Il criterio della turnazione negli incarichi dirigenziali oscura la dequalificazione nel pubblico impiego

 

Cass. 19 dicembre 2008 n. 29817 – Pres. Sciarelli – Rel. Balletti - Azienda ospedaliera nazionale SS. Antonio e Biagio e C. Arrigo di Alessandria c. A.R.

 

Pubblico impiego privatizzato – Dirigenti – Principio della rotazione degli incarichi - Conseguente inapplicabilità dell’art. 2103 c.c. ai fini del riscontro della eventuale dequalificazione.

 

Ai dirigenti del pubblico impiego e, nella specie, ai dirigenti sanitari, non è applicabile l'art. 2103 cod. civ., valendo il principio di turnazione degli incarichi dirigenziali che - previsto nell’ambito del lavoro pubblico privatizzato, non trova riscontro nel rapporto di lavoro subordinato - costituisce il fondamento dell'assegnazione alle mansioni dirigenziali ed è preordinato, nel preminente interesse generale al raggiungimento degli obiettivi fissati nell’organizzazione dei pubblici uffici dall'art. 97 Cost., al fine di evitare la cristallizzazione degli incarichi e di arricchire le doti culturali e professionali dei dirigenti mediante lo scambio di esperienze e attività.

Svolgimento del processo

 

Con ricorso e art. 414 cod. proc. civ. dinanzi al Tribunale-giudice del lavoro di Alessandria A.R. conveniva in giudizio “l'Azienda ospedaliera nazionale SS. Antonio e Biagio e C. Arrigo di Alessandria” alle cui dipendenze prestava servizio in qualità di “medico di l° livello dirigenziale fascia-A-anestesia e rianimazione” - esponendo che a partire dal maggio 1995 aveva subito un comportamento, da parte dell'Azienda datrice di lavoro mediante una illegittima sottoutilizzazione lavorativa, tale da provocarle un malessere psico-fisico e che, quindi, aveva diritto nel risarcimento dei relativi danni;richiedeva, pertanto, all'adito Giudice del lavoro «la condanna dell'Azienda convenuta al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali in misura non inferiore a euro 300.000,00, od in quella diversamente accertanda, da liquidarsi anche in via equitativa».

Si costituiva in giudizio l'Azienda Ospedaliera eccependo,preliminarmente, il difetto di giurisdizione del giudice adito e la decadenza del diritto azionato dalla ricorrente; nel merito, richiedeva il rigetto integrale della domanda attorea. Il Tribunale di Alessandria rigettava il ricorso, ma - su appello principale della R. e appello incidentale dell'Azienda Ospedaliera - la Corte di appello di Torino - con sentenza "parziale" del 3 agosto 2004 «dichiara(va) l'illegittimità dell'assegnazione di R. A. a mansioni inferiori dal maggio 1995 sino al 7 luglio 1998» (respingendo l'eccezione di difetto di giurisdizione reiterata dall'appellante incidentale) e - con sentenza "definitiva" del 22 novembre 2004 -«condanna(va) l'appellata a pagare all'appellante la somma complessiva di euro 18.700,00, oltre interessi e rivalutazione; compensa(va) per metà le spese del doppio grado».

Per la cassazione delle cennate sentenze l'Azienda Ospedaliera ss. Antonio e Biagio e C. Arrigo di Alessandra" proponeva ricorso affidato a otto motivi, con i primi due dei quali riproponeva la questione concernente l'eccepito difetto di giurisdizione dell'a.g.o. L'intimata A.R. resisteva con controricorso e proponeva ricorso "incidentale" affidato a cinque motivi, a cui resisteva a sua volta la ricorrente “principale” con  controricorso.

Sui cennati primi due motivi del ricorso principale le Sezioni Unite hanno - con sentenza n. 5194/2007 - così deciso ex art 142 disp. att. cod. proc. civ:«riunisce i ricorsi; dichiara la giurisdizione dell'a.g.o. sulla domanda proposta giudizialmente da A.R.; rigetta i primi due motivi del ricorso principale; rimette gli atti alla Sezione Lavoro di questa Corte per la decisione sugli altri motivi del ricorso principale e del ricorso incidentale.

Di conseguenza la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione deve ora decidere sul terzo, quarto, quinto, sesto, settimo ed ottavo motivo del ricorso principale e sui cinque motivi del ricorso incidentale.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

I - Con il terzo motivo del ricorso principale l'Azienda ricorrente denunciando "falsa applicazione dell'art. 2103 cod. civ., nonché vizi di motivazione" rileva criticamente che «sostenere che il principio dell'equivalenza delle mansioni dirigenziali sia stato introdotto fin dall'esordio della riforma del pubblico impiego per effetto del generico richiamo contenuto all'art. 2, comma 2, d. lgs. n. 29/1993 non è possibile, tanto in forza dello stesso tenore letterale della precitata norma di rinvio, tanto dall'esame complessivo dell'intero sistema normativo che disciplina la materia: al punto che non è affatto peregrino pensare che l'introduzione esplicita del principio dell'inapplicabilità dell'art. 2103 al conferimento di incarichi dirigenziali da parte dell'art. 13 del d.lgs. n. 80/1994 abbia valore ricognitivo, andando a sancire espressamente un principio già largamente desumibile dalla peculiare conformazione del rapporto di lavoro dirigenziale sotto il profilo giuridico e sotto quello pratico».

Con il quarto motivo la ricorrente principale - denunciando "violazione dell'art. 2103 cod. civ., nonché vizi di motivazione" rileva che «nel momento stesso in cui la Pubblica Amministrazione viene a conoscenza di attriti ambientali che potrebbero ripercuotersi in termini di diminuita efficienza del servizio reso dalla struttura, è suo preciso compito organizzativo porre in essere gli accorgimenti idonei ad ovviare a tale pericolo» e censura la sentenza impugnata in quanto «non una sola parola è stata spesa dalla Corte piemontese con riferimento alle sopravedute emergenze processuali e gli indici obiettivi attestanti l'esigenza organizzativa che ha indotto all'adozione del provvedimento di assegnazione che ha consentito di soddisfarla».

Con il quinto motivo la ricorrente principale - denunciando "violazione dell'art. 2103 cod. civ., nonché vizi di motivazione" - rileva criticamente che «l'apparato motivazionale adottato dalla Corte piemontese tradisce un duplice vizio di contraddittorietà, poiché si produce in un giudizio di comparazione, pur implicitamente ammettendo di non aver verificato uno dei termini di confronto e poiché perviene ad una conclusione in palese contrasto con fatti di comune conoscenza ovvero comprovati dal quadro probatorio di primo grado».

Con il sesto motivo la ricorrente principale denunciando "violazione degli artt. 1218 e 2697 cod. civ., nonché vizi di motivazione" – addebita alla Corte di appello «di non avere nemmeno effettuato la comparazione(sul punto se la permanenza nel reparto di "pediatria chirurgica" avesse comportato un arricchimento professionale sensibilmente diverso da quello connaturato alla prestazione resa presso altro reparto) ignorando i concreti livelli di impiego precedenti, sicché viene a mancare la stessa prova del danno sofferto che l'art. 1218 pone a carico del vantato creditore».

Con il settimo motivo di ricorso la ricorrente principale - denunciando "violazione degli artt. 1226 e 1227 cod. civ., nonché vizi di motivazione" rileva che «l'assenso iniziale all'assegnazione al "reparto di ginecologia e ostetricia" prima, nonché il rifiuto di ritornare presso il "reparto di chirurgia pediatrica" dopo(almeno a far data dal 18 luglio 1997), hanno pesato in modo determinante sia sul verificarsi del supposto danno alla salute psicofisica della dott. R., sia sul verificarsi  del danno da dequalificazione  dalla medesima asseritamente sofferto».

Con l'ottavo motivo del ricorso principale l'Azienda ricorrente denunciando "vizi di motivazione in ordine ai criteri di valutazione che hanno ispirato il consulente tecnico di ufficio" - «si duole del fatto che gli esiti della perizia - a prescindere dal loro tenore - costituiscono il frutto di un'indagine condotta in via meramente ipotetica ovvero sulla scorta di elementi di giudizio che, in quanto provenienti dalla parte, non posseggono alcuna attendibilità».

Con il primo motivo del ricorso incidentale A. R. denunciando "vizi di motivazione con riferimento alla sentenza parziale" rileva che «il comportamento illecito e vessatorio dell'azienda non si è esaurito con la reintegrazione della dipendente nelle precedenti mansioni ma ha avuto modo di perpetuarsi successivamente, assumendo nuove e diverse forme».

Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente in via incidentale - denunciando "violazione degli artt. 2103, 1218, 1223, 1226 cod. civ. nonché vizi di motivazione" - addebita alla Corte di appello di Torino «di avere ritenuto di ridimensionare ciò che in precedenza era risultato per sua stessa ammissione "innegabile" con ciò incorrendo nel grave errore di confondere il danno biologico con il danno alla professionalità» e rileva che «la considerazione dello specifico danno patrimoniale è stata completamente trascurata dalla sentenza con conseguente vizio di motivazione per omessa, errata o insufficiente valutazione delle prove (tabulati delle ore lavorate e listini paga) vizio la cui deduzione,s e non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale, gli conferisce senz'altro la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logica delle argomentazioni svolte dal giudice di merito».

Con il terzo motivo di ricorso la ricorrente in via incidentale - denunciando "violazione degli artt. 112 cod. proc. civ., 4, 41 e 32 cost. 1223, 2043 e 2059 cod. civ.; nonché vizi di motivazione" censura la sentenza impugnata per avere la Corte di appello trascurato quanto evidenziato nel ricorso introduttivo del giudizio in cui: «(a) si è fatto espresso riferimento al danno biologico notoriamente inteso come menomazione dell'integrità psicofisica della persona        in sé e per sé considerata, in quanto incidente sul valore uomo in tutta la sua dimensione, che non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza, ma si collega alla somma delle funzioni naturali riguardanti il soggetto nel suo ambiente di vita ed aventi rilevanza non solo economica ma anche biologica, sociale, culturale ed estetica; (b) si è aggiunto che tale categoria di danno si caratterizza per due aspetti: il primo è il danno fisiologico vero e proprio, vale a dire la lesione dell'integrità psicofisica in sé considerata, il secondo è costituito dal riflesso negativo di tale lesione sulla vita quotidiana della vittima, nella sua sfera affettiva, spirituale, culturale e sociale».

Con il quarto motivo di ricorso la ricorrente in via incidentale - denunciando "violazione degli artt. 112 cod. proc. civ. 2 Cost. e 2059 cod. civ., nonché omessa motivazione" rileva che «la decisione del giudice torinese appare viziata anche sotto il profilo della omessa pronuncia sulla domanda volta al risarcimento del danno morale soggettivo con conseguente domanda di cassazione della sentenza con rinvio finalizzata all'esame di merito delle domande effettivamente proposte».

Con il quinto motivo del ricorso incidentale la ricorrente - denunciando "violazione dell'art. 1223 cod. civ., nonché vizi di motivazione" - censura la sentenza impugnata in quanto «in sede di liquidazione del danno la Corte d'Appello torinese, prescindendo dal considerare il momento in cui ebbe a verificarsi l'evento dannoso ed omettendo sul punto ogni sia pur sintetica motivazione, ha disposto che "il capitale dovrà essere maggiorato di rivalutazione monetaria ed interessi dalla data della presente sentenza e sino al saldo"».

II - Il terzo motivo del ricorso principale – da esaminare prioritariamente rispetto agli ulteriori motivi del ricorso principale ed ai motivi del ricorso incidentale non soltanto per formali esigenze di ordine numerico, bensì per ragioni logico-sostanziali - si appalesa fondato nel nucleo essenziale della "falsa applicazione dell'art. 2103 cod. civ." alla fattispecie.

II/a - La disamina del cennato motivo deve prendere le mosse dall'accertamento incontestato che la domanda giudiziaria originariamente proposta dalla dott. A.R. concerneva «il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali (in misura non inferiore ad euro 300.000,00) derivati all'appellante per violazione dell'art. 2103 cod. civ. da parte dell'Azienda appellata» (così nella sentenza "parziale" e a pag. 4 della sentenza "definitiva" della Corte di appello di Torino).

Nell'affermare la giurisdizione dell'a.g.o. nella presente controversia le Sezioni Unite hanno rimarcato che l'aspetto della domanda deve essere individuata alla stregua del cosiddetto petitum sostanziale, cioè della causa petendi della domanda(costituita dall'intrinseca natura della posizione soggettiva dedotta in giudizio, siccome individuata dal giudice e determinata in relazione alla sostanziale protezione ad essa accordata in astratto dal diritto positivo), al di là, quindi, della mera formulazione o proposizione soggettiva della domanda, di guisa che qualora l'attore alleghi a fondamento della sua pretesa specifici fatti costitutivi di un determinato rapporto giuridico, non solo la giurisdizione appartiene al giudice designato dalla legge in relazione a tale rapporto(per la statuizione che il giudice competente va identificato sulla base del criterio del "petitum sostanziale", individuato dagli elementi oggettivi che caratterizzano la sostanza del rapporto giuridico posto a fondamento delle pretese, v., oltre a Cass. Sez. Un. n. 5194/2007, Cass. Sez. Un. n. 3145/2003, Cass. Sez. Un. n. 186/2001, Cass. Sez. Un. n. 799/1999); consegue, quindi, che al giudice come dianzi designato spetta l'interpretazione della domanda attenendo essa al momento logico relativo all'accertamento in concreto della volontà delle parti (cfr. Cass. n. 24495/2006).

II/b - Nella specie la Corte territoriale - con la sentenza "parziale" n. 801/2004 - ha ritenuto che «nel periodo a partire del dedotto demansionamento, essendo in vigore la formulazione originaria dell'art. 19 del d. lgs. n. 29 del 3 febbraio 1993, l'art. 2103 cod. civ. deve comunque essere applicato in relazione al rapporto in questione [...sotto il profilo del diritto della lavoratrice ad essere impiegata in mansioni equivalenti a quelle precedentemente svolte...] anche in forza del richiamo generale di cui al comma 2 dell'art. 2 del citato d. lgs n. 29» [aggiungendo solo che «nell'ipotesi della dott. R. non si è fatto altro che applicazione dello jus variandi da parte (rectius, nei confronti, ndr) del lavoratore, la cui legittimità deve essere valutata appunto alla stregua del principio generale del primo comma dell'art. 2103 cod. civ., che afferma il principio del diritto all'equivalenza della mansione»] e con la sentenza "definitiva" n. 1302/2004 - si è limitata a rilevare che «la Corte, si è già pronunciata per la sussistenza delle dedotte violazioni da parte dell'Azienda appellata dell'art. 2103 cod. civ.».

Per la valutazione della cennata statuizione in relazione alle articolate censure proposte al riguardo dalla Azienda ricorrente occorre procedere, quindi, alla sintetica individuazione del corretto quadro normativo entro cui la vicenda vada collocata: a) art. 19 del d. lgs. n. 29/1993 (nella sua formulazione originaria vigente all'epoca della fattispecie de qua) «(incarichi di funzioni dirigenziali) 1. Per il conferimento di ciascun incarico di funzione dirigenziale e per il passaggio ad incarichi di funzioni dirigenziali diverse si tiene conto della natura e delle caratteristiche dei programmi da realizzare, delle attitudini e della capacità professionale del singolo dirigente, anche in relazione ai risultati conseguiti in precedenza, applicando di norma il criterio della rotazione degli incarichi ed adottando le procedure di cui ai commi due e tre. 2. Gli incarichi di direzione degli uffici di ciascuna amministrazione dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, di livello dirigenziale generale sono conferiti con decreto del Ministro competente, sentito il Presidente del Consiglio dei Ministri, a dirigenti generali in servizio presso l'amministrazione interessata. Con la medesima procedura sono conferiti gli incarichi di funzione ispettiva e di consulenza, studio e ricerca di livello dirigenziale generale. 3. Gli incarichi di direzione degli uffici di ciascuna amministrazione dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, di livello dirigenziale sono conferiti

con decreto del Ministro, su proposta del dirigente generale competente, a dirigenti in servizio presso l'amministrazione interessata. Con la medesima procedura sono conferiti gli incarichi di funzione ispettiva e di consulenza, studio e ricerca di livello dirigenziale»; b) art. 2 del d.lgs n. 29/1993 «(Fonti) ... 2. I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni delle sezioni II e III, capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, in quanto compatibili con la specialità del rapporto e con il perseguimento degli interessi generali nei termini definiti dal presente decreto».

II/c - L'integrale trascrizione della cennata normativa consente di evidenziare chiaramente che:

a/1) per le mansioni dirigenziali vale il principio della "turnazione degli incarichi" che, previsto nell'ambito del pubblico impiego privatizzato, non trova riscontro normativo per il rapporto di lavoro subordinato tout court; b/1) l'applicabilità al rapporto di lavoro pubblico privatizzato delle disposizioni del codice civile e delle leggi sui rapporti di lavoro nell'impresa può avvenire solo in quanto detta normativa sia «compatibile con la specialità del rapporto e con il perseguimento degli interessi generali nei termini definiti dal d. lgs. n. 29/1993» (su come debba intendersi la produzione legislativa in merito all'accentuazione progressiva della distinzione tra aspetto organizzativo della pubblica amministrazione e rapporto di lavoro con i suoi dipendenti, nell'equilibrato dosaggio di fonti regolatrici, cfr. Corte Cost. n. 309/1997 e Cass. Sez. Unite n. 10163/2004).

Ha errato, di conseguenza, la Corte di appello di Torino nell'interpretare la cennata normativa e, quindi, di applicare l'art. 2103 cod. civ. al rapporto di lavoro de quo in quanto: A) ha trascurato di rilevare che il secondo comma dell’art. 2 Cost. (rectius: d.lgs. n.29, ndr) - richiamato in modo incompleto nella sentenza “parziale” impugnata(esattamente in questi termini:«l'art. 2103 deve comunque essere applicato in relazione al rapporto in questione anche in forza del richiamo generale di cui al comma 2 dell'art. 2 del d. lgs. n. 29») – prevede espressamente che la normativa codicistica sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa si applica ai rapporti di lavoro pubblico privatizzato «IN QUANTO COMPATIBILI con la specialità del rapporto e con il perseguimento degli interessi generali nei termini definiti dal decreto» e, quindi, pone una decisiva limitazione per l'applicabilità della "normativa generale" ai "rapporti speciali" con essenziale riferimento alla COMPATIBILITA' con la specialità, appunto, del rapporto che deve essere correttamente verificata in sede interpretativa ed applicativa; B) proprio in relazione a siffatto limite il primo comma dell'art. 19 del d. lgs. n. 29/1993 statuisce che, per il conferimento degli incarichi dirigenziali e per il passaggio ad incarichi di funzione dirigenziale diverse, nel tenere conto «delle attitudini e delle caratteristiche dei programmi da realizzare, delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente anche in relazione ai risultati conseguiti in precedenza», si deve di norma «applicare il criterio di rotazione degli incarichi»: criterio che costituisce, pertanto, il principio alla base dell'assegnazione delle mansioni dirigenziali rappresentando il "passaggio ad incarichi diversi", pervero, il mutamento di mansioni, giacché l'incarico identifica la funzione dirigenziale e, quindi, le attività concrete assegnate al dirigente che fondano l'immedesimazione organica con l'amministrazione. La rilevanza del principio della "rotazione degli incarichi dirigenziali" - con cui il legislatore ha inteso perseguire (nel preminente interesse generale al raggiungimento degli obiettivi fissati all'organizzazione dei pubblici uffici dall'art. 97 Cost.) il fine di evitare la cristallizzazione degli incarichi anzidetti e, nel contempo, di arricchire le doti culturali e professionali dei dirigenti interessati mediante lo scambio di esperienze e attività (Cons. Stato, Sez. VI, 28 marzo 2003, n. 1642) comprova l'incompatibilità del sistema improntato al cennato principio con quello caratterizzato dal principio ex art. 2103 cod. civ. sulla "equivalenza delle mansioni" e conferma l'inapplicabilità della norma codicistica al dirigente nell'ambito del rapporto di lavoro pubblico privatizzato.

Né per contrastare la cennata conclusione vale rilevare che successivamente (con l'art. 13 del d.lgs. n. 80/1998) è stata introdotta la previsione specifica per cui "al conferimento degli incarichi

e al passaggio ad incarichi diversi non si applica l'art. 2103, primo comma, cod. civ. in relazione all'equivalenza di mansioni", in quanto siffatta previsione non può certo imporre una interpretazione retroattiva (nel senso asseritamente limitativo ex nunc) del sistema normativo già compiutamente realizzato con la cd. "prima privatizzazione" del rapporto di impiego pubblico mediante l'affermazione del principio della rotazione degli incarichi dirigenziali incompatibile - vale ribadirlo in relazione al secondo comma dell'art. 2 del d. lgs. n. 29/1993 -

con il principio sancito per il rapporto di lavoro previsto dall'art. 2103 cod. civ.

II/d - In conclusione si deve ritenere in accoglimento del terzo motivo del ricorso principale che l'art. 2103 cod. civ. non è applicabile ai dirigenti statali e, nella specie, ai dirigenti sanitari in forza di quanto sancito dal combinato disposto degli artt. 2 e 19 del d. lgs. n. 29/1993 (anche nella sua originaria formulazione).

II/e - L'accoglimento del terzo motivo di ricorso assorbe l'esame degli altri motivi del ricorso principale, cui l'Azienda ricorrente non ha più interesse concernendo essi vizi di motivazione (quarto e quinto motivo) sulle modalità fattuali dell'assegnazione al posto di lavoro della R. e (sesto, settimo e ottavo motivo) criteri di liquidazione di danni non risarcibili. Parimenti è da considerare assorbita la disamina dei motivi del ricorso incidentale in quanto con essi la ricorrente ha censurato la valutazione (primo motivo) e la quantificazione (secondo terzo e quarto motivo), nonché l'entità dei cd. accessori (quinto motivo) , dei danni non più risarcibili per l'insussistenza della causale risarcitoria.

II/f -La cassazione della sentenza per violazione di norme di diritto comporta la decisione nel merito della causa, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto (art. 384, ultimo alinea del secondo comma, cod. proc. civ.), con pronunzia di rigetto della domanda proposta dall'originaria ricorrente.

III – In definitiva, alla stregua considerazioni svolte ed anche della sentenza delle Sezioni Unite n. 5194/2007 sulla affermata giurisdizione dell'a.g.o. nella presente controversia, deve essere accolto il terzo motivo del ricorso principale con conseguente assorbimento degli ulteriori motivi del ricorso principale e dei motivi del ricorso incidentale; per cui debbono essere cassate le sentenze impugnate e, decidendo nel merito, va rigettata integralmente la domanda proposta da R. A. con ricorso ex art. 414 cod. proc. civ. depositato il 30 novembre 2001.

L'alterno esito dei giudizi di merito, comprovante le complessità delle questioni sviluppate anche in sede di legittimità con elevato impegno difensivo da entrambe le parti, giustifica la compensazione delle spese dell'intero processo.

 

P.Q.M.

 

La Corte accoglie il terzo motivo del ricorso principale; dichiara assorbiti gli ulteriori motivi del ricorso principale e i motivi del ricorso incidentale; cassa le sentenze impugnate e  decidendo nel merito,rigetta la domanda originariamente proposta da A.R.; compensa tra le parti le spese dell'intero processo.

Così deciso, in Roma, il giorno 17 settembre 2008 (depositato il 19 dicembre 2008)

 

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