimento al datore di lavoro.

4. - Il ricorso va pertanto rigettato.

La relativa novità - al momento della presentazione del ricorso - delle questioni oggetto di giudizio fa apparire equa la compensazione fra le parti delle speseCasella di testo: è.
 processuali nella misura della metà, con condanna del ricorrente, in base al principio della soccombenza, al rimborso in favore della liquidazione coatta amministrativa della residua metà, liquidata come in dispositivo.

P. Q. M.

La Corte

rigetta il ricorso; compensa nella misura della metà le spese processuali, condannando il ricorrente al rimborso in favore della Efimpianti S.p.A. in liquidazione coatta amministrativa della residua metà, liquidata, per tale quota, in euro 2.600, di cui euro 100 per esborsi ed euro 2.500 per onorari, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 22 maggio 2006 (depositata il 2 agosto 2006).

 

Nota

 

La sentenza afferma la non risarcibilità del danno da demansionamento e/o inattività di un dirigente, non derivante da scelta organizzativa aziendale o da esercizio (illegittimo) dei poteri disciplinari, ma conseguente ad impossibilità sopravvenuta della prestazione discendente da liquidazione coatta amministrativa dell'azienda, evidenziando che non sussiste a carico dell'azienda una responsabilità oggettiva, tale da legittimare un indennizzo.

Nihil novi sub sole!

Anzi la 1° sezione civile della Cassazione consolida l'orientamento (da noi sostenuto a più riprese sulla base del riparto degli oneri probatori delineato da Cass. sez. un. n. 13533/2001) l'orientamento esplicitato recentissimamente da Cass. sez. lav. n. 4766/2006 (est. Nobile) secondo cui grava  sul datore di lavoro - debitore dell'esatto adempimento dell'obbligazione di far lavorare il prestatore, sulla base delle mansioni pattuite o acquisite successivamente per progressione di carriera - dimostrare di non aver dequalificato il dipendente (che adduce l'inadempimento) ovvero che il demansionamento si è realizzato per fatto non dipendente dalla propria volontà o scelta organizzativa, cosicché incombe sul datore di lavoro fornire la prova liberatoria atta a contrastare l'addebito del lavoratore.

Nonostante questi aspetti del tutto positivi, condivisibili e tutt'altro che innovativi, la sentenza è stata letta in senso aziendalmente favorevole - tanto da associarla al precedente di Cass. sez. un. n. 6752 del 24 marzo 2006 (questa invero caratterizzata da favor aziendale o quantomeno da sfavore verso i lavoratori subordinati) -  dal redattore del "Il Sole - 24 Ore" dell'11 agosto 2006, che ha confezionato il pezzo, a commento, che di seguito si riporta (il cui titolo riflette un vero e proprio auspicio di parte, tutt'altro che disinteressato):

«Mobbing, indennizzo difficile 

di Guido Pietrosanti

Il lavoratore dequalificato non ha diritto al risarcimento del danno, se il datore di lavoro prova che il demansionamento non dipende dalla propria condotta. La Cassazione ha affermato questo principio con la sentenza 17564 depositata il 2 agosto.

I presupposti del danno

Il demansionamento si era verificato in diretta correlazione con la contrazione dell'attività dell'azienda, che si trovava in stato di liquidazione coatta amministrativa.

La Suprema corte ricorda che la violazione del diritto del lavoratore a svolgere la propria prestazione lavorativa (e, appunto, a non essere dequalificato) fa scattare l'obbligo di risarcimento (responsabilità risarcitoria) per il datore di lavoro, secondo le regole generali sulla responsabilità contrattuale.

Pertanto, la responsabilità, se esiste anche in assenza dell'intenzione di dequalificare il dipendente, è invece «esclusa - oltre che nei casi in cui possa ravvisarsi una causa giustificativa del comportamento del datore di lavoro connessa all'esercizio di poteri imprenditoriali, garantiti dall'articolo 41 della Costituzione, ovvero di poteri disciplinari (...) - anche quando l'inadempimento della prestazione derivi comunque da causa non imputabile all'obbligato: fermo restando che, in base alla generale previsione dell'articolo 1218 del Codice civile (...) l'onere della prova della sussistenza delle ipotesi ora indicate grava sul datore di lavoro, in quanto avente, per questo verso, la veste di debitore».

Insomma, dalla mancanza di una responsabilità oggettiva deriva che il datore di lavoro non è tenuto a risarcire il danno causato dal demansionamento, anche nel caso d'impossibiltà della prestazione senza sua colpa.

Il diritto alla mansione

Se su questo versante arriva dunque una conclusione innovativa, la sentenza tiene, invece, fermo l'altro cardine della giurisprudenza in tema di dequalificazione: il lavoratore ha, non solo il dovere, ma il diritto a svolgere la propria prestazione, poiché il lavoro costituisce non solo un mezzo di guadagno, ma anche uno strumento di espressione della personalità.

Inoltre, il dipendente non può essere lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazione di compiti, anche se la sua retribuzione non viene diminuita.

La pronuncia fornisce poi altre indicazioni alle aziende. Infatti, in una controversia analoga, un'altra società del gruppo coinvolto nel procedimento deciso con la sentenza depositata il 2 agosto era uscita perdente, ma ora la Cassazione puntualizza che in quel caso l'impresa si era limitata ad affermare la mancanza della prova del danno (da dequalificazione), mentre non aveva messo in discussione la possibilità di far risalire l'inadempimento al datore di lavoro.

Le Sezioni unite

Altre regole di comportamento, le aziende possono trarle dalla pronuncia delle Sezioni unite della Cassazione, del 24 marzo. Questa sentenza, componendo il contrasto in materia interno alla sezione lavoro, ha rimarcato la distinzione tra inadempimento e danno risarcibile, che non ne è conseguenza automatica. La pronuncia rileva che «la forma rimediale del risarcimento del danno opera solo in funzione di neutralizzare la perdita sofferta, concretamente, dalla vittima, mentre l'attribuzione a essa di una somma di denaro in considerazione del mero accertamento della lesione, finirebbe con il configurarsi come somma-castigo, come una sanzione civile punitiva, inflitta sulla base del solo inadempimento, ma questo istituto non ha vigenza nel nostro ordinamento».

Il diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico e esistenziale non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso, in merito alla natura e alle caratteristiche del pregiudizio subito.

La sentenza

Cassazione, I sezione civile, n. 17564 del 2 agosto 2006

La violazione di tale diritto del lavoratore all'esecuzione della propria prestazione è fonte di responsabilità risarcitoria per il datore di lavoro: responsabilità che, peraltro, derivando dall'inadempimento di un'obbligazione, resta pienamente soggetta alle regole generali in materia di responsabilità contrattuale. Se essa prescinde, cioè, da uno specifico intento di declassare o svilire il lavoratore a mezzo della privazione dei suoi compiti, la responsabilità stessa deve essere nondimento esclusa (...) anche quando l'inadempimento della prestazione derivi comunque da causa non imputabile all'obbligato».

 

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