Onere della prova della tipologia del danno da dequalificazione: a carico del lavoratore, anche con presunzioni gravi, precise e concordanti ex art 2729 c.c.

 

Cass. sez. lav. 6 dicembre 2005 n. 26666 – Pres. Ciciretti – Rel. Vidiri – P.M. Sepe (concl. diff.) – Rondina ed altri (avv. Cipriani, Crugnola, Imberti) c. Telecom Italia SpA (avv. Maresca, Tosi, Boccia)

 

Danno alla professionalità da demansionamento – Fattispecie di lavoratori  esercenti servizio promiscuo fra il 187 ed il 12 , assegnati poi stabilmente al servizio 12, meno impegnativo e qualificante del 187 – Dequalificazione della durata di un solo anno per passaggio successivamente ad altra azienda in posizione professionale equivalente all'iniziale, senza perdita di chance sul mercato del lavoro – Mancata prova di altra tipologia del danno da parte dei ricorrenti dequalificati – Esclusione del risarcimento.

 

Il danno derivante da dequalificazione può assumere diversa natura, potendosi tradurre in un impoverimento della capacità lavorativa acquisita dal lavoratore e dal mancato raggiungimento di una più elevata capacità, o nel pregiudizio derivante da perdita di chance (cioè possibilità di maggiori guadagni), o ancora nella lesione della propria integrità psico-fisica, o, più in generale, in una lesione alla salute ovvero alla vita di relazione, cui è riconducibile la fattispecie del danno esistenziale, derivante dalla lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della propria personalità nel luogo di lavoro (art. 1 e 2 Cost.).

Orbene, la molteplicità degli indicati possibili pregiudizi, sulla cui configurabilità è doveroso il riferimento alle note decisioni dei giudici della legge (Corte Cost. 14 luglio 1986 n. 184; Corte Cost. 27 ottobre 1994 n. 372), spiega la necessità che il lavoratore indichi in maniera specifica il tipo di danno che assume di avere subito e poi fornisca la prova dei pregiudizi da tale tipo di danno in concreto scaturiti (cfr. al riguardo Cass. 4 giugno 2003 n. 8904 cit.); prova,che può essere fornita anche ex art. 2729 c.c. attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, sicché a tal fine possono, ad esempio, essere valutate nel caso di dedotto danno da demansionamento, quali elementi presuntivi, la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa dopo la lamentata dequalificazione. Corollario di quanto ora detto è che grava, come detto, sul lavoratore l'onere di fornire, in primo luogo, l'indicazione del tipo di danno subito, restando in ogni caso affidato al giudice di merito - le cui valutazioni, se sorrette da congrua motivazione sono incensurabili in sede di legittimità - il compito di verificare di volta in volta se, in concreto, il suddetto danno sussista, dopo l'individuazione, appunto, della specie, e determinandone l'ammontare, eventualmente con liquidazione equitativa (cfr. tra le altre: Cass. 8 novembre 2003 n. 16792 cit.).

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato in data 30 gennaio 2002 la s.p.a. Telecom conveniva in giudizio davanti alla Corte d'appello di Milano Massimilano Rondina, Daniela Villani e Maria Enrica Cernuschi, chiedendo la riforma della sentenza del giudice unico del Tribunale di Milano, che, aveva accertato la dequalificazione dei suddetti lavoratori, assegnati a svolgere le mansioni del servizio 12, dopo la ristrutturazione aziendale e l'aveva condannata  a pagare il 20% della retribuzione per ogni mese di demansionamento a titolo di risarcimento danni.

Dopo la costituzione dei lavoratori la Corte d'appello di Milano con sentenza del 25 ottobre 2002, in parziale riforma della sentenza impugnata, assolveva la società Telecom dalla domanda di. risarcimento proposta dai suddetti lavoratori e confermava nel resto l'impugnata sentenza. Nel pervenire a tale conclusione la Corte territoriale premetteva in fatto che gli appellati avevano svolto sino al luglio 1997, in modo promiscuo, le mansioni del servizio 187 e del servizio 12 nel CLSUT(Centro di Lavoro Servizi Utenza) e che dopo la ristrutturazione della società i due servizi erano stati divisi ed i lavoratori assegnati esclusivamente al secondo. La differenza tra i due servizi, esistente già all'epoca della riunificazione, era divenuta ancora più evidente successivamente a seguito della varietà e specializzazione delle nuove offerte commerciali e l'automazione del 12. In particolare, il servizio 187, si era sempre svolto e continuava a svolgersi secondo procedure ben definite ma le relative mansioni risultavano ben più complesse di quelle del servizio 12, per richiedere da parte dell'addetto interventi diversificati nel contatto con il pubblico(informazioni, promozione, vendita di servizi, ecc.) e, di conseguenza, risposte pertinenti e puntuali sulle varie questioni, con un maggior tempo di conversazione a disposizione rispetto a quello del servizio 12 (180 secondi in luogo di 45 secondi). Ciò spiegava, tra l'altro, come gli addetti al 187 erano chiamati a frequentare corsi di perfezionamento per aggiornarsi su nuovi servizi e per apprendere la tecniche di marketing in continua evoluzione. Di contro il servizio 12 non aveva mai consentito alcun margine di autonomia all'addetto perché richiedeva soltanto una ricerca ed una lettura diligente delle informazioni reperibili sugli elenchi telefonici in ordine alfabetico. Tanto premesso, precisava ancora il giudice d'appello che con accordi intervenuti tra la società e le organizzazioni in data 2 luglio 1997, tenendosi presente le esigenze di produttività e di efficienza della società, impegnata a competere nel difficile mercato delle telecomunicazioni, erano stati approvati gli effettuati inquadramenti del personale ed era stato disposto lo stesso inquadramento per gli addetti al 12 e per quelli addetti al 187, che in precedenza avevano svolto le stesse mansioni.

Orbene, correttamente come aveva reputato il giudice di primo grado, nel caso di specie Rondina, Villani e Cernuschi avevano subito, con l'essere stati, definitivamente assegnati al servizio 12, una dequalificazione perché erano stati destinatari di un illegittimo ed arbitrario comportamento della società, che aveva ad essi sottratto le mansioni più qualificanti, relegandoli a svolgere una attività semplice e ripetitiva, e perché aveva impedito ad essi una naturale progressione in carriera cui avrebbero invece potuto aspirare per l'esperienza professionale ed il bagaglio di cognizione acquisiti nell'espletamento della mansione.

Nel caso di specie pur essendosi quindi verificata una dequalificazione a danno dei lavoratori, agli stessi non poteva riconoscersi alcun danno neanche in via equitativa perché nella realtà non si era poi in concreto verificato alcun danno alla loro professionalità. In particolare Rondina, Villani e Cernuschi avevano cessato l'attività per Telecom al 31 agosto 1998, lavorando in tal modo in mansioni meno qualificanti per circa un anno e poi erano passati ad altra azienda senza ricevere nel rapporto con il nuovo datare di lavoro alcuna diminuzione nella posizione professionale in relazione al livello raggiunto e le mansioni effettivamente svolte sino al 1997.

Avverso tale sentenza i lavoratori propongono ricorso per cassazione, affidato ad un unico articolato motivo.

Resiste con controricorso la s.p.a. Telecom Italia.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

I ricorrenti denunziano violazione e falsa applicazione di norme di diritto(art. 1,2,3,4 e 32 Cost., 2103 c.c., 1226 c.c. e 2043 c.c.) nonché omessa e insufficiente motivazione su punti decisivi della controversia. In particolare deducono che la sentenza impugnata ha errato nel dare valore alla circostanza che essi avevano svolto la propria attività in altra azienda senza subire in concreto alcun danno alla professionalità, perché detta sentenza aveva trascurato di considerare che il trasferimento era stato determinato proprio dalla necessità di non subire un ulteriore impoverimento del loro bagaglio professionale con perdita di chance di adeguati ricollocamenti sul mercato del lavoro. Per di più aggiungono i ricorrenti che nel caso di specie non poteva negarsi neanche una diretta lesione della loro professionalità nonché della loro personalità, in quanto l'assegnazione definitiva al servizio 12 1i aveva sottoposti ad un lavoro particolarmente umiliante e stressante, che implicava un grave giudizio di disvalore nei loro confronti, destinati in definitiva ad una sorta di "ghetto" di inidonei.

Il ricorso é infondato e pertanto va rigettato.

Questa Corte in molte decisioni ha affermato che il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente del danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita - lesione idonea a determinare una dequalificazione del dipendente stesso - deve fornire la prova dell'esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa (cfr. ex plurimis : Cass. 8 novembre 2003 n. 16792; Cass. 4 giugno 2003 n. 8904; Cass. 14 maggio 2002 n. 6992; Cass. 14 novembre 2001 n. 14199).

A tale riguardo è  stato evidenziato che il danno derivante da dequalificazione può assumere diversa natura, potendosi tradurre in un impoverimento della capacità lavorativa acquisita dal lavoratore e dal mancato raggiungimento di una più elevata capacità, o nel pregiudizio derivante da perdita di chance (cioè possibilità di maggiori guadagni), o ancora nella lesione della propria integrità psico-fisica, o, più in generale, in una lesione alla salute ovvero alla vita di relazione, cui è riconducibile la fattispecie del danno esistenziale, derivante dalla lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della propria personalità nel luogo di lavoro (art. 1 e 2 Cost.).

Orbene, la molteplicità degli indicati possibili pregiudizi, sulla cui configurabilità è doveroso il riferimento alle note decisioni dei giudici della legge (Corte Cost. 14 luglio 1986 n. 184; Corte Cost. 27 ottobre 1994 n. 372), spiega la necessità che il lavoratore indichi in maniera specifica il tipo di danno che assume di avere subito e poi fornisca la prova dei pregiudizi da tale tipo di danno in concreto scaturiti (cfr. al riguardo Cass. 4 giugno 2003 n. 8904 cit.); prova,che può essere fornita anche ex art. 2729 c.c. attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, sicchè a tal fine possono, ad esempio, essere valutate nel caso di dedotto danno da demansionamento, quali elementi presuntivi, la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa dopo la lamentata dequalificazione. Corollario di quanto ora detto è che grava, come detto, sul lavoratore l'onere di fornire, in primo luogo, l'indicazione del tipo di danno subito, restando in ogni caso affidato al giudice di merito - le cui valutazioni, se sorrette da congrua motivazione sono incensurabili in sede di legittimità - il compito di verificare di volta in volta se, in concreto, il suddetto danno sussista, dopo l'individuazione, appunto, della specie, e determinandone l'ammontare, eventualmente con liquidazione equitativa (cfr. tra le altre : Cass. 8 novembre 2003 n. 16792 cit.).

Alla luce di quanto sinora detto la sentenza impugnata non merita le censure che le sono state mosse.

Ed invero, i ricorrenti - a fronte di una dequalificazione dei compiti loro assegnati - non hanno assolto all'onere probatorio su di essi, gravante.

Per di più il giudice d'appello, con una valutazione basata su argomentazioni adeguate e condivisibili sul piano logico-giuridico, e, pertanto non contestabili in questa sede di legittimità, ha concluso che i danni lamentati dovevano nella fattispecie in esame escludersi in ragione, oltre che della natura del lavoro in precedenza svolto dai ricorrenti, anche del ridotto spazio temporale nel quale questi avevano subito un ridimensionamento della qualità delle mansioni affidate loro, ed al termine del quale avevano trovato una nuova collocazione lavorativa, con un trattamento economico e normativa che non risulta essere stato peggiore di quello cui avevano diritto con il precedente datore di lavoro.

Ricorrono giusti motivi per compensare interamente tra le parti le spese dei presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del presente giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma il 4 ottobre 2005 (depositato il 6 dicembre 2005).

(Torna alla Sezione Mobbing)