Legittimità del rifiuto del rappresentante per la sicurezza ex d.lgs. n. 626/94 di rivestire l’incarico datoriale di responsabile per la prevenzione e rischi dell’azienda

 

Cass., sez. lav., 15 settembre 2006, n. 19965 – Pres. Sciarelli – Rel. Celentano – D.R.U. c. Madonna dei Miracoli s.r.l.

 

Il rappresentante per la sicurezza ex d.lgs. n. 626/2004 non può coincidere con il responsabile del servizio prevenzione e rischi dell’azienda – Legittimità del rifiuto – Nullità del disposto licenziamento.

 

Concentrare nella stessa persona le funzioni di due figure cui il legislatore ha attribuito funzioni diverse, ancorché finalizzate al comune obiettivo della sicurezza del lavoro, significa eliminare ogni controllo da parte dei lavoratori, atteso che il controllato ed il controllante coinciderebbero. E' come se, nei casi in cui può svolgere direttamente i compiti propri del servizio di prevenzione e protezione dai rischi (art. 10, comma 1), il datore di lavoro fosse eletto dai lavoratori come loro rappresentante per la sicurezza.

Chiaramente diversa è la volontà della legge, che richiede entrambe le figure per una azione di prevenzione costantemente perseguita da parte datoriale e controllata dai lavoratori.

 

Svolgimento del processo

Con sentenza del 24 ottobre 2001/7 novembre 2002 la Corte di Appello di L'Aquila, riformando la decisione di primo grado, dichiarava l'invalidità del licenziamento intimato ad D.R.U., con lettera del 17 dicembre 1998, dalla società cooperativa a r.l. Madonna dei Miracoli; condannava la società a reintegrare l'appellante nel posto di lavoro e a versare retribuzione e contributi, nonché a pagare la somma di Euro 8.000,00 a titolo di risarcimento danni derivante dalla parziale inattività del dipendente dal (OMISSIS) al licenziamento; rigettava le domande di risarcimento del danno biologico ed alla vita di relazione.

I Giudici di appello ritenevano giustificato il rifiuto del lavoratore di svolgere le funzioni di responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, affidategli dal datore di lavoro con atto del 26/10/1998, atteso che tali mansioni erano incompatibili con quelle di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza.

Ritenevano che il datore di lavoro non potesse far venir meno la designazione operata dai lavoratori imponendo al proprio dipendente di accettare una mansione incompatibile con quella di rappresentante per la sicurezza.

Per la parziale inattività cui era stato costretto l'appellante dal novembre 1995 alla data del licenziamento ritenevano equo liquidare Euro 8.000,00 a titolo di risarcimento danno alla professionalità; ritenevano generiche le domande di risarcimento del danno biologico e di quello alla vita di relazione.

Per la cassazione di tale decisione ricorre, formulando due motivi di censura, la società cooperativa a r.l. Madonna dei Miracoli; D.R. U. resiste con controricorso e propone ricorso incidentale, contenente anch'esso due motivi.

Motivi della decisione

1. Ricorso principale e ricorso incidentale vanno preliminarmente riuniti ( art. 335 c.p.c.).

2. Con il primo motivo del ricorso principale, denunciando violazione falsa applicazione del D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, artt. 8 e 18, in relazione agli artt. 1460 e 2119 cod. civ., della L. n. 604 del 1966, art. 3 e della L. n. 300 del 1970, art. 18, nonché vizio di motivazione, la difesa della società critica la sentenza nella parte in cui ha ritenuto incompatibili le mansioni di responsabile del servizio di prevenzione e protezione assegnate al lavoratore con lettera del 24/10/1998, con quelle di rappresentante per la sicurezza; e, di conseguenza, ingiustificato il rifiuto del signor D. R. di svolgere le mansioni affidategli.

Sostiene che nessuna norma vieta il cumulo delle due funzioni, per cui ben potrebbe il rappresentante per la sicurezza, eletto dai lavoratori, continuare a godere della loro fiducia pur dopo essere stato designato dal datore di lavoro come responsabile del servizio di prevenzione e protezione. Se, poi, i lavoratori ritenessero di designare, per ragioni di opportunità, un nuovo rappresentante per la sicurezza in luogo di quello divenuto (anche) responsabile del servizio di prevenzione e protezione, nulla impedirebbe loro una nuova elezione o designazione.

Sostiene, quindi, la illegittimità del rifiuto del lavoratore di svolgere le funzioni di responsabile del servizio di prevenzione e protezione e la legittimità del licenziamento.

3. Con il secondo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 2103 c.c., ed omessa motivazione su punto decisivo, la difesa della cooperativa critica la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto sussistente un declassamento del lavoratore, sia pure dal novembre 1995. Deduce che i Giudici di appello non hanno considerato che era stato il lavoratore a rendersi parzialmente inattivo, a causa del rifiuto delle mansioni di responsabile del servizio di prevenzione e protezione.

Sostiene che è stato violato l'art 2103 c.c., perchè si sarebbe affermata la oggettiva responsabilità del datore di lavoro per ogni diminuzione quantitativa delle mansioni assegnate al lavoratore, anche nel caso in cui detta diminuzione sia dovuta alla volontà del lavoratore, che abbia rifiutato di svolgere mansioni equivalenti.

4. Con il primo motivo del ricorso incidentale, denunciando violazione degli artt. 1218, 1223, 1226 c.c. e art. 114 c.p.c., nonchè vizio di motivazione, la difesa di D.R.U. critica la sentenza nella parte in cui ha liquidato, a titolo di risarcimento del danno alla professionalità, la somma di Euro 8.000,00.

Sostiene che la relativa motivazione ("considerato che in quel periodo non rimase completamente inattivo") non contiene i criteri adottati per la quantificazione del risarcimento.

Rileva che la liquidazione dei Giudici di appello risulta svincolata da qualsiasi parametro e, rapportata alla retribuzione del lavoratore nel periodo di demansionamento, corrisponde ad una percentuale di circa il 12/13% della stessa, nel mentre altri Giudici di merito sono orientati a riconoscere, per danno da dequalificazione, percentuali che vanno dal 40% in su.

5. Con il secondo motivo, denunciando violazione degli artt. 112 e 414 c.p.c., n. 4, in procedendo e vizio di motivazione, la difesa D.R. critica la sentenza nella parte in cui ha rigettato la domanda di risarcimento del danno biologico e del danno alla vita di relazione per la ritenuta genericità della formulazione della domanda. Deduce che risultavano, invece, enunciati sia la causa petendi che petitum.

Riporta uno stralcio del ricorso introduttivo del giudizio ("Fa subito detto che la condotta datoriale come sopra descritta (sicuramente illegittima) protrattasi per anni e anni ha causato un graduale declino della condizione psicofisica del ricorrente con conseguente difficoltà per lo stesso di svolgere anche i ruoli familiari e sociali. Tale situazione si è ancora più accentuata in seguito al licenziamento (...). In sostanza la condotta volontaria e dolosa della Soc. Coop. Madonna dei Miracoli ha cagionato al D.R. la patologia definita sindrome depressivo di tipo distimico ed ansiosa nonché il conseguente aggravamento delle stesse") ed afferma che seguivano le corrispondenti domande di condanna relative a ciascuna componente di danno.

Riporta poi una stralcio della consulenza tecnica di parte: "Il Sig. D.R. presenta indubbiamente una sintomatologia rilevante reattiva e conseguente alle sue vicende lavorative definibile con una diagnosi di Sindrome depressiva di tipo distimico e ansiosa. A questa situazione è conseguito un danno lavorativo conseguente al licenziamento, ma anche danni pratici e morali personali correlati alla marcata diminuzione della capacità di prestazione nell'ambito personale, familiare, sociale".

Deduce la legittimità e la necessità, a fini di concisione, del richiamo ai punti salienti di un documento, a maggior ragione quanto si tratti di una perizia medico-legale, la cui valutazione va rimessa ad altri esperti del settore (con una C.T.U., nella fattispecie richiesta).

Sostiene che l'indicazione dei danni richiesti non può esser definita generica, essendo sufficiente una anche minima allegazione in fatto, atteso che il demansionamento professionale, anche secondo la giurisprudenza di questa Corte, da luogo ad una pluralità di pregiudizi, relativi sia alla vita professionale che a quella di relazione, suscettibili di risarcimento e di valutazione anche equitativa, anche nell'ipotesi in cui sia mancata la dimostrazione di un effettivo pregiudizio patrimoniale.

Aggiunge che, una volta accertata la lesione del patrimonio professionale del Signor D.R., la Corte del merito avrebbe dovuto procedere alla liquidazione di tutte le componenti del danno, ivi compreso quello biologico ed alla vita di relazione.

Sottolinea di aver reiterato in fase di gravame la richiesta di consulenza tecnica di ufficio.

6. Il primo motivo del ricorso principale non è fondato.

Nel sistema delineato dal D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, la funzione di responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, designato dal datore di lavoro (art. 2, lett. e), e quella di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (art. 2, lett. f) non sono cumulabili nella stessa persona.

Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione è un soggetto che rappresenta il datore di lavoro nell'espletamento di un'attività che questi, in determinati casi, potrebbe svolgere personalmente (D.Lgs. n. 626, art. 10, all. I); esercita quindi prerogative proprie del datore di lavoro in tema di sicurezza del lavoro; contribuisce a determinare gli oneri economici che il datore di lavoro deve sopportare perchè il lavoro in azienda sia e rimanga sicuro, atteso che le misure relative alla sicurezza non devono comportare oneri finanziari per i lavoratori (art. 3, comma 2).

Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza è chiamato, invece, a svolgere una funzione di consultazione e di controllo circa le iniziative assunte dall'azienda nel settore della sicurezza; deve essere consultato dal datore di lavoro sulla designazione delle persone addette all'espletamento dei compiti del servizio di prevenzione e protezione, fra cui il responsabile del servizio (art. 8, comma 2); deve essere consultato in ordine alla valutazione dei rischi, alla individuazione, programmazione, realizzazione e verifica della prevenzione nell'azienda (art. 19, comma 1, lett. b), nonchè sulla designazione degli addetti all'attività di prevenzione incendi, al pronto soccorso, alla evacuazione dei lavoratori (art. 19, comma 1, lett. c), e sulla organizzazione della formazione di tali addetti (art. 19, comma 1, lett. d); svolge tutta una serie di funzioni, elencate nell'art. 19, che possono, in sintesi, definirsi di costante controllo dell'attività svolta, in materia di sicurezza, dal datore di lavoro e dal servizio di prevenzione da questi istituito, compresa la facoltà di fare ricorso alle autorità competenti qualora ritenga che le misure di prevenzione e protezione dai rischi adottate dal datore di lavoro e i mezzi impiegati per attuarle non sono idonei a garantire la sicurezza e la salute durante il lavoro (lett. o); fruisce delle stesse tutele previste dalla legge per le rappresentanze sindacali.

Concentrare nella stessa persona le funzioni di due figure cui il legislatore ha attribuito funzioni diverse, ancorché finalizzate al comune obiettivo della sicurezza del lavoro, significa eliminare ogni controllo da parte dei lavoratori, atteso che il controllato ed il controllante coinciderebbero. E' come se, nei casi in cui può svolgere direttamente i compiti propri del servizio di prevenzione e protezione dai rischi (art. 10, comma 1), il datore di lavoro fosse eletto dai lavoratori come loro rappresentante per la sicurezza.

Chiaramente diversa è la volontà della legge, che richiede entrambe le figure per una azione di prevenzione costantemente perseguita da parte datoriale e controllata dai lavoratori.

7. Anche il secondo motivo del ricorso principale non è fondato.

Dal rigetto del primo motivo discende, infatti, che non è vero che la riduzione del lavoro dipese da un illegittimo comportamento del lavoratore.

Va rilevato che la società ricorrente fonda il proprio ricorso esclusivamente sulla dedotta cumulabilità degli incarichi, non muovendo alcuna censura avverso la impossibilità giuridica di designare responsabile del servizio di prevenzione e protezione colui che già è stato eletto rappresentante per la sicurezza.

8. Il primo motivo del ricorso incidentale non è fondato.

Nello scegliere il criterio della liquidazione equitativa del danno (da dequalificazione professionale o da qualsiasi altro fattore produttivo di danno) - criterio invocato nella specie anche dalla difesa del lavoratore - il Giudice del merito compie una valutazione discrezionale, basata anche su presunzioni e presupposizioni, nonché su apprezzamenti di probabilità; il potere è legittimamente esercitato quando, ferma la prova della sussistenza e dell'entità del danno (cfr., fra le tante, Cass., 18 novembre 2002 n. 16202), risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile provarne il preciso ammontare.

Nella fattispecie in esame il Giudice ha liquidato la somma di Euro 8.000,00 a titolo di risarcimento del danno alla professionalità limitatamente al periodo (OMISSIS), osservando che in quel periodo il D.R. non rimase completamente inattivo. In tale liquidazione sono stati tenuti presenti, sia esplicitamente che implicitamente, vari elementi: a) la durata della dequalificazione; b) l'entità della lamentata inattività; c) la presumibile retribuzione di un lavoratore con la qualifica dell'appellante.

Non è vero, quindi, che non siano stati indicati i criteri adottati per la quantificazione del risarcimento.

In realtà la difesa del ricorrente si limita a contrapporre a quella della Corte aquilana una diversa quantificazione equitativa: non il 12-13% della retribuzione del periodo, ma il 40-50%. Il che rende la censura inammissibile prima che infondata.

9. Il secondo motivo del ricorso incidentale è fondato nei limiti di seguito precisati.

Va sul punto ricordato che le Sezioni Unite della Corte, chiamate a risolvere il contrasto che si era manifestato sulla questione della sussistenza in re ipsa di un danno da demansionamento o della necessità dell'assolvimento, da parte del lavoratore, dell'onere di provare l'esistenza del pregiudizio, con sentenza n. 6572 del 2 febbraio/24 marzo 2006, hanno affermato il seguente principio di diritto: “In tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico, esistenziale, che asseritamente ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato alla esistenza di una lesione dell'integrità psicofisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale - da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno - va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all'interno e all'esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore di lavoro comprovanti la avvenuta lesione dell'interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) - il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico - si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ex art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove”.

Nella fattispecie in esame il ricorrente aveva chiaramente indicato, nel ricorso introduttivo, la malattia che assumeva contratta a causa della condotta datoriale e sulla quale fondava la domanda di risarcimento del danno biologico: sindrome depressiva di tipo distimico ed ansiosa.

Tale sindrome, meglio descritta nella relazione medica prodotta unitamente al ricorso introduttivo, costituisce quella "lesione dell'integrità psico-fisica" che le Sezioni Unite hanno chiarito che deve essere dedotta e "medicalmente accertatile".

I Giudici di appello hanno erroneamente ritenuto generica tale domanda, perchè la relazione medica era solo richiamata e non riprodotta nell'atto introduttivo.

E' vero, invece, che la produzione di una consulenza medica di parte ha la funzione di dimostrare la esistenza della malattia che il ricorrente assume di aver contratto, a prescindere dalla sua riproduzione o meno nell'atto introduttivo, essendo sufficiente che nello stesso la malattia venga indicata e la documentazione medica citata.

Di fronte alla dedotta malattia ed alla documentazione medica prodotta a sostegno i Giudici del merito avrebbero dovuto procedere ad un accertamento medico legale per verificare esistenza ed eziologia della sindrome ansioso depressiva.

Quanto, invece, alla componente del danno esistenziale relativa alla vita di relazione, la affermazione della sentenza di L'Aquila sulla genericità della relativa domanda non viene superata dalla indicazione di specifici passi del ricorso introduttivo che specifichino i comportamenti relazionali modificati a seguito del subito demansionamento. Sicché la relativa censura non merita accoglimento.

10. In conclusione vanno rigettati il ricorso principale ed il primo motivo del ricorso incidentale, mentre il secondo motivo di quest'ultimo va accolto per quanto di ragione.

La sentenza impugnata va cassata in relazione alla censura accolta e la causa va rinviata, per nuovo esame, ad altro Giudice di secondo grado, che si indica nella Corte di Appello di Campobasso.

Il Giudice di rinvio, che si atterrà al principio di diritto sopra riportato, come enunciato dalle S.U. nella sentenza n. 6572/06, regolerà le spese dell'intero processo, ivi comprese quelle relative a questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il principale ed il primo motivo dell'incidentale, accoglie per quanto di ragione il secondo motivo di quest'ultimo ricorso, in relazione al quale cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, alla Corte di Appello di Campobasso.

Così deciso in Roma, il 15 luglio 2006. Depositato in Cancelleria il 15 settembre 2006

 

NOTA

 

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 19965/2006, ha chiarito che nel sistema delineato dal D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, la funzione di responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, designato dal datore di lavoro (art. 2, lett. e), e quella di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (art. 2, lett. f) non sono cumulabili nella stessa persona. Il caso in esame riguarda un lavoratore licenziato a seguito del rifiuto di il rifiuto del lavoratore di svolgere le funzioni di responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, affidategli dal datore di lavoro atteso che tali mansioni erano incompatibili con quelle, che il dipendente già svolgeva, di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. La Corte di Appello dell’Aquila, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava l'invalidità del licenziamento intimato al dipendente e condannava il datore di lavoro a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro, oltre a versare allo stesso retribuzione e contributi dalla data del licenziamento alla data del reintegro nonché a pagare la somma di Euro 8.000,00 a titolo di risarcimento danni da demansionamento derivante dalla parziale inattività del dipendente fino al licenziamento, rigettando, tuttavia, le domande di risarcimento del danno biologico e alla vita di relazione. Avverso tale decisione ha promosso ricorso per Cassazione la società datrice di lavoro, sostenendo la compatibilità delle mansioni di responsabile del servizio di prevenzione e protezione assegnate al lavoratore con quelle di rappresentante per la sicurezza e, di conseguenza, ingiustificato il rifiuto del dipendente di svolgere le mansioni affidategli, per cui era stato il lavoratore stesso a rendersi parzialmente inattivo. Ma la Suprema Corte, dopo essersi soffermata a chiarire i motivi per cui le due mansioni sono incompatibili, ha rigettato il ricorso e ha fatto discendere dalla infondatezza del primo motivo del ricorso, ossia la compatibilità delle mansioni, la infondatezza anche del secondo motivo, ossia il demansionamento dovuto alla volontà del lavoratore.

I Giudici hanno richiamato il principio di diritto per cui, in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico, esistenziale, che asseritamente ne deriva non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato alla esistenza di una lesione dell'integrità psicofisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale - da intendere come ogni pregiudizio provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno - va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all'interno e all'esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore di lavoro comprovanti la avvenuta lesione dell'interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) - il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico - si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ex art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove. Ora, nel caso in esame, il dipendente aveva chiaramente indicato, nel ricorso introduttivo, la malattia che assumeva contratta a causa della condotta datoriale e sulla quale fondava la domanda di risarcimento del danno biologico: sindrome depressiva di tipo distimico ed ansiosa.

 

Anna Teresa Paciotti (annateresapaciotti@studiolegalelaw.it)

 

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