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Inattività non imputabile
al datore non concretizza demansionamento
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Cass., sez. lav., 30 luglio 2009 n. 17778 – Pres.
Ianniruberto – Rel. Napoletano -
MARISTELLA S.R.L. (avv. Ciprietti) c. P.A. (avv.ti Roccia, Di Risio, De
Simone)
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Inattività forzata indipendente dal datore di lavoro – Non attualizza
demansionamento risarcibile.
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Il lavoratore ha il diritto di svolgere la propria prestazione e di non
essere lasciato inattivo, poiché il lavoro non è solo fonte di
sostentamento, ma anche mezzo per la realizzazione delle proprie capacità e
contribuzione al progresso e all'evoluzione del consesso sociale. La
violazione di tale diritto è fonte di responsabilità per il datore di
lavoro, pienamente soggetta alle regole della responsabilità contrattuale;
ne deriva che se essa prescinde da uno specifico intento di svilire o
declassare il lavoratore a mezzo della privazione dei suoi compiti, la
responsabilità deve essere esclusa, oltre che nei casi in cui possa
ravvisarsi una causa giustificativa del comportamento del datore di lavoro,
connessa all'esercizio di poteri imprenditoriali garantiti dall' art. 41
cost. o di poteri disciplinari, anche quando l'inadempimento della
prestazione derivi comunque da causa non imputabile all'obbligato datore di
lavoro, che resta gravato dell' onere della relativa prova.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
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P.A., con ricorso notificato in data 8/4/97, conveniva, dinanzi al Tribunale
di Chieti, la società Maristella, della quale era dipendente dal gennaio
1991 con mansioni di educatrice, e, sulla premessa di essere stata collocata
in ferie forzate, sin dal 6/2/1996 senza soluzione di continuità, chiedeva,
previa declaratoria dell'illegittimità del provvedimento datoriale, la
condanna della società alla reintegra nelle proprie mansioni ed al
risarcimento del danno professionale conseguente al mancato espletamento
dell'attività lavorativa.
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Il Tribunale di Chieti accoglieva la domanda determinando il danno nella
misura del 30% della retribuzione globale di fatto per ogni mese in cui la
ricorrente non era stata adibita alle mansioni di appartenenza sino alla
reintegra.
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La Corte di Appello dell'Aquila confermava la sentenza impugnata.
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I giudici di appello, quanto alla illegittimità del comportamento datoriale,
ponevano a base della decisione il rilievo fondante che nel momento in cui
la società non aveva dato seguito alla procedura di mobilità e non aveva
riassorbito nell'ambito della sua struttura il lavoratore eccedentario, in
alcun modo trovava giustificazione una collocazione in ferie perdurante
ininterrottamente per sei anni in quanto "o l'azienda, trovandosi nella
impossibilità di ricollocare il lavoratore, lo licenzia, ovvero lo riprende
a lavorare". Quanto al danno professionale i giudici di secondo grado
ritenevano sussistente la prova presuntiva dello stesso "stante che il lungo
tempo per il quale si é protratta l'inattività comporta non solo il mancato
accrescimento delle conoscenze professionali, ma, in caso di assoluta
inattività, il venire meno anche delle conoscenze e capacità acquisite,
proprio per la mancata utilizzazione delle stesse, tanto più in una attività
che non é manuale e ripetitiva, ma postula comunque conoscenze qualificate".
Consideravano, infine, condivisibile il riferimento, operato dal giudice di
primo grado, per la quantificazione del danno, al 30% della retribuzione
mensile risultando tale quota ragionevole in considerazione "dell'estensione
del demansionamento, che é stato totale, del tempo trascorso, dell'età della
lavoratrice, ancora molto lontana dal pensionamento, ma tale da rendere più
difficile il recupero della professionalità".
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Avverso tale sentenza la società in epigrafe ricorreva in Cassazione sulla
base di tre censure, cui resisteva, con controricorso, la intimata.
MOTIVI DELLA DECISIONE
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Con il primo motivo la società deduce violazione degli artt. 115 e 116
c.p.c. nonché insufficiente e contraddittoria motivazione.
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Allega la contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata
laddove i giudici di appello, prima danno atto di una situazione di esubero
del personale, e poi affermano che la lavoratrice non doveva essere
collocata a disposizione, ma provvedere a licenziarla o a riammetterla in
servizio. Né, aggiunge, si é tenuto conto della avvenuta modifica della
tipologia dei pazienti.
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Con la seconda censura la società denuncia violazione e /o falsa
applicazione dell'art. 2103 c.c. e dell'art. 41 Cost., nonché insufficiente
e contraddittoria motivazione.
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Assume che la Corte territoriale ha violato l'art. 2103 c.c. non tenendo
conto che la lavoratrice non é stata tenuta inattiva sul posto di lavoro e
che, comunque, il diritto riconosciuto da tale norma al lavoratore incontra
un limite nel legittimo esercizio dei poteri datoriali garantiti dall'art.
41 Cost. nella ricorrenza di giustificabili e comprovate ragioni
organizzative e tecniche.
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Con il terzo motivo del ricorso la società sostiene violazione e/o falsa
applicazione dell'art. 1218, 1223, 2116 e 2697 c.c. nonché insufficiente e
contraddittoria motivazione.
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Afferma, al riguardo, che la sentenza impugnata é in contrasto, non solo con
il principio che la dequalificazione non é di per sé elemento sufficiente a
surrogare l'assenza di prove relative al danno ulteriore dedotto dal
lavoratore, ma anche con la regola iuris secondo la quale la
valutazione equitativa del danno é ammissibile solo quando vi sia la prova
dello stesso.
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Denuncia che i giudici di secondo grado non hanno indicato l'iter
logico e valutativo seguito per far ricorso all'esercizio in concreto del
potere discrezionale conferitogli di liquidare il danno in via equitativa.
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I primi due motivi del ricorso, che in quanto logicamente e giuridicamente
strettamente connessi vanno tratti congiuntamente, sono fondati nel senso di
seguito indicato.
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É oramai principio di diritto vivente, nella giurisprudenza di questa Corte,
che il lavoratore - cui l'art. 2103 c.c. riconosce esplicitamente il diritto
a svolgere le mansioni per le quali é stato assunto ovvero equivalenti alle
ultime affettivamente svolte - ha a fortiori il diritto a non essere
lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazione di
compiti, ancorché senza conseguenze sulla retribuzione e, dunque, non solo
il dovere, ma anche il diritto all'esecuzione della propria prestazione
lavorativa - cui il datore di lavoro ha il correlativo obbligo di adibirlo -
costituendo il lavoro non solo un mezzo di guadagno, ma anche un mezzo di
estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino (Cass. 28274/08,
11142/08, 17564/0611430/06, 4766/06, 6265/95, 8835/91).
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L'art. 2103 c.c., nel sancire l'esistenza di un interesse giuridicamente
tutelato del lavoratore all'esecuzione della propria prestazione, ha
osservato questa Corte (sent. 17564/06 cit.), viene, infatti, a coniugarsi
con le indicazioni dalla Carta costituzionale (artt. 4 e 35), in ragione
delle quali il lavoro non é soltanto fonte di sostentamento (così che il
solo interesse rilevante del prestatore sarebbe, in una prospettiva di
scambio, quello al pagamento della retribuzione), ma anche uno mezzo
attraverso il quale la persona realizza le proprie capacità, contribuendo al
tempo stesso al progresso e all'evoluzione del consesso sociale. La
violazione di tale diritto del lavoratore all'esecuzione della propria
prestazione é fonte di responsabilità risarcitoria per il datore di lavoro
responsabilità che, peraltro, derivando dall'inadempimento di
un'obbligazione, resta pienamente soggetta alle regole generali in materia
di responsabilità contrattuale. Se essa prescinde, cioé, da uno specifico
intento di declassare o svilire il lavoratore a mezzo della privazione dei
suoi compiti, la responsabilità stessa deve essere nondimeno esclusa - oltre
che nei casi in cui possa ravvisarsi una causa giustificativa del
comportamento del datore di lavoro connessa dall'esercizio di poteri
imprenditoriali, garantiti dall'art. 41 Cost., ovvero di poteri disciplinari
- anche quando l'inadempimento della prestazione derivi comunque da causa
non imputabile all'obbligato fermo restando che, in base alla generale
previsione dell'art. 1218 c.c., l'onere della prova della sussistenza delle
ipotesi ora indicate grava sul datore di lavoro, in quanto avente, per
questo verso, la veste di debitore.
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Nel caso in esame, la Corte territoriale discostandosi dai richiamati
principi, non ha tenuto in alcuna considerazione il profilo della
imputabilità o meno alla società dell'inadempimento dedotto in giudizio e
ciò é tanto più evidente se si considera che i giudici di secondo grado
danno atto, nella sentenza impugnata, che "dalla documentazione versata in
atti, nonché dalle prove testimoniali raccolte, risulta che effettivamente
la odierna appellante, subentrando ad altra società ed avendo dimesso un
certo numero di pazienti, che riteneva non potessero usufruire del ricovero,
si trovò a fronteggiare un esubero di personale, a causa del quale avviò una
procedura di mobilità, procedura che venne sospesa, a seguito di un incontro
con i sindacati, in attesa dell'autorizzazione della Regione ad aprire altra
struttura, in cui assorbire gli esuberi".
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I primi due motivi del ricorso, nell'esame dei quali rimane assorbito il
terzo, vanno, pertanto, accolti e conseguentemente la sentenza impugnata va
cassata, con rinvio, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla
Corte di Appello indicata in dispositivo che si adeguerà ai principi di
diritto sopra enunciati.
P.Q.M.
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LA CORTE Accoglie i primi due motivi del ricorso, dichiara assorbito il
terzo, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese del giudizio
di legittimità, alla Corte di Appello di Roma.
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Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 24 giugno 2009.
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Depositato in Cancelleria il 30 luglio 2009
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