Requisiti del mobbing
 
Cass, sez. lav., 17 settembre 2009 n. 20046 – Pres. Ianniruberto – Rel. Stile – G.A. (avv. Fontana, Azzarini) c. Ali SpA (avv. Lo Conte, Mantovani).
 
Mobbing – Caratteristiche – Non riscontrabili in fattispecie.
 
Il mobbing ricorre ove sia accertata la reiterazione nel tempo di comportamenti di ostracismo e di persecuzione nei confronti del lavoratore-vittima designata da parte o dei colleghi ("mobbing" orizzontale") o dei superiori gerarchici ("bossing" verticale), senza che i titolari del rapporto sinallagmatico di lavoro intervengano in alcun modo per interrompere detti comportamenti, con ciò assumendosi la responsabilità delle conseguenze di detti comportamenti (artt. 2049 e 2087 c.c.).
Perchè possa integrarsi la condotta mobbizzante occorre che la persecuzione sia stata "sistematica e duratura", e non come nella fattispecie caratterizzata dalla brevità del periodo, "essendosi eventualmente protratti per meno di un trimestre (e non per i sei mesi individuati dalla prassi giudiziaria) gli episodi vessatori e persecutori asseritamente operati dal preposto ...".
Sembrano insussistenti nel caso anche gli intenti persecutori e vessatori del preposto e dell'azienda nei confronti della G., in quanto persona non gradita al nuovo direttore generale, atteso che l’istruttoria di primo grado ha dato atto di come fosse pacifica oltre che provata documentalmente e a mezzo dei testi escussi, l'esistenza del processo di ristrutturazione aziendale, diretto a realizzare l'unificazione della gestione amministrativa delle varie aziende del gruppo stesso (tra le quali anche lo stabilimento di Mareno).
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato il 23 gennaio 2004 G.A.M. proponeva appello avverso la sentenza del 10 gennaio 2003 del Tribunale di Treviso-giudice del Lavoro, che aveva rigettato le domande proposte nei confronti della Mareno Industrie ALI S.p.A.: a) di annullamento delle sanzioni disciplinari, comunicatele in data 5 marzo 1999, di sospensione dal servizio per tre giornate e di licenziamento , e di reintegrazione nel posto di lavoro già occupato prima della dequalificazione o in altra equivalente, nonché di condanna al risarcimento del danno liquidato ai sensi dell'art. 18 St. Lav., ed infine di regolarizzazione della sua posizione contributiva; b) di accertamento dei comportamenti aziendali "mobbizzanti", posti in essere nei suoi confronti dalla società per finalità persecutorie, e di condanna al risarcimento per il nocumento patito, patrimoniale, biologico, morale e alla vita di relazione; c) di condanna al pagamento di un compenso per l'attività di "responsabile dell'amministrazione" svolta dal 1.1.1997 al 22.7.1998.
Si costituiva la società appellata, chiedendo, con articolate argomentazioni, il rigetto del gravame.
Con sentenza del 6 marzo-12 luglio 2007, l'adita Corte di Appello di Venezia, dopo avere puntualizzato che non era stata reiterata la domanda di condanna al pagamento di un compenso per l'attività di "responsabile dell'amministrazione" e che non era stata censurata specificamente la pronuncia di rigetto della domanda di annullamento della sanzione disciplinare di sospensione dal servizio per tre giornate, riteneva infondata, perchè contrastata dal materiale probatorio acquisito, quella relativa all'annullamento del licenziamento e all'esistenza di comportamenti mobbizzanti posti in essere dalla società. Confermava, pertanto, la sentenza di primo grado. Per la cassazione di tale pronuncia ricorre G. A. con quattro motivi.
Resiste ALI S.p.A (già Mareno Industrie ALI S.p.A.) con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso la G., denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 342 c.p.c., in ordine alla ritenuta mancata specificazione dei motivi di appello su parte delle domanda svolte dall'appellante (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4), sostiene che sia errata la decisione della Corte di Appello di Venezia laddove si censura il difetto di specificità in ordine alla impugnazione della sanzione della sospensione disciplinare pari a 3 giorni; ciò in quanto dal complessivo tenore dell'appello si evincerebbe comunque la propria volontà impugnare anche tale capo di domanda.
Il motivo è infondato.
Infatti, il principio della specificità dei motivi di impugnazione - richiesta dagli artt. 342 e 434 c.p.c., per la individuazione dell'oggetto della domanda d'appello e per stabilire l'ambito entro il quale deve essere effettuato il riesame della sentenza impugnata - esige che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell'appellante, volte ad incrinare il fondamento logico giuridico delle prime, ragion per cui alla parte volitiva deve sempre accompagnarsi una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice. A tal fine non è sufficiente che l'individuazione delle censure sia consentita anche indirettamente dal complesso delle argomentazioni svolte a sostegno dei motivi di appello, dovendosi considerare integrato in sufficiente grado l'onere di specificità dei motivi di impugnazione, pur valutato in correlazione con il tenore della motivazione della sentenza impugnata, quando alle argomentazioni in essa esposte siano contrapposte quelle dell'appellante in guisa tale da inficiarne il fondamento logico giuridico, come nel caso in cui lo svolgimento dei motivi sia compiuto in termini incompatibili con la complessiva argomentazione della sentenza, restando in tal caso superfluo l'esame dei singoli passaggi argomentativi (ex plurimis, Cass. 14 marzo 2006 n. 5445; Cass. 31 maggio 2006 n. 12984; Cass. 18 aprile 2007 n. 9244).
Orbene, nella specie, il Giudice a quo, richiamando detta giurisprudenza, dopo avere riportato i comportamenti contestati alla lavoratrice con la lettera del 19 febbraio 1999, ha osservato che la ricorrente, piuttosto che impugnare con uno specifico motivo il rigetto della domanda, si era limitata a reiterare, in forma di conclusioni, la domanda di condanna non accolta, senza neanche indicare i vizi della decisione che avrebbero dovuto portare al suo accoglimento.
Non ravvisandosi nelle riportate argomentazioni alcuna violazione di legge il motivo - come sopra accennato - va disatteso, tenuto altresì conto che la verifica dell'osservanza dell'onere di specificazione non è direttamente effettuabile dal giudice di legittimità, dacchè interpretare la domanda - e, dunque, anche la domanda di appello - è compito del giudice di merito e implica valutazioni di fatto che la Corte di Cassazione - così come avviene per ogni operazione ermeneutica - ha il potere di controllare soltanto sotto il profilo della giuridica correttezza del relativo procedimento e della logicità del suo esito (Cass. 1 febbraio 2007 n. 2217).
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione della sentenza impugnata in tema di mobbing, in relazione alla complessiva prospettazione dei fatti di causa richiamati nel ricorso in appello, nonchè violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., con riferimento agli artt. 2087 e 1218 c.c. (art. 360 c.p.c., nn. 5 e 3).
Sostiene che il Giudice di appello non avrebbe tenuto conto della descritta condotta mobbizzante di cui era stata vittima ed, allo scopo, allega specifici vizi della motivazione della sentenza incentrando infine la critica sull'onere della prova del mobbing. Rafforza poi il proprio assunto, deducendo, con il terzo motivo, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata, per aver la Corte territoriale ritenuto legittima, e non espressione di mobbing, la privazione delle mansioni in precedenza attribuitele con assegnazione di diverse mansioni, e violazione e falsa applicazione dell'art. 2103 c.c. (all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).
Asserisce, infine, con il quarto motivo denunciando altrettanti vizi di motivazione in relazione alla ritenuta insubordinazione per mancata consegna di documentazione societaria, che la sentenza di Appello avrebbe trascurato il fatto che detta documentazione era riservata e che pertanto il rifiuto non costituiva insubordinazione.
Nessuno degli esposti motivi merita accoglimento.
Invero, l'impugnata sentenza, nell'affrontare la questione del "mobbing", ha tenuto in primo luogo a riportare le ragioni poste dalla G. alla base delle proprie richieste, osservando come la lavoratrice avesse dedotto che, nell'arco di quasi un trimestre, era stato attuato il dedotto "mobbing", inizialmente attraverso una inesistente contestazione disciplinare di assenza dal lavoro, poi mediante il suo esautoramento totale dalle funzioni manageriali svolte, successivamente attraverso il demansionamento attuato attraverso il distacco aziendale per l'espletamento solo di mansioni già svolte in passato ma unitamente ad altre più pregnanti, infine con il licenziamento .
Ha poi evidenziato come non risultasse proposta dalla G. alcuna distinta e specifica domanda di accertamento ex art. 2103 c.c., del lamentato demansionamento e di risarcimento del danno da dequalificazione.
Ha quindi osservato come nell'ambito lavorativo, secondo il condiviso orientamento della giurisprudenza prevalente, la parola mobbing abbia assunto il significato di pratica persecutoria o, più in generale, di violenza psicologica perpetrata dal datore di lavoro o da colleghi nei confronti di un lavoratore (mobbizzato) per costringerlo alle dimissioni o comunque ad uscire dall'ambito lavorativo.
Più specificamente - sempre secondo la Corte territoriale - il mobbing ricorre ove sia accertata la reiterazione nel tempo di comportamenti di ostracismo e di persecuzione nei confronti del lavoratore-vittima designata da parte o dei colleghi ("mobbing" orizzontale") o dei superiori gerarchici ("bossing" verticale), senza che i titolari del rapporto sinallagmatico di lavoro intervengano in alcun modo per interrompere detti comportamenti, con ciò assumendosi la responsabilità delle conseguenze di detti comportamenti (artt. 2049 e 2087 c.c.).
Da tali corrette premesse ha tratto la conseguenza che, perchè possa integrarsi la condotta mobbizzante occorre che la persecuzione sia stata "sistematica e duratura", e non come nella fattispecie caratterizzata dalla brevità del periodo, "essendosi eventualmente protratti per meno di un trimestre (e non per i sei mesi individuati dalla prassi giudiziaria) gli episodi vessatori e persecutori asseritamente operati dal preposto ...".
Riportandosi, poi, alle condivise argomentazioni del giudice di primo grado, che aveva evidenziato la carenza di prova degli intenti persecutori e vessatori del preposto e dell'azienda nei confronti della G., in quanto persona non gradita al nuovo direttore generale, ha dato atto di come fosse pacifica oltre che provata documentalmente e a mezzo dei testi escussi, l'esistenza del processo di ristrutturazione aziendale, diretto a realizzare l'unificazione della gestione amministrativa delle varie aziende del gruppo stesso (tra le quali anche lo stabilimento di Mareno).
Risultava, altresì, provato che nell'ambito di detta riorganizzazione era stato assunto, nel novembre 1998, tale C. per la sua specifica esperienza del settore, il quale, da allora, aveva sostituito la G. nell'incarico di "responsabile amministrazione, finanza e controllo di raggruppamento" dello stabilimento di Mareno Divisione Ali nel detto processo di integrazione.
Risultava, ancora, provato che detta scelta aziendale era stata comunicata alla stessa G., oltre che al nuovo direttore, dal consigliere di amministrazione ALI S.p.A..
In questo accertato contesto il Giudice a quo ha ritenuto pienamente condivisibile il giudizio espresso dal Tribunale secondo cui la lamentata sottrazione della detta funzione e l'assegnazione dell'incarico a C. era corrispondente ad una scelta datoriale oggettivamente motivata ed affettivamente sussistente, come tale insindacabile nel merito.
Ha ritenuto altresì che nessun profilo "mobbizzante" potesse essere ravvisato nei fatti successivi posto che nella comunicazione datoriale predetta era stato "espressamente" richiesto ai destinatari, tra cui anche l'appellante G., "di prestare la massima collaborazione a C. e di inviargli copia di tutti i "reporting" mensili dalla stessa inviati alla Holding ALI".
Per quanto precede, non sono ravvisabili nell'iter argomentativo adottato dal Giudice a quo le lamentate violazioni di legge, nonché i denunciati vizi di motivazione.
Va in proposito rammentato che - come questa Corte ha avuto più volte modo di affermare (cfr., in particolare, tra le tante, Cass. sez. un. 27 dicembre 1997 n. 13045) - il vizio di motivazione non può consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello auspicato dalle parti, perché spetta solo al giudice del merito di individuare le fonti del proprio convincimento ed all'uopo valutarne le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute più idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all'uno o all'altro mezzo di prova, salvi i casi tassativamente previsti dall'ordinamento. Ne consegue che il giudice di merito è libero di formarsi il proprio convincimento utilizzando gli elementi probatori che ritiene rilevanti per la decisione, senza necessità di prendere in considerazione tutte le risultanze processuali e di confutare ogni argomentazione prospettata dalle parti, essendo sufficiente che indichi gli elementi sui quali fonda il suo convincimento, dovendosi ritenere per implicito disattesi tutti gli altri rilievi e circostanze che, sebbene specificamente non menzionati, siano incompatibili con la decisione adottata.
In questa prospettiva, pertanto, il controllo del giudice di legittimità sulla motivazione del giudice del merito non deve tradursi in un riesame del fatto o in una ripetizione del giudizio di fatto, non tendendo il giudizio di cassazione a stabilire se gli elementi di prova confermino, in modo sufficiente, l'esistenza dei fatti posti a fondamento della decisione.
Il ricorso va, pertanto, rigettato.
Le spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese di questo giudizio, liquidate in Euro 32,00 oltre Euro 2.500,00 per onorari ed oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 7 luglio 2009.
Depositato in Cancelleria il 17 settembre 2009

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