Rifiuto di dequalificazione legislativamente consentita per evitare la mobilità: legittimità del licenziamento

 

Cass., sez. lav., 5 dicembre 2007, n. 25313 – Pres. Sciarelli – Rel. De Matteis - Pm Destro (conf.) – Ricorrente Esposito – Controricorrente Sifip Srl.

 

Rifiuto di svolgimento di mansioni inferiori (da impiegato ad operaio), conseguenti a dequalificazione legislativamente consentita, ex art. 4, 11 co., l. n. 223/91 -  Illegittimità del rifiuto – Licenziamento  conseguente – Ammissibilità.

 

Sul piano giurisprudenziale la rigidità della disciplina complessiva dell'articolo 2103 è stata messa in crisi dalla drammatica scelta tra perdita del posto di lavoro e conservazione dello stesso a condizioni deteriori.

Il chiaro interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro è stato privilegiato prima dalla giurisprudenza di merito, e poi dalla stessa giurisprudenza di legittimità, che si può ormai considerare consolidata, nonostante le severe critiche della dottrina sulla infedeltà testuale, nel senso che la nullità, sancita nell'art. 13 della legge n. 300 del 1970, di ogni patto contrario alla disciplina dettata dalle precedenti disposizioni dello stesso articolo, non è riferibile anche all'ipotesi in cui la modifica in peius delle mansioni sia stata concordata nell'interesse del lavoratore e al fine di evitare il licenziamento del medesimo; infatti, in detta ipotesi, il patto concernente la diversa utilizzazione del lavoratore non è in contrasto con le esigenze di dignità e libertà della persona e configura, per il lavoratore, una soluzione più favorevole di quella - ispirata ad un'esigenza di mero rispetto formale della norma - rappresentata dal licenziamento con successiva riassunzione.

Tale principio, c.d. della ammissibilità del patto di dequalificazione al fine di evitare il licenziamento, è stato successivamente ampliato al fine di ritenere legittima anche l'assegnazione datoriale unilaterale a mansioni inferiori allo stesso fine, in caso di inabilità permanente alle mansioni, ed in mancanza di altre equivalenti (Sezioni Unite 7 agosto 1998 n. 7755, Cass. 9 marzo 2004 n. 4790).

In tale ambito, le Sezioni Unite di questa Corte hanno proceduto ad una revisione in senso dinamico e collettivo della nozione di professionalità, tradizionalmente intesa in senso statico, ammettendo la legittimità delle previsioni contrattuali di flessibilità ed intercambiabilità nell'ambito di un'ampia area di professionalità diverse, proprio per consentire la riorganizzazione produttiva e l'accrescimento delle professionalità di ciascuno (S.U. sentenza 24 novembre 2006 n. 25033; Cass. sez. lav. 8 marzo 2007 n. 5285).

 

Svolgimento del processo

 

La S.p.A. Ici - Impresa Costruzioni Impianti ha demansionato il signor Giovanni Esposito, proprio dipendente con qualifica impiegatizia e mansioni di assistente, alle mansioni operaie, in esecuzione dell'accordo ministeriale 23 marzo 1999, il quale, al fine di evitare la procedura di mobilità per 144 unità in esubero nel territorio nazionale, ha previsto per la sede di Lecce, dove l'Esposito prestava servizio, il demansionamento di due assistenti e un addetto alla contabilità, ai sensi dell'art. 4, comma 11, Legge 23 luglio 1991, n. 223.

Con lettera del 23 aprile 1999 l'Ici ha contestato all'Esposito l'assenza ingiustificata dal giorno 19 aprile, e con lettera del 14 maggio 1999 lo ha licenziato. L'impugnazione del licenziamento, accolta dal primo giudice, è stata respinta dalla Corte d'appello di Lecce con sentenza 20 maggio/3 giugno 2004 n. 1157.

Il giudice di appello ha premesso che il provvedimento di demansionamento disposto dalla società nei confronti dell'Esposito era legittimo, perché fondato sull'accordo ministeriale del 23 marzo 1999, portato a conoscenza dell'Esposito non già dopo il licenziamento ed in occasione di un incontro presso la commissione di conciliazione - come da questi sostenuto nel ricorso introduttivo del giudizio ma molto prima del licenziamento medesimo, con il telegramma 2 aprile 2004 (rectius 2 aprile 1999). Con questo telegramma la società comunicava al lavoratore che, in esecuzione dell'accordo sottoscritto presso il ministero del lavoro in Roma in data 23 marzo 1999, lo stesso sarebbe stato impiegato nelle previste mansioni operaie quale addetto all'attività di installazione di impianti e reti telefoniche, con conseguente sua collocazione in solidarietà con riduzione d'orario al 50%; comunicava altresì che dal 5 al 17 aprile 1999 sarebbe stato posto in solidarietà a zero ore e successivamente sarebbe rimasto con l'attività definita, in ossequio al programma di rotazione predisposto.

L'Esposito contestava tali disposizioni con telegramma in data 5 aprile 1999, e nei giorni successivi al 17 aprile si è presentato sul posto di lavoro pretendendo di svolgere le mansioni di impiegato.

Il giudice d'appello ha valutato che l'Esposito, essendosi rifiutato di svolgere le mansioni che gli erano state legittimamente assegnate, deve essere ritenuto assente ingiustificato dal lavoro a partire dal 19 aprile 1999.

Il giudice d'appello ha concluso che il licenziamento è giustificato, in base alla giurisprudenza di legittimità, che citava (Cass. 23 dicembre 2003 n. 19689, Cass. 7 settembre 2000 n. 11806).

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione l'Esposito, con unico motivo.

Si è costituita con controricorso, resistendo, la s.r.l. Sifip, società incorporante la s.p.a. Ici.

Entrambi hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.

 

Motivi della decisione

 

Con unico motivo il ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 1460 e 2119 cod. civ. (art. 360, n. 3 c.p.c); omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, (art. 360, n. 5 c.p.c), non contesta più la legittimità del demansionamento, ma concentra le sue censure sulla mancanza di proporzionalità tra illecito e sanzione.

Fa notare che il lavoratore aveva contestato in buona fede l'esercizio da parte del datore di lavoro dello jus variandi; lamenta che la sentenza impugnata non abbia valutato la buona fede del suo comportamento, al fine di una corretta applicazione dell'articolo 1460 del codice civile; lamenta altresì che la sentenza impugnata non abbia attribuito efficacia discriminante alla circostanza, di cui pur dà atto, che l’Esposito non aveva abbandonato il posto di lavoro, ma vi si era recato ogni giorno, dichiarando la propria disponibilità a svolgere le mansioni cui prima era applicato.

Il motivo non è fondato.

L'art. 4, comma undicesimo, della Legge 23 luglio 1991, n. 223 statuisce: "Gli accordi sindacali stipulati nel corso delle procedure di cui al presente articolo, che prevedano il riassorbimento totale o parziale dei lavoratori ritenuti eccedenti, possono stabilire, anche in deroga al secondo comma dell'articolo 2103 del codice civile, la loro assegnazione a mansioni diverse da quelle svolte".

Tale disposizione è stata interpretata da questa Corte, come correttamente ricordato nella sentenza impugnata, nel senso che essa implica la possibilità di attribuire mansioni anche peggiorative, e non pone alcuna preclusione nell'assegnazione delle mansioni inferiori, anche attribuendo all'impiegato quelle proprie dell'operaio; e ciò si spiega considerando che trattasi di un rimedio per evitare il licenziamento (Cass. 7 settembre 2000 n. 11806).

La ratio della disposizione in esame è quindi coerente con il processo storico di flessibilizzazione della originaria rigidità della disposizione, ad opera sia della giurisprudenza, sia del legislatore.

L'art. 2103 c.c., come novellato dall'art. 13 Legge 20 maggio 1970, n. 300, proibisce l'adibizione del lavoratore a mansioni inferiori a quelle di assunzione o corrispondenti alla categoria superiore successivamente acquisita e, all'ultimo comma, fulmina di nullità qualsiasi patto contrario, volto a derogare ai precetti in materia di tutela della professionalità.

Sul piano giurisprudenziale la rigidità della disciplina complessiva dell'articolo 2103 è stata messa in crisi dalla drammatica scelta tra perdita del posto di lavoro e conservazione dello stesso a condizioni deteriori. La primitiva risposta della giurisprudenza fu fedele al dato testuale, con la motivazione che il legislatore, con l'articolo 13 Legge 20 maggio 1970, n. 300, che detta il nuovo testo 2103 codice civile, ha adottato uno strumento di tutela rigido che opera in tutte le direzioni e può, in condizioni particolari, comportare anche un sacrificio per il prestatore di lavoro (Cass. 13 febbraio 1980 n. 1026, Cass. 1 giugno 1983 n. 3753, Cass. 17 giugno 1983 n. 4189, Cass. 28 ottobre 1983 n. 6406). Successivamente il chiaro interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro è stato privilegiato prima dalla giurisprudenza di merito, e poi dalla stessa giurisprudenza di legittimità, che si può ormai considerare consolidata, nonostante le severe critiche della dottrina sulla infedeltà testuale, nel senso che la nullità, sancita nell'art. 13 della legge n. 300 del 1970, di ogni patto contrario alla disciplina dettata dalle precedenti disposizioni dello stesso articolo, non è riferibile anche all'ipotesi in cui la modifica in peius delle mansioni sia stata concordata nell'interesse del lavoratore e al fine di evitare il licenziamento del medesimo; infatti, in detta ipotesi, il patto concernente la diversa utilizzazione del lavoratore non è in contrasto con le esigenze di dignità e libertà della persona e configura, per il lavoratore, (ma costituisce) una soluzione più favorevole di quella - ispirata ad un'esigenza di mero rispetto formale della norma - rappresentata dal licenziamento con successiva riassunzione (ad iniziare da Cass. 12 gennaio 1984 n. 266; Cass. 7 marzo 1986 n. 1536, Cass. 4 maggio 1987 n. 4142; Cass. 29 novembre 1988 n. 6441, la quale ultima estende la legittimità del patto anche al fine di evitare la messa in cassa integrazione, con indirizzo tuttora perdurante: Cass. 7 febbraio 2005 n. 2375). Tale principio, c.d. della ammissibilità del patto di dequalificazione al fine di evitare il licenziamento, è stato successivamente ampliato al fine di ritenere legittima anche l'assegnazione datoriale unilaterale a mansioni inferiori allo stesso fine, in caso di inabilità permanente alle mansioni, ed in mancanza di altre equivalenti (Sezioni Unite 7 agosto 1998 n. 7755, Cass. 9 marzo 2004 n. 4790).

Ancora sul piano giurisprudenziale si può ricordare la ritenuta legittimità della adibizione a mansioni inferiori in misura non prevalente {Cass. 3 febbraio 2004 n. 1987), o l'espansione della nozione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, con corrispondente limitazione del diritto alla acquisizione della qualifica corrispondente alla mansione superiore svolta (includendovi le ferie del sostituto, prima escluse: Cass. 23 febbraio 2004 n. 3531, Cass. 6 maggio 1999 n. 4550, Cass. 8 ottobre 1997 n. 7541; i permessi retribuiti: Cass. 17 settembre 1991 n. 9677; la cassa integrazione guadagni: Cass. 5 dicembre 1990 n. 11663), o sullo svolgimento di mansioni vicarie di diverso livello, senza diritto al corrispondente inquadramento (Cass. 13 maggio 2004 n. 91413, Cass. 30 dicembre 1999 n. 14738).

Sul piano legislativo si può ricordare l'articolo 6 legge 13 maggio 1985 n. 190 (come sostituito dall'articolo 2 legge 2 aprile 1986 n. 106), che ha attribuito alla contrattazione collettiva il potere di determinare, per i quadri, il periodo di maturazione del diritto alle mansioni superiori in misura difforme e superiore, senza alcun limite di tempo, a quella civilistica del trimestre; l'articolo 4, comma 11, legge 23 luglio 1991 n. 223, in esame; l'articolo 8, comma secondo, d. lgs. 15 agosto 1991 n. 277, secondo cui il lavoratore che sia allontanato per motivi sanitari dalla lavorazione cui è addetto può essere temporaneamente adibito a mansioni deteriori a parità di retribuzione.

Lo stesso metodo della delega alla contrattazione collettiva, anziché dell'approccio frontale all'articolo 2103, è stato adottato dal legislatore per la riorganizzazione delle aziende pubbliche, e poi del pubblico impiego (art. 21 legge 17 maggio 1985 n. 210 per il personale ferroviario, D.L. 1 dicembre 1993 n. 487, convertito, con modificazioni, nella legge 29 gennaio 1994 n. 71 per i dipendenti postali, etc; emblematico del nuovo corso l'art. 22, comma 3, d.lgs.29 giugno 1996, n. 367, secondo cui l'articolo 2103 del codice civile si applica al personale artistico degli enti lirici nei modi disciplinati dalla contrattazione collettiva).

In tale ambito, le Sezioni Unite di questa Corte hanno proceduto ad una revisione in senso dinamico e collettivo della nozione di professionalità, tradizionalmente intesa in senso statico, ammettendo la legittimità delle previsioni contrattuali di flessibilità ed intercambiabilità nell'ambito di un'ampia area di professionalità diverse, proprio per consentire la riorganizzazione produttiva e l'accrescimento delle professionalità di ciascuno (S.U. sentenza 24 novembre 2006 n. 25033; Cass. sez. lav. 8 marzo 2007 n. 5285).

Posta dunque la legittimità della adibizione alle mansioni inferiori, le censure dell'odierno ricorrente in punto di proporzionalità appaiono prive di qualsiasi fondamento, perché attengono a circostanze di fatto attentamente esaminate dal giudice d'appello, e correttamente valutate alla stregua della giurisprudenza di legittimità.

Infatti costituisce grave insubordinazione, come tale passibile del provvedimento disciplinare del licenziamento per giusta causa, il comportamento del lavoratore che si renda inadempiente, rifiutandosi di eseguire la propria prestazione, ritenendola estranea alla qualifica di appartenenza. Come statuito da Cass. 23 dicembre 2003 n. 19689, "l'eventuale adibizione a mansioni non rispondenti alla qualifica rivestita può consentire al lavoratore di richiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell'ambito di qualifica di appartenenza, ma non autorizza lo stesso a rifiutarsi aprioristicamente e senza un eventuale avallo giudiziario (che può essergli urgentemente accordato in via cautelare), di eseguire la prestazione lavorativa richiestagli, in quanto egli é tenuto a osservare le diposizioni per l'esecuzione del lavoro impartito dall'imprenditore ai sensi degli artt. 2086 e 2104 del c.c., da applicarsi alla stregua del principio sancito dall'art. 41 della Costituzione; solo in caso di totale inadempimento dell'altra parte, infatti, si può legittimamente invocare l'art. 1460 del c.c. e rendersi inadempienti".

La giurisprudenza di questa Corte ha ammesso la legittimità del rifiuto della prestazione solo in determinati casi, che qui non ricorrono (quale il rifiuto dello straordinario illegittimamente disposto: Cass. 19 febbraio 1992 n. 2073).

Il ricorso va pertanto respinto.

Le spese processuali del presente giudizio sono compensate.

 

PQM
 

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del presente giudizio.

 

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Nota giornalistica

La precarizzazione si dilata sulle mansioni dei lavoratori

Quattro sentenze intercorse tra il novembre del 2006 e il dicembre 2007 (Cass. SU n. 25033/06, n. 5285/07, n. 8596/07, n. 25313/07, allo stato)  hanno effettuato una operazione stravolgente  della normativa dello Statuto dei lavoratori sulla professionalità, nell’ottica di una cd. «flessibilizzazione», sostantivo che sappiamo bene cosa celi dietro. Sostanzialmente la Cassazione ha detto che – rendendosi interprete anche delle «recriminazioni» della dottrina (certamente  dei supporters delle associazioni imprenditoriali) - è maturo il tempo dell’abbandono della difesa della cd. «professionalità statica» per dar spazio all’introduzione della «professionalità dinamica» o cd. «potenziale». Cosa significa in parole povere? Significa che il lavoratore che nel corso del suo rapporto di lavoro ha raggiunto una posizione ambita o un ruolo manuale specializzato (es. fresatore, tornitore, alesatore, fonditore, pittore, muratore, ecc.) ovvero un omologo ruolo di specialista settoriale di natura concettuale (legale, fiscalista, analista di bilanci, esperto informatico, analista finanziario ecc.), può vedersi richiedere dall’azienda - per cd. esigenze di servizio o tecnico/produttive - di spostarsi in mobilità orizzontale (o anche discendente)  su altre posizioni di lavoro diverse e soggettivamente carenti di requisiti di omogeneità, se non  quella che lega la comune matrice «manuale» delle mansioni operaie o ausiliarie e la comune matrice «concettuale» delle mansioni impiegatizie.
C’è da chiedersi come possa essere stata legittimata questa nuova concezione della divisione funzionale del lavoro in omaggio alle esigenze aziendali, considerato che il vigente art. 2103 c.c. si differenziò dal vecchio per aver deliberatamente espunto qualsiasi richiamo alle «esigenze dell’impresa». Facendosi salve – interpretativamente - quelle richieste dalla sicurezza e dalla salvaguardia degli impianti. La norma contro i declassamenti fu concepita – in funzione antielusiva –  pertanto in maniera del tutto rigida. Poi smussata dalla giurisprudenza e dal legislatore che consentirono il cd. «patto di declassamento» per i riassorbiti dalla Cig, per il colpito da sopravvenuta inidoneità alle originarie e più gravose mansioni, per i disabili con residua capacità lavorativa, sancendo l’onere datoriale di repêchage, in omaggio alla conservazione del bene (superiore alla professionalità) della conservazione del posto di lavoro.
Ma le aziende non si erano affatto rassegnate a subire la rigidità garantista dell’art. 2103 c.c. Così, con la forza e la perseveranza loro propria, convincevano le OO.SS. a pattuire  le cd. «clausole di fungibilità» nelle aree professionali, atte a consentire l’avvicendamento e lo spostamento del personale a mansioni  classificate nei ccnl come «omogenee» ma  in concreto «eterogenee». Nasceva così – nei ccnl delle FF.SS., delle Poste e del credito - la figura (insicura e precaria) del lavoratore «polivalente», spregiativamente «tuttofare» o «tappabuchi». 
La Cassazione – in luogo di invalidare queste clausole dichiaratamente tese ad una gestione flessibile della forza lavoro – le ha invece legittimate, con espressa autorizzazione alle OO.SS. di porle in essere (anche per deflazionare l’entità dei ricorsi).
Revocando le (già poche) garanzie per il lavoratore,  sono state così soddisfatte due esigenze: a) quella aziendale di precludere per il futuro qualsiasi rifiuto, dato il salvacondotto da invalidazioni giudiziali delle sanzioni irrogate ai cd. riottosi ; b) quella della magistratura di azzerare (d’ora in poi) il contenzioso  in tema di demansionamenti.
Così operando la Cassazione si è sostituita -  nel conferire la delega agli agenti contrattuali a  pattuirle – al legislatore, in un ambito che è quello dei diritti soggettivi di status professionale del lavoratore non comprimibili neppure dai ccnl. Resta da chiedersi come i Sindacati intendano muoversi a fronte dell’«autorizzazione/trabocchetto» loro indirizzata dagli «ermellini». Speriamo, davvero, non con l’acquiescenza riscontrata esemplificativamente nei precitati ccnl.
 
Mario Meucci – Giuslavorista

P.S. - Un'analisi giuridica e più cirscostanziata del dissenso può leggersi nell'articolo «Considerazioni sulla cd. professionalità dinamica».

 

 

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