Demansionamento del dirigente pubblico…a poco prezzo

 

Cass., sez. lav., 26 novembre 2008, n. 28274 – Pres. De Luca – Rel. Picone - Ministero dell’economia e delle finanze c. D. L.C.

 

Inattività biennale del dirigente - Risarcimento danno da demansionamento - Sussiste - Prova per presunzioni - Legittimità.

 

Con specifico riguardo al danno da demansionamento, Cass. SS.UU. 17 luglio 2008, n. 19596 hanno specificato  che, per la configurazione di una presunzione giuridicamente valida, non occorre che l’esistenza del fatto ignoto rappresenti l’unica conseguenza possibile di quello noto secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva, ma è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull’id quod plerumque accidit (in virtù della regola dell’inferenza probabilistica). In senso analogo, si è affermato che il danno derivante da dequalificazione, proprio perché può assumere diversa natura, richiede che il lavoratore indichi in maniera specifica il tipo di danno che assume di avere subito e poi fornisca la prova dei pregiudizi da tale tipo di danno in concreto scaturiti; prova che può essere fornita anche ex art. 2729 c.c., attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, ed tal fine possono, ad esempio, essere valutate nel caso di dedotto danno da demansionamento, quali elementi presuntivi, la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa dopo la lamentata dequalificazione, restando in ogni caso affidato al Giudice di merito - le cui valutazioni, se sorrette da congrua motivazione sono incensurabili in sede di legittimità - il compito di verificare di volta in volta se, in concreto, il suddetto danno sussista, dopo l’individuazione, appunto, della specie, e determinandone l’ammontare, eventualmente con liquidazione equitativa (Cass. S.U. 9 luglio 2008, n. 188139).

 

Svolgimento del processo

 

1. La sentenza di cui si chiede la cassazione accoglie l’appello del Ministero dell’economia e delle finanze, proposto contro la decisione del Tribunale di Grosseto n. 31 del 29.1.2002, limitatamente alle statuizioni di condanna dell’amministrazione ad attribuire a D. L.C. un incarico dirigenziale e al pagamento della voce retributiva di cui all’art. 37, n. 5, CCNL dirigenti 1998 - 2001, respingendo le relative domande; conferma la sentenza impugnata in ordine alla condanna dell’amministrazione al pagamento delle voci retributive di cui allo stesso art. 37, nn.1 e 4, e al risarcimento del danno in Euro 15.000,00, per avere omesso di conferire incarichi al dirigente, anche di consulenza, di studio, di ricerca o ispettive, nel periodo ottobre 1999 - febbraio 2001.

2. La Corte di appello di Firenze esclude la configurabilità di un diritto del dipendente pubblico con qualifica di dirigente al conferimento di incarico dirigenziale, e, dunque, ritiene erronea la statuizione di condanna emanata dal Giudice di primo grado; afferma, tuttavia, che le norme obbligavano comunque l’amministrazione ad adibire il dirigente a compiti di studio, ricerca, consulenza, ispezione; dall’inadempimento dell’obbligo derivava il pagamento delle somme corrispondenti alla parte fissa della retribuzione contrattuale, esclusa la parte variabile (retribuzione di posizione e di risultato), nonchè al risarcimento del danno alla professionalità nella misura stabilita al primo Giudice.

3. Vi è ricorso principale dell’amministrazione per due motivi e ricorso incidentale del resistente, mediante controricorso, D. L.C. per un unico motivo.

 

Motivi della decisione

 

1. Preliminarmente, la Corte riunisce i ricorsi proposti contro la stessa sentenza (art. 335 c.p.c.).

2. Con il primo motivo del ricorso principale è denunciata violazione di norme di diritto (D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 5, 19 e 23) e di contratto collettivo (art. 13 e 37, ccnl 1998 - 2001), unitamente a vizio di motivazione, perchè la qualifica dirigenziale (e l’iscrizione nel relativo ruolo) non attribuisce alcun diritto allo svolgimento delle funzioni, né dirigenziali, né di consulenza, studio, ricerca o ispettive; pertanto, sussistendo soltanto una situazione di interesse legittimo all’esercizio di potere organizzativo ampiamente discrezionale e fondato su relazione fiduciaria, nessun inadempimento poteva essere imputato all’amministrazione.

2.1. Il motivo non è fondato.

La sentenza impugnata, con le necessarie correzioni e integrazioni della motivazione nei sensi che saranno precisati, non è suscettibile di essere cassata, risultando il dispositivo conforme al diritto (art. 384 c.p.c., comma 2).

2.2. Resiste, infatti, alle censure contenute nel motivo di ricorso in esame il nucleo centrale degli accertamenti di fatto compiuti nel giudizio di merito, nella parte in cui evidenzia comportamenti dell’amministrazione non conformi al contenuto degli obblighi da osservare in materia di conferimento di incarichi in senso ampio ai dirigenti, obblighi integrati dai precetti di buona fede e correttezza.

2.3. E’ ormai consolidata negli orientamenti della Corte l’affermazione che, nel lavoro con la pubblica amministrazione, la qualifica dirigenziale non esprime una posizione lavorativa inserita nell’ambito di una carriera e caratterizzata dallo svolgimento di determinate mansioni, bensì esclusivamente l’idoneità professionale del dipendente (che tale qualifica ha acquisito mediante contratto di lavoro stipulato all’esito della procedura concorsuale) a svolgerle concretamente per effetto del conferimento, a termine, di un incarico dirigenziale.

Da tale scissione tra instaurazione del rapporto di lavoro dirigenziale e conferimento dell’incarico la giurisprudenza ha desunto l’insussistenza di un diritto soggettivo del dirigente pubblico al conferimento di un incarico dirigenziale (Cass. 12 febbraio 2007 n. 3003; Cass. 22 febbraio 2006, n. 3880; Cass. 6 aprile 2005 n. 7131).

2.4. Ma, tale ultima affermazione, necessita di ulteriori precisazioni.

Come la giurisprudenza della Corte ha ripetutamente precisato (vedi per tutte, Cass. 20 marzo 2004, n. 5659), gli atti inerenti al conferimento degli incarichi dirigenziali sono esclusi dalla categoria degli atti amministrativi e vanno ascritti a quella degli atti negoziali, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 1, art. 5, comma 2, e art. 63, comma 1.

Ne discende la sottrazione al regime e alle regole proprie degli atti amministrativi (come dettate in particolare dalla L. n. 241 del 1990), dovendosi fare applicazione delle norme del c.c., in tema di esercizio dei poteri del privato datore di lavoro, con la conseguenza che le situazioni soggettive del dipendente interessato possono definirsi in termini di “interessi legittimi”, ma di diritto privato e, quindi, pur sempre ascrivibili alla categoria dei diritti di cui all’art. 2907 c.c., (vedi Cass. 22 giugno 2007, n. 14624; 22 dicembre 2004, n. 23760; Cass. S.U 19 ottobre 1998, n. 10370).

2.5. Tanto premesso, si devono richiamare i principi elaborati dalla giurisprudenza della Corte in tema di limiti interni dei poteri attribuiti dalle norme al privato datore di lavoro: questi limiti si configurano in presenza di disposizioni, contrattuali o normative, che dettano le regole di esercizio del potere discrezionale, sul piano sostanziale o su quello del procedimento da seguire, regole suscettibili di essere integrate e precisate dalle clausole generali che obbligano ad applicarle secondo correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.). Le Sezioni unite della Corte, del resto, enunciano il principio secondo il quale, nell’ambito del rapporto di lavoro “privatizzato” alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, il Giudice (ordinario) sottopone a sindacato l’esercizio dei poteri, esercitati dall’amministrazione nella veste di datrice di lavoro, sotto il profilo dell’osservanza delle regole di correttezza e buona fede, siccome regole applicabili anche all’attività di diritto privato alla stregua dei principi di imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost., (vedi Cass., S.U., 26 giugno 2002, n. 9332).

2.6. Nella specie, vengono in considerazione le norme contenute nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 19, comma 1: Per il conferimento di ciascun incarico di funzione dirigenziale si tiene conto, in relazione alla natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati, delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente, valutate anche in considerazione dei risultati conseguiti con riferimento agli obiettivi fissati nella direttiva annuale e negli altri atti di indirizzo del Ministro.

Le richiamate disposizioni obbligano, dunque, l’amministrazione datrice di lavoro al rispetto degli indicati criteri di massima e, necessariamente, anche per il tramite delle clausole generali di correttezza e buona fede, “procedimentalizzano” l’esercizio del potere di conferimento degli incarichi (obbligando a valutazioni anche comparative, a consentire forme adeguate di partecipazione ai processi decisionali, ad esternare le ragioni giustificatrici delle scelte). Nella prospettiva giuridica cosi ricostruita, il dispositivo della sentenza impugnata risulta conforme al diritto, essendo rimasto accertato che nessuna giustificazione l’amministrazione aveva fornito, neppure in giudizio, circa i criteri seguiti e le motivazioni della scelta di non attribuire incarico alcuno al dirigente. In questo comportamento è stato correttamente ravvisato inadempimento contrattuale, produttivo di danno risarcibile (in questi termini, con riguardo a fattispecie analoga, .già Cass. 4 aprile 3. 2008, n. 9814).

Queste considerazioni sono sufficienti per rigettare il primo motivo di ricorso.

3. Il secondo motivo del ricorso principale, denunciando violazione di norme di diritto (artt. 1218, 1223, 1226, 2043 e 2697 c.c.; e art. 115 c.p.c.) e vizi della motivazione, domanda la cassazione della statuizione relativa alla condanna al risarcimento del danno alla professionalità nella misura di Euro 15.000,00, in difetto di prova del pregiudizio, che il D.L. non aveva fornito.

3.1. Anche questo motivo non è fondato.

Le Sezioni unite della Corte (sentenza 24 marzo 2006, n. 6572), intervenute a composizione di contrasto di giurisprudenza, hanno enunciato il seguente principio di diritto: A) In ipotesi di dequalificazione, il danno professionale - che può consistere sia nel pregiudizio derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita e/o dalla mancata acquisizione di maggiore capacità, sia nel pregiudizio subito per perdita di chance - può essere riconosciuto solo in presenza di adeguata allegazione, ossia, ad esempio, deducendo l’esercizio di un’attività soggetta a continua evoluzione e caratterizzata da vantaggi connessi all’esperienza professionale destinati a venir meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo, o provando in concreto le aspettative conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto. B) Ritenuto che, stante la forte valenza esistenziale del rapporto di lavoro, per danno esistenziale si intende ogni pregiudizio che l’illecito datoriale provoca sul “fare areddituale” del lavoratore, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per esprimere e realizzare nel mondo esterno la sua personalità; e ritenuto, altresì, che il danno esistenziale si fonda sulla natura, non meramente emotiva ed interiore (propria del danno morale), ma oggettivamente accertabile del pregiudizio, in caso di demansionamento e di dequalificazione il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico ed esistenziale non può prescindere da una specifica allegazione, nell’atto introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio accusato: mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psicofisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore di lavoro comprovanti l’avvenuta lesione dell’interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del lavoratore) si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ex art. 155 c.p.c., a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove”.

Il detto principio, risulta ulteriormente precisato dalle stesse Sezioni unite (sentenza 17 luglio 2008, n. 19596) con specifico riguardo al danno da demansionamento, nel senso che, per la configurazione di una presunzione giuridicamente valida, non occorre che l’esistenza del fatto ignoto rappresenti l’unica conseguenza possibile di quello noto secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva, ma è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull’id quod plerumque accidit (in virtù della regola dell’inferenza probabilistica). In senso analogo, si è affermato che il danno derivante da dequalificazione, proprio perché può assumere diversa natura, richiede che il lavoratore indichi in maniera specifica il tipo di danno che assume di avere subito e poi fornisca la prova dei pregiudizi da tale tipo di danno in concreto scaturiti; prova che può essere fornita anche ex art. 2729 c.c., attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, ed tal fine possono, ad esempio, essere valutate nel caso di dedotto danno da demansionamento, quali elementi presuntivi, la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa dopo la lamentata dequalificazione, restando in ogni caso affidato al Giudice di merito - le cui valutazioni, se sorrette da congrua motivazione sono incensurabili in sede di legittimità - il compito di verificare di volta in volta se, in concreto, il suddetto danno sussista, dopo l’individuazione, appunto, della specie, e determinandone l’ammontare, eventualmente con liquidazione equitativa (Cass. S.U. 9 luglio 2008, n. 188139).

3.2. La sentenza impugnata non si è discostata dai principi sopra enunciati, ritenendo il risarcimento richiesto relativo al danno alla professionalità subito per essere rimasto senza l’attribuzione di compiti lavorativi dall’ottobre 1999 al febbraio 2001, con liquidazione equitativa fondata sulla prova del pregiudizio, sia con riguardo alla perdita dei compensi collegati all’espletamento di incarichi, sia valutando l’impossibilità di acquisire un’esperienza professionale nella qualifica dirigenziale, sia l’oggettivamente non breve durata del periodo di assoluta inattività.

4. L’unico motivo del ricorso incidentale denuncia violazione di numerose norme di diritto e vizio della motivazione per avere la sentenza impugnata negato che sussistesse l’obbligo di conferirgli un incarico dirigenziale ed il correlato diritto ad ottenerlo, rigettando la domanda di condanna del Ministero.

4.1. Il motivo è fondato nei soli limiti delle considerazioni di seguito svolte. Il ricorrente incidentale svolge numerose argomentazioni per dimostrare la sussistenza del diritto al conferimento dell’incarico, anche sulla base degli atti amministrativi con i quali il Ministero si era autolimitato nell’esercizio del potere discrezionale, ma tali considerazioni devono ritenersi in massima parte assorbite nella valutazione giuridica della situazione soggettiva dell’aspirante ad incarico dirigenziale operata al n. 2. Il contenuto del diritto soggettivo deve perciò essere limitato alla pretesa ad una corretta valutazione ai fini del conferimento di incarico e, una volta ritenuta sussistente la lesione di questa posizione di vantaggio, la sentenza avrebbe dovuto pronunciare la condanna all’adempimento dell’obbligo.

4.2. Va precisato al riguardo che, in via generale, è ammissibile la pronuncia di condanna resa dal Giudice nella ipotesi di infungibilità (e, dunque, di incoercibilità) del facere dell’obbligato, in quanto la relativa decisione non solo è potenzialmente idonea a produrre i suoi effetti tipici in conseguenza della (eventuale) esecuzione volontaria da parte del debitore, ma è altresì funzionale alla produzione di ulteriori conseguenze giuridiche (derivanti dall’inosservanza dell’ordine in essa contenuto) che il titolare del rapporto è autorizzato ad invocare in suo favore, prima fra tutte la possibile, successiva domanda di risarcimento del danno, rispetto alla quale la condanna ad un facere infungibile assume valenza sostanziale di sentenza di accertamento (Cass. S.U. 13 ottobre 1997, n. 9957).

In particolare, nelle controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, poiché D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63, comma 2, prevede espressamente che il Giudice adotta, nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati, il Giudice del lavoro ha il potere di emanare qualsiasi tipo di provvedimento, ivi compresa la sentenza di condanna ad un facere, essendo irrilevante l’insuscettibilità di esecuzione forzata, che ne condiziona, eventualmente, soltanto l’esecuzione (Cass. 14 ottobre 2005, n. 19900).

4.3. Pertanto, la sentenza impugnata va cassata nella parte in cui ha respinto la pretesa di condanna dell’amministrazione all’adempimento dell’obbligo di valutare la posizione del D.L. ai fini del conferimento di incarico dirigenziale, o di altra natura (studio, consulenza, ecc.) e, versandosi nell’area della violazione di norme giuridiche, la causa è decisa nel merito sulla questione, emanando la statuizione di condanna nei termini sopra precisati, da ritenere compresa nel più ampio petitum formulato dal D.L. (vedi Cass. 15 febbraio 2008, n. 3863).

5. Le spese del giudizio di cassazione, liquidate nella misura di cui in dispositivo, vanno poste a carico del Ministero ricorrente principale, rimasto soccombente.

 

P.Q.M.

 

La Corte riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale e accoglie in parte il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso parzialmente accolto e, decidendo la causa nel merito, condanna il Ministero dell’economia e delle finanze a valutare la posizione di D.L.C. ai fini del conferimento degli incarichi e delle funzioni di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 19, con l’osservanza delle disposizioni di cui al cit. art. comma 1; condanna il Ministero ricorrente principale al pagamento delle spese del giudizio di cassazione prenotate a debito e degli onorari in Euro 3.000,00, (tremila/00).

 

Depositato in Cancelleria il 26 novembre 2008

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