Il patto di demansionamento per la salvaguardia del posto di lavoro è ammissibile se viene data dal datore la prova della situzione determinativa della prospettata licenziabilità per giustificato motivo oggettivo

 

Cass. sez. lav. 22 agosto 2006 n. 18269 – Pres. Senese – Rel. Stile – P.M. Fedeli (conf.) – Cagnani Moreno (avv. Boer, Bersani) c. Officine Borgo San Giovanni SpA (avv. Manca Graziadei, Granato)

 

Patto di demansionamento per conservazione del posto – Ammissibilità – Condizioni –  Necessità della prova datoriale della soppressione delle presistenti mansioni superiori con impossibilità di repêchage in altre equivalenti ex art. 2103 c.c. – Lo svolgimento di fatto di mansioni inferiori da parte del lavoratore non equivale ad accettazione, per facta concludentia, della dequalificazione.

 

Il patto di demansionamento che, ai soli fini di evitare un licenziamento, attribuisce al lavoratore mansioni, ed eventualmente, conseguente retribuzione, inferiori a quelle per le quali era stato assunto o che aveva successivamente acquisito, prevalendo l'interesse del lavoratore a mantenere il posto di lavoro su quello tutelato dall'art. 2103 cod.civ., è valido non solo ove sia promosso dalla richiesta del lavoratore - il quale deve manifestare il suo consenso non affetto da vizi della volontà - sibbene anche allorché l'iniziativa sia stata presa dal datore di lavoro, sempreché vi sia il consenso del lavoratore e sussistano le condizioni che avrebbero legittimato il licenziamento in mancanza dell'accordo (ex plurimis, Cass. 7 febbraio 2005 n. 2375), condizioni della cui prova è onerato il  datore di lavoro. È evidente che, quando il datore di lavoro desiste dall'intento di licenziare per addivenire ad un c.d. patto di demansionamento, occorre che l'intento di porre fine al rapporto sia stato serio, giustificato e non un espediente per ottenere prestazioni lavorative in elusione ad una norma imperativa.

Ed è anche pacifico che, in caso di impugnativa dell'accordo, l'onere di dimostrare la sussistenza delle condizioni di fatto che avrebbero giustificato il licenziamento incombe sul datore di lavoro, in osservanza tanto del disposto dell'art. 5 della legge 15 luglio 1966, n. 604 che del divieto posto dall'art. 2103 c.c..

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso al Giudice del lavoro di Lodi, Moreno Cagnani esponeva di essere stato assunto, come operaio, dalla società Officine di Borgo San Giovanni e di aver diritto, in relazione alla posizione lavorativa di collaudatore, alla qualifica di IV livello e non di III quale formalmente riconosciutagli.

Esponeva anche che - all'atto del rientro dalla Cassa integrazione - era stato adibito ad una mansione dequalificante quale quella del carico e scarico di merce mediante muletto.

Chiedeva, pertanto, sia la qualifica superiore che il danno da dequalificazione.

La società convenuta si costituiva, sostenendo che la qualifica di III livello era del tutto conforme al tipo di collaudo operato dal ricorrente.

Osservava poi che, al rientro dalla Cassa integrazione, il ricorrente aveva accettato una diversa posizione di lavoro, comunque valutabile sempre di III livello. Eccepiva, in subordine, la carenza dei presupposti per il risarcimento da dequalificazione.

Con sentenza 23 giugno 2000, l'adito Giudice rigettava la domanda.

Avverso tale decisione proponeva appello il Cagnani, cuì resisteva la società appellata.

Con sentenza del 21-28 febbraio 2002, la Corte d'appello di Milano, rilevato, sulla base della espletata istruttoria, che i collaudi compiuti dal Cagnani non erano di tipo complesso e che il lamentato demansionamento verificatosi al rientro dalla Cassa integrazione guadagni aveva rappresentato una alternativa al licenziamento ex art. 3 legge 604/1966, in dipendenza della modificata situazione prodluttiva, confermava l'impugnata sentenza.

Per la cassazione di tale pronuncia ricorre Moreno Cagnani con quattro motivi. Resiste la Officine di Borgo S. Giovanni S.p.A. con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Va preliminarmente osservato, per una più chiara esposizione dei termini della contestazione, che, con il presente ricorso, il Cagnani ha mostrato di prestare acquiescenza alla parte della sentenza della Corte d'appello di Milano nella quale è stato negato il diritto ad essere inquadrato nella categoria contrattuale superiore (4^ cat.) a quella formalmente attribuitagli (3^), limitando l'impugnazione al capo della pronuncia che ha ritenuto legittima la sua dequalificazione.

Sempre, allo stesso fine, va precisato che il Giudice d'appello, muovendo dal presupposto che fosse "pacifico" che al rientro dalla Cassa integrazione l'appellante Cagnani ebbe a trovare una situazione produttiva modificata in fatto per l’impossibilità di adibirlo alle precedenti mansioni ormai abolite, ha ritenuto che in tale situazione  che “la proposta – accettata – di una mansione diversa” rientra, unitamente all'accettazione, “nello schema del recesso modificativo, la cui ammissibilità riposa sul rilievo che, altrimenti, il rapporto si sarebbe potuto risolvere ex art. 3 legge n. 604/66”.

Più specificamente - prosegue la Corte milanese-, “l'accettazione - che implica ammissione della veridicità del fatto (carenza di msioni equivalenti ) - si pone all'esterno del vecchio rapporto ed istituisce un nuovo rapporto con nuove condizioni posto che il precedente sarebbe comunque cessato legittimamente”.

Sulla base di siffatte considerazioni l'impugnata pronuncia ha ritenuto “la domanda di demansionamento ... infondata alla radice”.

Orbene, con il presente ricorso, il Cagnani censura l'esposto iter argomentativo sotto più profili.

In particolare, con il primo motivo, il Cagnani - denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.), dopo avere evidenziato che gli stessi Giudici di merito avevano dato atto della avvenuta dequalificazione, a far tempo dal mese di maggio 1997 - sostiene che la Corte d'appello di Milano non avrebbe sufficientemente motivato in merito alla circostanza relativa alla abolizione delle mansioni di collaudatore, prima in capo ad esso ricorrente, violando altresì il disposto delle norme di cui all'art. 115 c.p.c. sulla disponibilità delle prove e all'art. 116 c.p.c. sui criteri di valutazione delle prove.

In particolare il ricorrente afferma che il Giudice del gravame aveva l'obbligo di accertare “se i fatti dedotti dalle Officine di Borgo San Giovanni S.p.A a fondamento delle scelte aziendali compiute (soppressione delle mansioni di collaudatore) corrispondessero al vero e fossero altresì tali da giustificare il provvedimento (dequalificante) adottato nei confronti del lavoratore”.

Ulteriore motivo di censura della sentenza d'appello viene individuato dal ricorrente nella violazione e falsa applicazione degli arti. 2103 e 2113 c.c. nella parte in cui tali norme vietano l'adibizione del lavoratore a mansioni inferiori anche con il consenso del medesimo, nonché, in ogni caso, nella contraddittorietà della motivazione della pronuncia in ordine alla sussistenza, nel caso di specie, di un effettivo suo assenso dopo il rientro dalla Cassa Integrazione a mansioni diverse alle ultime svolte.

Sotto quest'ultimo aspetto si censura, con il terzo motivo, la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa l'assunto del Giudice d'appello secondo cui l'accettazione di svolgere mansioni diverse ed inferiori sarebbe avvenuta per facta concludentia, con l'ulteriore immotivata conseguenza che “l'accettazione implica ammissione della veridicità del fatto (carenza di mansioni equivalenti)”.

Con il quarto motivo, infine, il ricorrente, denunciando violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., 2697 c.c. e 5  L. 15 luglio 1966 n. 604, nonché omessa motivazione si duole che la Corte milanese abbia ritenuto che la dequalificazione fosse stata giustificata dal fatto che -- senza la dequalificazione - il rapporto si sarebbe concluso ex art. 3 L. 604/66.

Tale circostanza -osserva il ricorrente- non risulta essere stata dedotta dalla società datrice di lavoro né in ogni caso dimostrata nel corso del giudizio; e di qui la violazione sia dell'an. 115 c.p.c. sia dell'art. 112 c.p.c.

Peraltro, l'onere di dimostrare la sussistenza di un giustificato motivo di licenziamento era di competenza del datore, il quale non aveva provato (e neppure dedotto) l'inesistenza in azienda di altre mansioni equivalenti a quelle in precedenza svolte da esso Cagnani, nonché l'impossibilità di mantenere il dipendente in azienda (anche attraverso il c.d. repechage).

Di contro, senza peraltro motivare, il Giudice del gravame aveva dato per scontate tali circostanze, violando altresì il disposto di cui all'art. 2697 c.c. e di cui all'art. 5 L. 604/66.

Il ricorso va accolto nei termini e per le considerazioni che seguono.

Costituisce principio ormai acquisito nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui l'art. 2103 c.c., nella parte in cui prevede la nullità di qualsiasi pattuizione che introduca modifiche peggiorative della posizione del lavoratore, non opera allorché il patto peggiorativo corrisponda all'interesse del lavoratore medesimo (ex plurimis, Cass.18 ottobre 1999 n. 11727). Ed in effetti, il diritto alla tutela della posizione economica e professionale del lavoratore - che l'art. 2103 c.c. realizza attraverso la previsione della nullità di ogni pattuizione contraria - deve trovare contemperamento con la tutela di altri interessi prioritari del lavoratore subordinato, quale quello alla conservazione del posto di lavoro; per cui deve ritenersi legittima una interpretazione non restrittiva della disposizione (il cui testo attuale è stato introdotto dall'art. 13 della legge 20 maggio 1970 n. 300), anche alla luce delle "maggiori e notorie difficoltà in cui versa oggi il mercato del lavoro (v., in motivazione, Cass., sez. un. 7 agosto 1998 n. 7755). Ne discende che l'accordo per l'adibizione a mansioni inferiori alle ultime svolte, stipulato in considerazione di una prospettiva di licenziamento fondata su serie ragioni, non è da considerarsi, quindi, in contrato con le esigenze di libertà e dignità della persona e rappresenta una soluzione più favorevole al lavoratore di quella ispirata ad una esigenza di mero rispetto formale dell'art. 2103 c.c. Ulteriore presupposto indispensabile alla legittimità di tale accordo - oltre alla effettività della situazione pregiudizievole che si vuole evitare - risulta essere il consenso del lavoratore, che deve essere prestato validamente, ed essere esente da vizi.

Tali considerazioni possono sintetizzarsi nell’affermazione, secondo cui il patto di demansionamento che, ai soli fini di evitare un licenziamento, attribuisce al lavoratore mansioni, ed eventualmente, conseguente retribuzione, inferiori a quelle per le quali era stato assunto o che aveva successivamente acquisito, prevalendo l'interesse del lavoratore a mantenere il posto di lavoro su quello tutelato dall'art. 2103 cod.civ., è valido non solo ove sia promosso dalla richiesta del lavoratore - il quale deve manifestare il suo consenso non affetto da vizi della volontà - sibbene anche allorché l'iniziativa sia stata presa dal datore di lavoro, sempreché vi sia il consenso del lavoratore e sussistano le condizioni che avrebbero legittimato il licenziamento in mancanza dell'accordo (ex plurimis, Cass. 7 febbraio 2005 n. 2375).

È evidente che, quando il datore di lavoro desiste dall'intento di licenziare per addivenire ad un c.d. patto di demansionamento, occorre che l'intento di porre fine al rapporto sia stato serio, giustificato e non un espediente per ottenere prestazioni lavorative in elusione ad una norma imperativa.

Ed è anche pacifico che, in caso di impugnativa dell'accordo, l'onere di dimostrare la sussistenza delle condizioni di fatto che avrebbero giustificato il licenziamento incombe sul datore di lavoro, in osservanza tanto del disposto dell'art. 5 della legge 15 luglio 1966, n. 604 che del divieto posto dall'art. 2103 c.c.. È anche vero, peraltro, che il giudice del merito può e deve valutare, ai fini del raggiungimento o meno di tale prova, tutto il materiale probatorio acquisito al iudizio, sia per iniziativa del datore di lavoro che su impulso del lavoratore, secondo il principio dettato dall'art. 115 c.p.c. ("il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero").

Nella fattispecie in esame, la Corte di Milano ha ritenuto che la prova della sussistenza di condizioni legittimanti il licenziamento fosse rinvenibile: a) nella circostanza, definita - come sopra riferito - "pacifica", che al rientro dalla Cassa Integrazione il Cagnani ebbe a trovare una situazione produttiva modificata in fatto per l'impossibilità di essere adibito alle precedenti mansioni ormai abolite; b) nella proposta di una mansione diversa in senso peggiorativo rispetto a quella originaria e, nell'accettazione da parte del lavoratore; c) nella carenza di mansioni equivalenti, desumibile dal fatto in sé dell'accettazione, poiché essa "implica ammissione della veridicità del fatto".

Osserva il Collegio che, se in ordine al punto a), si è pur sempre in presenza di un accertamento in fatto, - contestato, per vero, dal ricorrente attraverso il riferimento all'accertamento, che sarebbe stato fatto in proposito dal Pretore nonché alle testimonianze assunte in giudizio, senza, tuttavia, alcun rispetto del principio di autosufficienza - non censurabile in questa sede, incoerente appare il ragionamento che si manifesta in ordine ai successivi punti. Invero, l'esecuzione delle mansioni inferiori assegnate non significa di per sé accettazione di una proposta contrattuale modificativa del precedente assetto del rapporto lavorativo; né, a maggior ragione può significare riconoscimento di mancanza di posti di lavoro equivalenti, in assenza di ogni specificazione di circostanze, che possano deporre in tal senso. E non vi è dubbio che si è in presenza di vizi di motivazione sottoponibili al controllo di legittimità.

Devesi, in proposito, rammentare che la denuncia di un vizio di motivazione, nella sentenza impugnata con ricorso per cassazione (ai sensi dell'art.360, n.5 c.p.c.), non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, le argomentazioni - svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l'accertamento dei fatti, all'esito della insindacabile selezione e valutazione della fonti del proprio convincimento - con la conseguenza che il vizio di motivazione deve emergere - secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte (v., per tutte, Cass. S.U. n.13045/97) - dall'esame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti.

Alla luce di tale consolidato orientamento e dei rilievi appena formulati, il ricorso deve essere accolto, con annullamento della impugnata decisione e rinvio, per il riesame, della causa ad altro giudice d'appello -indicato in dispositivo- che provvederà anche alla regolamentazione delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese di questo giudizio, alla Corte d'appello di Brescia.

 

Roma, 14 febbraio 2006 (depositato il 22.8.2006)

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