Danno esistenziale da ritardata reintegra: deve essere provato, non è risarcibile apoditticamente

 

Cass., sez. lav., 17 dicembre 2007, n. 26561 - Pres. Ciciretti – Rel. Celentano- Pm Abbritti (concl. diff.) – Ricorrente: Bnl Spa – Banca Nazionale del Lavoro – Controricorrente: Moranda

 

Danno esistenziale da ritardo nel reintegro in azienda - Non è in re ipsa - Onere probatorio - Necessità e propedeuticità alla liquidazione equitativa.

 

Il quarto comma dell'art 18 della legge n. 300 del 1970, come modificato dall'art. 1 della legge n. 108 del 1990, regolamenta il risarcimento del danno subito dal lavoratore licenziato dal giorno del licenziamento sino a quello della reintegrazione, e quindi anche per il tempo successivo alla sentenza che abbia accertato l'inefficacia o l'invalidità del recesso; la inottemperanza all'ordine di reintegrazione contenuto nella sentenza comporta l'obbligo per il datore di lavoro di corrispondere la retribuzione e, trattandosi per tale periodo di una condanna in futuro, l'ammontare del risarcimento fissato per legge copre tutti i pregiudizi economici normalmente conseguenti alla inattività lavorativa. Resta comunque la possibilità per il lavoratore di chiedere il risarcimento di danni ulteriori, della prova dei quali è onerato, con le modalità di cui all'art. 414 c.p.c; una volta fornita tale prova, la liquidazione degli stessi può anche essere effettuata con valutazione equitativa nella ipotesi prevista dall'art. 1226 c.c.

 

 

Svolgimento del processo

 

Con ricorso del luglio 1996 Pietro Moranda chiedeva al Pretore di Messina la condanna della Banca Nazionale del Lavoro al risarcimento del danno per il ritardo con il quale era stato reintegrato nel suo posto di lavoro a seguito della sentenza di primo grado, confermata in appello.

La Banca si costituiva ed opponeva il giudicato di cui alla sentenza di appello n. 573/94: il lavoratore non aveva fatto valere alcun diritto ad un danno ulteriore rispetto alle retribuzioni erogate.

Il Tribunale, succeduto al Pretore a seguito della istituzione del giudice unico di primo grado, con sentenza del 6 maggio 2002 rigettava la domanda.

L'appello del signor Moranda, cui resisteva la Banca, veniva parzialmente accolto dalla Corte di Appello di Messina con sentenza del 25 novembre 2003/13 gennaio 2004.

I giudici di secondo grado osservavano che la lesione alla libertà e alla dignità professionale, lamentata dal lavoratore, si era concretizzata dopo la sentenza di appello che aveva confermato la illegittimità del licenziamento e l'ordine di reintegrazione. Affermavano che, se nelle more del primo e del secondo grado la Banca aveva il diritto di attendere l'esito del giudizio per decidere la reintegrazione del licenziato, dopo il passaggio in giudicato della sentenza di appello la condotta dell'istituto di credito non era più giustificata.

Ravvisavano nel ritardo con il quale era stata disposta la reintegrazione la causa di un danno esistenziale, risarcibile ai sensi dell'art. 2043 c.c. Richiamato il periodo di tempo decorso, l'attività professionale svolta, la ricaduta ed i disagi provocati nell'ambiente di lavoro e familiari, liquidavano il danno in euro 25.000,00.

Per la cassazione di tale decisione ricorre, formulando un unico complesso motivo di censura, la Banca Nazionale del Lavoro.

Pietro Moranda resiste con controricorso.

La ricorrente ha depositato memoria.

 

Motivi della decisione

 

1. La difesa della Banca ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 324 c.p.c; 1223 e ss., 2043, 2697 e ss., 2909 c.c.; 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300; nonché vizio di motivazione su punti decisivi.
Espone che il lavoratore era stato licenziato l’1 agosto 1991; che il licenziamento era stato annullato con sentenza del Pretore 14 aprile/22 giugno 1992, contenente l'ordine di reintegrazione e la condanna alle retribuzioni maturate e maturande fino alla reintegrazione; che la decisione era stata confermata in appello con sentenza dell'8 luglio/14 settembre 1994, non impugnata e perciò passata in giudicato il 14 settembre 1995; che dopo il passaggio in giudicato erano intercorsi reiterati contatti con il legale dell'attore per un esodo "agevolato", ma le richieste del lavoratore (non meno di lire 300.000.000) erano state ritenute eccessive; che quindi il signor Moranda era stato reintegrato in servizio il 3 ottobre 1996, con le precedenti mansioni di operatore unico, ed era stato affiancato per tre settimane da un collega che gli aveva illustrato gli snellimenti e le automazioni delle procedure intervenuti; che il periodo di assenza dal servizio era stato considerato utile ai fini degli avanzamenti di carriera.

Tanto premesso sostiene che nessun risarcimento, ulteriore a quello percepito ex art. 18, quarto comma, l. 300/70, è dovuto al lavoratore.

Richiama la sentenza n. 10203/02 di questa Corte e rileva che l'art. 18 citato non distingue, nel disciplinare gli effetti della sentenza di reintegrazione, fra periodo precedente e periodo successivo alla pronuncia ed allo stesso passaggio in giudicato della sentenza, peraltro provvisoriamente esecutiva fin dall'emanazione.

Deduce che l'art. 2043 c.c. è stato applicato a sproposito, trattandosi non di responsabilità extra contrattuale ma se mai di responsabilità contrattuale, per inattuazione del rapporto di lavoro ricostituito dalla sentenza.

Aggiunge che, anche a voler ammettere la risarcibilità di un ulteriore danno alla professionalità o all'immagine, tale danno abbisogna della necessaria prova, non potendo reputarsi come un effetto intrinseco di ogni interruzione lavorativa.

Deduce poi che non può neppure postularsi, senza prove, un danno esistenziale.

Lamenta infine che il giudice di appello, pur avendo affermato che si deve tener conto "della personalità del soggetto leso, del tipo di attività svolta, delle alterazioni familiari, sociali, lavorative provocate dal fatto illecito, del periodo di tempo in cui si è protratta l'attività illecita", poi del tutto tautologicamente ha ritenuto equo un risarcimento di 25.000 euro "avuto riguardo al periodo decorso, all'attività professionale svolta, alla ricaduta e ai disagi provocati nell'ambiente di lavoro e familiari."

2. Il ricorso è fondato nei termini di seguito precisati.

Con le modificazioni apportate con l'art. 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108, il quarto comma dell'art. 18 della legge n. 300/70 dispone: "Il giudice con la sentenza di cui al primo comma condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata l'inefficacia o l'invalidità stabilendo un'indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell'effettiva reintegrazione; in ogni caso la misura del licenziamento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione globale di fatto."

È opinione corrente, tanto in dottrina che in giurisprudenza, che il legislatore abbia inteso regolare, con il nuovo testo dell'art. 18, la misura del danno subito dal lavoratore per effetto della sua incolpevole inattività lavorativa, tanto per il periodo precedente la sentenza che per quello successivo; sicché, come persuasivamente rilevato da autorevole dottrina, da un lato non vi è la possibilità di detrarre per il periodo successivo l’aliunde perceptum, trattandosi di condanna in futuro, dall'altro il lavoratore non può pretendere eventuali danni patrimoniali superiori alla misura della retribuzione.

Quanto alla inattività del lavoratore per il periodo successivo alla sentenza che abbia ordinato la reintegrazione, questa Corte ha escluso che la fattispecie possa essere regolata dall'art. 2103 del codice civile. Con sentenza n. 10203 del 16 aprile/12 luglio 2002 si è osservato che la fattispecie regolata dall'art. 2103 c.c. presuppone l'attualità in fatto ed in diritto del rapporto lavorativo ed una dequalificazione intervenuta nel corso dello stesso; sicché presenta una propria specificità e marcati caratteri differenziali rispetto alla ipotesi della inottemperanza all'ordine giudiziale di reintegra, che è invece regolata dal disposto dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970.

Con il risarcimento commisurato alla retribuzione il legislatore ha inteso coprire tutti i pregiudizi economici che si configurano come immancabili ed ineliminabili conseguenze della inattività lavorativa da licenziamento illegittimo.

Resta peraltro la possibilità di ottenere il ristoro di danni distinti ed ulteriori rispetto ai ricordati pregiudizi economici contemplati dal comma 4 del citato art. 18. La prova di questi ulteriori danni incombe peraltro al lavoratore ai sensi dell'art. 2697 c.c.; correttamente i giudici di appello hanno rilevato che la inottemperanza alla sentenza che abbia disposto la reintegrazione è suscettibile di cagionare al lavoratore un danno esistenziale, ma poi, limitato il periodo oggetto di possibile risarcimento al tempo successivo al passaggio in giudicato della sentenza di appello (pag. 2 della sentenza), ne hanno presunto la esistenza senza considerare se il lavoratore si fosse offerto o meno di fornire la relativa prova e, nel primo caso, ammetterla; salvo a pervenire, una volta ritenuta raggiunta la prova del danno, ad una valutazione equitativa legata agli elementi concreti della fattispecie.

Dall'esame del ricorso introduttivo, consentito alla Corte per accertare se siano o meno necessari ulteriori accertamenti di fatto in relazione ad istanze istruttorie tempestivamente proposte, risulta che il ricorrente si era limitato a chiedere che il comportamento dell'istituto fosse riconosciuto come grave offesa alla dignità ed alla libertà del lavoratore, e che la banca fosse quindi condannata al pagamento di lire 200.000.000.

Ne consegue che la sentenza impugnata va cassata e che la domanda di Pietro Moranda va rigettata, non essendo possibili ulteriori accertamenti di fatto, alla stregua del seguente principio di diritto: "Il quarto comma dell'art 18 della legge n. 300 del 1970, come modificato dall'art. 1 della legge n. 108 del 1990, regolamenta il risarcimento del danno subito dal lavoratore licenziato dal giorno del licenziamento sino a quello della reintegrazione, e quindi anche per il tempo successivo alla sentenza che abbia accertato l'inefficacia o l'invalidità del recesso; la inottemperanza all'ordine di reintegrazione contenuto nella sentenza comporta l'obbligo per il datore di lavoro di corrispondere la retribuzione e, trattandosi per tale periodo di una condanna in futuro, l'ammontare del risarcimento fissato per legge copre tutti i pregiudizi economici normalmente conseguenti alla inattività lavorativa. Resta comunque la possibilità per il lavoratore di chiedere il risarcimento di danni ulteriori, della prova dei quali è onerato, con le modalità di cui all'art. 414 c.p.c; una volta fornita tale prova, la liquidazione degli stessi può anche essere effettuata con valutazione equitativa nella ipotesi prevista dall'art. 1226 c.c."

La relativa novità della questione e l'alterno esito dei due gradi di merito, dimostrativo di una obiettiva difficoltà della materia, consigliano la compensazione delle spese dell'intero processo.

 

PQM

 

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda. Compensa le spese dell’intero processo.

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