Riscontro del demansionamento: obbligo di risarcimento danno in via presuntiva
 
Cass., sez. lav.,  16 febbraio 2012, n. 2257-Pres. Amoroso- Rel. Nobile

Vizio di motivazione - Riscontro in via presuntiva di avvenuta dequalificazione non indennizzata.

La Corte di merito (che pure ha richiamato le pronunce delle Sezioni Unite n. 6572/2006 e 26972/2008) in sostanza non solo ha rilevato il “carattere illecito del demansionamento subito dal L. , bensì ha altresì chiaramente accertato, con ampia motivazione in fatto, che per effetto della variazione di mansioni il L. aveva “subito una perdita rilevante sia sul piano dell’autonomia e rilevanza delle proprie incombenze sia del potere di coordinamento, ossia dei tratti qualificanti che caratterizzano la professionalità del lavoratore di secondo livello”.
Ciò nonostante, e pur a fronte della riscontrata “rilevanza di tale perdita”, la Corte ha respinto la domanda risarcitoria senza considerare che gli elementi di fatto emersi (a cominciare dalla prolungata e sistematica adibizione a mansioni nettamente inferiori, nel concreto ambiente di lavoro e nelle circostanze emerse) ben potevano essere valutati ai fini della prova presuntiva del danno alla dignità e professionalità lamentato dal L.
Così facendo la sentenza impugnata, in sostanza, nel contempo ha disatteso i principi sopra richiamati ed è incorsa nel vizio di motivazione denunciato, nulla avendo detto in merito alla prova presuntiva del danno, sulla quale, invece, era stata fondata le decisione di primo grado.
L'impugnata sentenza va, infine cassata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Corte di Appello di Cagliari in diversa composizione, la quale provvederà sulla domanda risarcitoria del danno da demansionamento applicando i principi e le indicazioni di cui sopra e statuirà anche sulle spese di legittimità.
Svolgimento del processo

 

Con ricorso al Tribunale di Cagliari depositato il 26-4-2004 G.L. responsabile di reparto di macelleria di supermercato C. in Cagliari alla via (…), inquadrato nel secondo livello del ccnl Commercio sin dal novembre 1999, convenne in giudizio la S. s.r.l., subentrata alla T. s.r.l esponendo che la società, con riferimento ad una sua domanda di trasferimento presso il supermercato C. di Capoterra, da lui proposta nell’erroneo convincimento che quest’ultimo appartenesse alla T. gli aveva comunicato di prendere atto delle sue dimissioni con decorrenza dal 25- 4-2003 e che, contestualmente, un’altra società A. lo aveva invitato a prendere servizio presso il supermercato di Capoterra. Il ricorrente aggiungeva che in via cautelativa aveva preso servizio in Capoterra dal 26-4-2003, impugnando nel contempo il “licenziamento” comunicatogli dalla T., non avendo egli giammai presentato le dimissioni e che, in risposta, la T. gli aveva comunicato la sua riassunzione dal 26-5-2003. Lamentava, quindi, che, ripreso servizio nel supermercato di via dei (…), aveva trovato il suo posto di responsabile della macelleria occupato da altro dipendente. essendo così adibito a compiti di semplice commesso, e che, inoltre, era stato oggetto di una serie di condotte vessatorie (quali: l’eliminazione dello straordinario forfetizzato, la progressiva emarginazione dall’ambiente di lavoro, verosimilmente preordinata ad indurlo a rassegnare le dimissioni in quanto dipendente “scomodo”, perché fruitore di permessi ex I. n. 104 del 1992, la applicazione della sanzione del richiamo scritto per essersi egli rifiutato di andare a lavorare nell’agosto 2003 in altro punto vendita sebbene non vi fosse tenuto ex art. 33 della citata legge n. 104.
Tutto ciò premesso, il ricorrente chiese, previo accertamento dell’illegittimità del licenziamento, la condanna della convenuta al versamento dell’indennità prevista dall’art. 18 della
legge n. 300/1970 ed al pagamento dello straordinario forfetizzato maturato dal giugno 2003, chiese inoltre che fosse ordinata alla società la sua assegnazione a mansioni proprie del secondo livello e la cessazione dei comportamenti vessatori e ritorsivi, con la condanna della convenuta al risarcimento dei danni e con l’annullamento della sanzione disciplinare irrogata.
La S. s.r.l, si costituì contestando la fondatezza delle domande e chiedendo il rigetto delle stesse.
In particolare la società deduceva che il L. ben sapeva che il supermercato di Capoterra apparteneva all’A s.r.l. (essendo il cognato unico socio della stessa), che la domanda di trasferimento era stata intesa come dimissioni considerata la posizione del L. che abitava in Capoterra, che comunque il lavoratore non aveva subito alcun danno essendo stato senza soluzione di continuità dapprima assunto alle medesime condizioni dalla A. e poi, a seguito della impugnazione, riammesso in servizio nel supermercato di via (…).
Circa poi il lamentato demansionamento la società deduceva che, al suo rientro, non era stato possibile riassegnare al L. il ruolo di responsabile della macelleria sia in quanto lo stesso era stato ormai ricoperto stabilmente da altro dipendente sia perché il L. aveva richiesto espressamente di lavorare solo la mattina e non nei giorni festivi a causa della necessità di prestare assistenza ai figli.
La convenuta rilevava inoltre che la mancata effettuazione di lavoro straordinario aveva comportato il mancato riconoscimento del compenso per lo straordinario forfetizzato e che la sanzione disciplinare era stata giustificata dal rifiuto di un semplice distacco di pochi giorni, per sostituire un collega in ferie.
In un punto vendita a pochi centinaia di metri da via dei (…). Il Giudice adito, con sentenza depositata il 28-12-2007, in parziale accoglimento del ricorso, dichiarava illegittimo il licenziamento e condannava la società al pagamento di un’indennità di euro 12.298,55, pari a cinque mensilità, con rivalutazione e interessi; dichiarava altresì illecito il demasionamento subito dal 26-5-2003 condannando la società a reintegrare il L. nelle mansioni di caporeparto o in altre equivalenti nonché al risarcimento del danno commisurato ad euro 250 per ciascuna mensilità, ivi compresa la 13a e la 14a, dal giugno 2003 fino all’effettiva reintegrazione, oltre accessori; dichiarava inoltre la convenuta tenuta al ripristino dell’ indennità di straordinario forfetizzala e condannava la stessa al pagamento dei ratei dal giugno 2003 oltre accessori.
Avverso tale sentenza la M. s.r.l. (già S. s.r.l.) proponeva appello chiedendone la riforma con il rigetto delle domande di controparte. ll L. si costituiva e resisteva al gravame.
La Corte d’Appello di Cagliari, con sentenza depositata il 25-5-2009, confermava la statuizione della declaratoria di illiceità del demansionamento e della condanna della convenuta alla reintegra del L. nelle mansioni di caporeparto o altre equivalenti, e in parziale riforma della pronuncia di primo grado, rigettava tutte le altre domande.
In sintesi la Corte territoriale affermava che, dalla corrispondenza intercorsa tra le parti e dagli altri elementi emersi, era risultato che nella nota dell’aprile del 2003 non si rinveniva un atto di licenziamento bensì una ritenuta adesione del datore di lavoro, in assenza di colpa, ad una proposta di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro del lavoratore, poi prontamente revocata dalla T. a seguito della opposizione del L., con ripristino delle originarie condizioni contrattuali e senza realizzazione di alcun danno”.
La Corte di merito, invece, riteneva confermato il lamentato demansionamento non potendo, in sostanza, essere ritenute le nuove mansioni equivalenti a quelle in precedenza disimpegnate per circa quattro anni 11 qualità di responsabile della macelleria, ma rigettava, per mancanza di specifiche allegazioni, la domanda risarcitoria sugli asseriti ed imprecisati danni patrimoniali e non patrimoniali lamentati”.
Infine la Corte territoriale rigettava la domanda relativa allo straordinario forfetizzato.
Per la cassazione di tale sentenza il L. ha proposto ricorso con sei motivi. La M. s.r.l. (già S. s.r.l., già T. s.r.l.) ha resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione

 

Con il primo motivo, denunciando violazione degli artt. 1324. 1362. 1363. 1366, 1369, 1371. e 2118 c.c., il ricorrente deduce che erroneamente ed in violazione delle disposizioni di ermeneutica negoziale, la Corte di merito avrebbe interpretato la lettera 14-3-2003 del L. (contenente “una richiesta scritta del lavoratore di trasferimento” ad un punto vendita non appartenente al datore di lavoro ma ad un soggetto terzo che utilizza lo stesso marchio e la stessa insegna”) come “una manifestazione di dimissioni condizionate all’instaurazione di un rapporto di lavoro con altro datore, nonostante la volontà di dimettersi non emerga dal testo della richiesta scritta e nonostante possa ravvisarsi un’ interpretazione alternativa e meno gravosa per l’istante, quale quella di trasferimento richiesto sul presupposto erroneo di appartenenza di entrambe le sedi al medesimo datore di lavoro ovvero quella di distacco del lavoratore presso altro datore di lavoro”.
Con il secondo motivo, denunciando violazione degli artt. 116, 2727 e 2729 c.c., il ricorrente lamenta che la Corte territoriale avrebbe disatteso le regole sulla valutazione delle prove ed in specie sulle presunzioni, nel ritenere che il lavoratore ben sapesse che il “trasferimento” veniva richiesto presso un nuovo datore di lavoro”, sulla base di circostanze non univoche (la indicazione del marchio e non del datore di lavoro come destinatario della richiesta, l’essere il L. cognato del socio unico della società presso cui viene chiesto il “trasferimento”, l’essere il lavoratore un capo reparto inquadrato nel I livello del ccnl Commercio, l’avere lo stesso atteso alcuni giorni prima di reagire contro il telegramma che lo invitava a prendere servizio presso il nuovo datore). Con il terzo motivo il ricorrente denuncia vizio di motivazione in ordine alla valutazione delle prove circa la sua consapevolezza che la T. s.r.l. non fosse titolare del punto vendita in Capoterra, via (…)
I detti tre motivi, che in quanto strettamente connessi possono essere trattati congiuntamente, risultano in parte inammissibili e in parte infondati.
Come ripetutamente è stato affermato da questa Corte e va qui ribadito la valutazione degli elementi probatori è attività istituzionalmente riservata al giudice di merito, non sindacabile in cassazione e non sotto il profilo della congruità della motivazione del relativo apprezzamento” (v. fra le altre Cass. 13-1-2003 n. 322. Cass. 17-11-2005 n. 23286. Cass. 18-5-2006 0.11660), nel contempo è stato anche più volte affermato che “il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’ art. 360 n. 5 c.p.c. non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione e esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità ne consegue che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Suprema Corte di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso la autonoma propria valutazione delle risultanze degli atti di causa” (v., fra le altre, da ultimo Cass. 7-6-2005 n. 11789, Cass. 6-3-2006 Il. 4766).
Peraltro, come pure è stato precisato. “in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360, primo comma n. 5), cod. proc. civ., e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità” (v. fra le altre Cass. sez. II 20-6-2006 n. 14267). In particolare, poi, è stato anche chiarito che “in tema di prova presuntiva, e incensurabile in sede di legittimità l’apprezzamento del giudice di merito circa la valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione, sempre che la motivazione adottata appaia congrua dal punto di vista logico, immune da errori di diritto e rispettosa dei principi che regolano la prova per presunzioni” (v. fra le altre Cass. 20-7-2006 n. 16728. Cass. 23-1- 2006 n. 1216).
Parimenti, con riguardo all’interpretazione degli atti di autonomia privata, questa Corte ha costantemente affermato che la stessa costituisce una attività riservata al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua, cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione. Ai fini della censura di violazione dei canoni ermeneutica, non è peraltro sufficiente l ‘astratto riferimento alle regole legali di interpretazione, ma è necessaria la specificazione dei canoni in concreto violati. con la precisazione del modo e delle considerazioni attraverso i quali il giudice se ne è discostato.” “La denuncia del vizio di motivazione dev’essere invece effettuata mediante la precisa indicazione delle lacune argomentative, ovvero delle illogicità consistenti nell’attribuzione agli elementi di giudizio di un significato estraneo al senso comune, oppure con l’indicazione dei punti inficiati da mancanza di coerenza logica, e cioè connotati da un’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti, sempre che questi vizi emergano appunto dal ragionamento logico svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza. In ogni caso, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non ènecessario che quella data dal giudice sia l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, sicché, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra” (v. Cass. sez. 1 22-2-2007 n. 4178, Cass. sez. I 7-3-2007 n. 5273.Cass. sez. III 12-7-2007 n. 15604).
Orbene, nella fattispecie, va in primo luogo evidenziato che la sentenza impugnata, dopo aver attentamente esaminato e valutato tutta la corrispondenza intercorsa tra le parti e gli altri elementi di fatto emersi, ha affermato che nella nota dell’aprile 2003 non si rinveniva un atto di
licenziamento bensì “una ritenuta adesione del datore di lavoro, in assenza di colpa, ad una proposta di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro del lavoratore, poi prontamente revocata dalla T., a seguito della opposizione del L. In sostanza si era trattato non di licenziamento (e neppure di dimissioni condizionate) bensì di una risoluzione concordata, effettuata su richiesta del
lavoratore, “con passaggio diretto e con accordo plurilaterale a tre di costituzione di un nuovo rapporto di lavoro previa estinzione del precedente”.
Tale ricostruzione dei fatti e tale interpretazione degli atti delle parti è sorretta da congrua motivazione e resiste alle censure del ricorrente, che in sostanza si limita semplicemente ad offrire una diversa lettura (”possibile”) degli atti e dei fatti stessi, senza che vengano specificati concretamente gli errori di diritto e i vizi logici nei quali la Corte di merito sarebbe incorsa.
In particolare, poi, sul primo motivo va osservato che il ricorrente da un lato ripropone la propria interpretazione della richiesta di “trasferimento”, insistendo su tale elemento letterale, dall’altro, contraddittoriamente e inammissibilmente, offre una lettura dell’atto nuova, nel senso della richiesta di un “distacco”, su cui peraltro non vi è traccia nell’ impugnata sentenza e manca in ricorso qualsiasi indicazione specifica in ordine all’avvenuta deduzione davanti ai giudici di merito (v. Cass. 15-2-2003 n. 2331. Cass. 10-7-2001 n. 9336).
Con il secondo e con il terzo motivo, inoltre si assume, in sostanza, la non univocità delle circostanze poste a base della presunzione evidenziata (circa la consapevolezza della diversità del datore di lavoro in capo al lavoratore richiedente il “trasferimento”), senza in effetti in alcun modo specificare, in concreto né l’errore di diritto, né iI vizio di motivazione, rispettivamente denunciati.
D’altra parte la motivazione dell’impugnata sentenza, sul punto risulta del tutto logica e rispettosa dei principi della prova per presunzioni.
Con il quarto motivo, denunciando violazione degli art. 2103. 1218. 1226. 2087.2043. 2697, 2727, 2729 c.c. e 432 c.p.c., il ricorrente in sostanza lamenta che la Corte territoriale ha riformato la pronuncia di primo grado relativamente alla condanna al risarcimento del danno da demansionamento, nonostante che la stessa sentenza di appello “abbia riconosciuto con ampia motivazione la sussistenza del dernansionamento, prolungato nel tempo e la considerevole perdita di autonomia e del coordinamento”.
In particolare il ricorrente deduce che, in forza del ricorso alla prova per presunzioni, trattandosi nella fattispecie di un “caso di protratto demansionamento, con adibizione molto lunga a mansioni inferiori di oltre un livello della classificazione contrattuale” in ambiente di lavoro ampio, ben poteva ritenersi, come affermato dal primo giudice, che si era verificato un danno alla dignità professionale ovvero all’ immagine del lavoratore (quand’ anche non vi fosse stato un danno alla carriera o non fosse ravvisabile un danno “biologico”). Peraltro, parimenti in base agli stessi elementi presuntivi ben poteva ritenersi provato un danno morale, pur in assenza di reato.
Con il quinto motivo il ricorrente denuncia vizio di motivazione al riguardo, in sostanza lamentando che la sentenza impugnata “pur riconoscendo il demansionamento prolungato (circa quattro anni) rilevante (da capo reparto a addetto, con subordinazione gerarchica ad altro capo reparto) e palese (dinanzi ad almeno altri tre colleghi del reparto macelleria, oltre il capo reparto effettivo)”, ha escluso il diritto al risarcimento del danno.
Su tali motivi, strettamente connessi, osserva il Collegio che, come affermato dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte (v. Cass. S.U. 24-3- 2006 n. 6572), “in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamene ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psico-fìsica medicaImente accertabile, il danno esistenziale - da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno - va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l’avvenuta lesione dell’ interesse relazionale, effetti negati i dispiegati nelle abitudini di vita del oggetto) - il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico - si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 cod. proc. civ .. a quelle nozioni generali derivanti dall’ esperienza, delle quali si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove”.
Tale principio è stato in sostanza confermato anche nel quadro generale della accezione unitaria del danno non patrimoniale successivamente tracciata dalle stesse Sezioni Unite (v. Cass. S.U. 11-11-2008 n. 26972). In specie Cass. 19-12-2008 11. 29832 ha affermato che “ogni pregiudizio, di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno, va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del oggetto) si possa attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno.
Nel contempo (v. ancora Cass. n. 29832/2008 cit.) è stato anche affermato che “la risarcibilità del danno morale, a norma dell’art. 2059 c.c. non è soggetta al limite derivante dalla riserva di legge e non richiede che il fatto illecito integri in concreto un reato, essendo sufficiente che sia stata una lesione di un interesse inerente alla persona, costituzionalmente garantito, atteso che la previsione costituzionale dell’interesse relativo ne esige in ogni caso la protezione”.
Nello stesso quadro, tracciato dalle Sezioni Unite, da ultimo è stato altresì precisato che, tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il pregiudizio “non è sufficiente a dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale” (v. Cass. 17-9-2010 n. 19785) che “in caso di accertato demansionamento professionale, la risarcibilità del danno all’immagine derivato al lavoratore a cagione del comportamento del datore di lavoro presuppone che la lesione dell’ interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità, e che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri di agi o fastidi” (v. Cass. 4-3-2011 11.5237).
Orbene, nella fattispecie, la Corte di merito (che pure ha richiamato le pronunce delle Sezioni Unite n. 6572/2006 e 26972/2008) in sostanza non solo ha rilevato il “carattere illecito del demansionamento subito dal L. , bensì ha altresì chiaramente accertato, con ampia motivazione in fatto, che per effetto della variazione di mansioni il L. aveva “subito una perdita rilevante sia sul piano dell’autonomia e rilevanza delle proprie incombenze sia del potere di coordinamento, ossia dei tratti qualificanti che caratterizzano la professionalità del lavoratore di secondo livello”.
Ciò nonostante, e pur a fronte della riscontrata “rilevanza’ di tale perdita”, la Corte ha respinto la domanda risarcitoria senza considerare che gli elementi di fatto emersi (a cominciare dalla prolungata e sistematica adibizione a mansioni nettamente inferiori, nel concreto ambiente di lavoro e nelle circostanze emerse) ben potevano essere valutati ai fini della prova presuntiva del danno alla dignità e professionalità lamentato dal L.
Così facendo la sentenza impugnata, in sostanza, nel contempo ha disatteso i principi sopra richiamati ed è incorsa nel vizio di motivazione denunciato, nulla avendo detto in merito alla prova presuntiva del danno, sulla quale, invece, era stata fondata le decisione di primo grado.
In tale senso vanno quindi accolti il quarto e il quinto motivo.
Infine con il sesto motivo il ricorrente, denunciando ulteriore vizio di motivazione, censura la impugnata sentenza nella parte in cui ha respinto la domanda relativa alla indennità di straordinario forfetizzato, deducendo in sostanza che tale indennità era connessa alla funzione di caporeparto.
Il motivo è infondato, in quanto la sentenza impugnata, con motivazione congrua e priva di vizi logici, ha affermato che, in base al chiaro tenore della comunicazione del 1-12-1999, nell’ottica delle parti la ragione giustificatrice della concessione della detta indennità consisteva non tanto nell’esercizio delle mansioni di capo reparto, quanto piuttosto nella riconosciuta facoltà di un “autonomo e discrezionale uso deIl ‘orario di lavoro, con possibilità di eccedenze rispetto a quello contrattuale in quantità non controllabile né quantificabile a priori”, di guisa che “del tutto legittimamente il datore di lavoro. nell’ accogliere la richiesta del L. di prestare la sua attività solo nell’ambito dei turni antimeridiani e con esclusione dei giorni festivi - ossia con un’articolazione rigida di orario che contraddice apertamente quella discrezionalità che costituiva il presupposto della riconosciuta indennità - ha provveduto alla contestuale soppressione, con effetto dal 1 giugno 2003, dello straordinario forfetizzato in precedenza riconosciuto, essendo venute meno le condizioni di discrezionalità che a suo tempo ne avevano giustificato la erogazione.
Così accolti il quarto e il quinto motivo e respinti gli altri, la impugnata sentenza va, infine cassata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Corte di Appello di Cagliari in diversa composizione, la quale provvederà sulla domanda risarcitoria del danno da demansionamento applicando i principi e le indicazioni di cui sopra e statuirà anche sulle spese di legittimità.
P.Q.M.

 

La Corte accoglie il quatto e il quinto motivo, rigetta gli altri, cassa la impugnata sentenza in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese alla Corte di Appello di Cagliari in diversa composizione.
Depositata in Cancelleria il 16.02.2012

(Torna alla Sezione Mobbing)