Danno da dequalificazione: va provato da lavoratore, anche in via presuntiva

 

Cass. sez. lav. 7 settembre 2005 n. 17812 – Pres. Ciciretti – Rel. Roselli – Gi. Ti. c. Rete Ferroviaria Italiana SpA

 

Demansionamento – Perdita di chances e di capacità professionali – Onere della prova sul lavoratore, anche attraverso indici presuntivi ex art. 2727 c.c.

 

E' possibile che l'assegnazione a mansioni inferiori (suole parlarsi di demansionamento o dequalificazione) abbia prodotto – oltre a sottoremunerazione - la perdita di favorevoli opportunità economiche (si usa l'espressione francese perle de chances). Questo è un danno risarcibile quando la perdita possa dal lavoratore essere provata, anche attraverso indici presuntivi (art. 2727 cod. civ.), mentre l'ammontare del danno sarà liquidato dal giudice in via equitativa, se necessario (art. 1226 cod. civ.).

La perdita di conoscenze e di esperienze professionali, conseguita all'abbandono delle precedenti e superiori mansioni, costituisce un'altra voce di danno, tuttavia sempre assoggettata all'onere della prova (art. 2697 cod. civ.): il lavoratore dovrà così provare, ad esempio, di non aver potuto apprendere l'uso di certe macchine o di certe tecniche oppure di non avere seguito corsi di qualificazione o di aggiornamento.

Si parla talvolta di perdita di "immagine professionale" ossia di prestigio nell'ambiente di lavoro, da considerare come danno non patrimoniale risarcibile comunque nei limiti dell'art. 2059 cod. civ. Questo è stato però riconosciuto dal Tribunale.

Parimenti soggetto alla regola dell'onere della prova (art. 2697 cod. civ.) è il danno alla salute psichica che in alcuni casi possa conseguire al demansionamento (Cass. 11 agosto 1998 n. 7905, 19 marzo 1999 n. 2561, 5 novembre 2003 n. 16626).

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso del 14 maggio 1991 al Pretore di Roma,  Gi. Ti. esponeva di essere stato nominato, dal datore di lavoro Ente ferrovie dello Stato, direttore del dipartimento potenziamento e sviluppo, caratterizzato da struttura particolarmente complessa e con circa 14.500 dipendenti,   e  di esserne stato rimosso il 23 giugno 1989, con assegnazione a mansioni formalmente dirigenziali ma di fatto prive di funzioni operative. Lo stato di quasi inattività a sui egli era stato ridotto gli aveva prodotto danni da violazione dell'art. 2103 coi civ., patrimoniali e non patrimoniali, per lesione dell'immagine e della salute, dei quali egli chiedeva il risarcimento. Costituitosi il convenuto, il Pretore accoglieva la domanda nella parte concernente la perdita di retribuzione e di benefici pecuniari, liquidando una somma secondo equità, con decisione del 21 dicembre 1995, riformata con sentenza del 5 novembre 2002 dal Tribunale, il quale riduceva l'ammontare  del risarcimento, ravvisando  il  danno  nella perdita di opportunità economiche e procedendo a liquidazione equitativa sulla base dell'entità e durata del lavoro meno qualificato.

Il Tribunale negava il danno alla salute, per mancanza di prova, nonché la perdita di determinate parti della retribuzione e di altri benefici, essendo non certa, ma soltanto possibile, la spettanza di essi, ed essendone in ogni caso l’ammontare variabile in relazione al lavoro effettivamente prestato. Né il lavoratore aveva provato che le mansioni spettantigli, e quindi la retribuzione, equivalevano a quelle dei responsabili di divisione. Contro questa sentenza ricorrono per cassazione in via principale  Gi. Ti. e in via incidentale la s.p.a. Rete ferroviaria italiana. A ciascun ricorso corrisponde un controricorso. Memorie utrinque.

MOTIVI DELLA DECISIONE

I due ricorsi, principale e incidentale, debbono essere riuniti ai sensi dell'art. 335 cod. proc. civ.

Col primo motivo il ricorrente principale ritiene che in materia di "danno da dequalificazione" il Tribunale abbia reso una motivazione per una parte carente, per altra contraddittoria e per altra erronea, non avendo spiegato le ragioni che lo hanno indotto a discostarsi dalle valutazioni del pretore, fondate sulle "differenze retributive".

Col secondo motivo egli lamenta ancora vizi di motivazione e violazione dell'art. 2103 cod. civ. in relazione all'art. 88 del vigente contratto collettivo, per non avere il Tribunale tenuto conto della mancata utilizzazione, conseguente al demansionamento, delle capacità professionali del lavoratore e della conseguente perdita economica.

Col terzo motivo il ricorrenti deduce ancora la violazione dell'art.- 2103 cit. in ordine al mancato riconoscimento della perdita di alcuni benefits (né la sentenza né il ricorrente spiegano, ai sensi dell'art. 122, primo comma, cod. proc. civ., il significato di questo vocabolo, ma si può ritenere trattarsi di una voce retributiva).

Col quarto motivo il ricorrente, invocando l'art. 2103 cit., 97 e 92 c.c.n.l, cit., l. 11 febbraio 1970 n. 34, svolge la stessa censura in ordine al premio di incentivazione.

Idem per il quinto motivo (violaz. artt. 2103 cit., 2697 cod. civ., 163 cod. proc. civ., 31 e 38 c.c.n.l. del 1990), quanto al premio per risultati; per il sesto motivo (art. 2103 cit., 37 c.c.n.l. cit.), quanto all'indennità di funzione ed al superminimo; per il settimo motivo (art. 2103 cit.), quanto al negato adeguamento della retribuzione a quella dei responsabili di divisione.

Con l'unico motivo la ricorrente incidentale lamenta la violazione degli arti 2103, 2697, 1223 cod. civ. e vizi di motivazione, per avere il collegio d'appello ravvisato danni da attribuzione di qualifica inferiore a quella già spettante, prescindendo dalla regola dell'onere della prova, sempre a carico di colui che si afferma danneggiato.

Tutti questi motivi di ricorso per cassazione sono connessi e perciò possono essere esaminati insieme, dopo una premessa comune, relativa all'art. 2103 cod. civ.

Questo nella prima parte stabilisce che il prestatore di lavoro sia adibito alle mansioni corrispondenti alla categoria acquisita o alle ultime mansioni effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Tali prescrizioni stanno a significare che, in caso di adibizione del lavoratore a mansioni inferiori e peggio retribuite, il datore di lavoro risponde di violazione del contratto e deve risarcire il danno (arti. 1218 e 1223 cod. civ.) equivalente alla differenza, oltre agli altri danni eventuali, dei quali poco oltre si dirà.

L'espressione legislativa "retribuzione" si riferisce non a tutto quanto il lavoratore percepiva in precedenza, dovendo distinguersi tra voci retributive che egli deve comunque conservare nella nuova posizione di lavoro (retribuzione base) e voci strettamente legate a quella precedente e perciò ormai prive di giustificazione e non più pretendibili, come le indennità erogate per compensare specifici disagi sopportati o risultati conseguiti o anche per favorire il conseguimento di determinati obiettivi (Cass. 23 febbraio 1988 n. 1933, 7 maggio 1992 n. 5388, 10 novembre 1997 n. 11106, 10 giugno 1999 n. 5721).

Nel caso di specie il lavoratore -ricorrente non prospetta un danno derivato dalla percezione di una retribuzione inferiore a quella di base.

E' altresì possibile che l'assegnazione a mansioni inferiori (suole parlarsi di demansionamento o dequalificazione) abbia prodotto la perdita di favorevoli opportunità economiche (si usa l'espressione francese perle de chances). Questo è un danno risarcibile quando la perdita possa dal lavoratore essere provata, anche attraverso indici presuntivi (art. 2727 cod. civ.), mentre l'ammontare del danno sarà liquidato dal giudice in via equitativa, se necessario (art. 1226 cod. civ.).

La perdita di conoscenze e di esperienze professionali, conseguita all'abbandono delle precedenti e superiori mansioni, costituisce un'altra voce di danno, tuttavia sempre assoggettata all'onere della prova (art. 2697 cod. civ.): il lavoratore dovrà così provare, ad esempio, di non aver potuto apprendere l'uso di certe macchine o di certe tecniche oppure di non avere seguito corsi di qualificazione o di aggiornamento.

Si parla talvolta di perdita di "immagine professionale" ossia di prestigio nell'ambiente di lavoro, da considerare come danno non patrimoniale risarcibile comunque nei limiti dell'art. 2059 cod. civ. Questo è stato però riconosciuto dal Tribunale.

Parimenti soggetto alla regola dell'onere della prova (art. 2697 cod. civ.) è il danno alla salute psichica che in alcuni casi possa conseguire al demansionamento (Cass. 11 agosto 1998 n. 7905, 19 marzo 1999 n. 2561, 5 novembre 2003 n. 16626).

Questo è un danno patrimoniale non solo quanto alle spese sostenute per le cure ma anche per la perdita della capacità lavorativa, ossia dell'attitudine a produrre reddito (Cass. 24 marzo 2004 n. 5840), Né è qui necessario affrontare la questione se il danno non patrimoniale, detto danno "biologico", sia risarcibile al di là dei limiti dell'art. 2059 cit., stante la protezione costituzionale (art. 32) del diritto alla salute (in senso positivo Cass. 31 maggio 2003 nn. 8827 e 8828, 12 dicembre 2003 n. 19057, Corte cost. n. 233 del 2003), considerato che nel caso di specie il giudice d'appello ha escluso in radice il danno alla salute, né sul punto v'è ora impugnazione.

Ai detti principi di diritto si è uniformata la sentenza qui impugnata.

Non essendo disputata l'effettiva privazione di gran parte delle funzioni di dirigente, essa ha negato per difetto di prova, con apprezzamento non censurabile nel giudizio di legittimità, la perdita di retribuzioni sicuramente spettanti nelle mansioni di provenienza nonché la perdita di esperienza e conoscenze professionali e le lesioni dell'immagine o della salute, mentre ha ravvisato la perdita di occasioni favorevoli, vale a dire di incarichi o di emolumenti che di solito, ma non necessariamente, vengono conseguiti da chi eserciti le mansioni sottratte al lavoratore attualmente ricorrente, procedendo alla valutazione equitativa ai sensi dell'art. 1226 cod. civ.

Rigettati entrambi i ricorsi, la reciproca soccombenza giustifica la compensazione delle spese.

PQM

La Corte riunisce i ricorsi, li rigetta e compensa le spese.

Così deciso in Roma il 22 giugno 2005 (depositato il 7 settembre 2005)

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