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Mobbing verso la neo mamma
costituisce reato di tentata violenza privata
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Linea dura della Cassazione nei confronti di chi tenti di mobbizzare la
dipendente di un’azienda appena rientrata al lavoro dopo il periodo di
astensione obbligatoria per maternità.
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Con la sentenza n. 36332 del 21 settembre 2012 i giudici di legittimità
hanno annullato senza rinvio (per la prescrizione del reato) la statuizione
dei giudici di merito, ravvisando nel comportamento del datore di lavoro il
delitto di violenza privata. Il titolare dell’azienda infatti obbligava la
neomamma, al fine di costringerla a presentare le dimissioni, a lavorare in
un luogo fatiscente ed abbandonato, ossia una stanza angusta con una
scrivania impolverata.
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La donna era rea di non aver presentato le dimissioni, e di essere tornata
al lavoro dopo la maternità, mentre il piano aziendale avrebbe previsto la
cessazione dell’azienda per proseguire nella stessa attività sotto una nuova
veste societaria ma con lo stesso complesso aziendale e con gli stessi
dipendenti licenziati ed assunti nuovamente.
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Il datore quindi aveva fatto lavorare la donna in condizioni invivibili, in
un luogo di degrado, compiendo un tentativo di violenza privata.
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Infatti nel comportamento sono senz’altro ravvisabili gli «atti idonei e
univocamente rivolti a farle accettare le condizioni della società», che
nella fattispecie erano o le dimissioni o il prolungamento del periodo di
maternità con retribuzione solo del trenta per cento dello stipendio.
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Il comportamento della donna però, la quale ‘ostinatamente’ era tornata al
lavoro, aveva rovinato i piani del datore, e perciò le era stato riservato
questo atteggiamento.
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Inquadrabile, ad avviso dei giudici supremi di legittimità, nel tentativo di
violenza privata.
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Cass. pen. 21
settembre 2012, n. 36332
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Lavoro - Dipendente neo mamma - Reati contro la persona - Violenza privata -
Comportamento intimidatorio del datore.
In fatto e diritto
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Con la sentenza del 28 febbraio 2011 la Corte d'appello di Catania, che ha
assolto il coimputato, ha confermato la sentenza emessa in data 16 dicembre
2009 dal locale Tribunale, appellata da F.R., dichiarato responsabile del
delitto di tentata violenza privata, cosi riqualificata un'ipotesi di
tentata estorsione originariamente contestata, commesso nell'ottobre 2003,
perché, prospettando a G.M., al rientro dal periodo di astensione
obbligatoria per maternità, di farla lavorare in condizioni invivibili in un
posto degradato - dove in un'occasione l'aveva lasciata sola senza alcunché
da fare - avrebbe compiuto atti idonei e univocamente rivolti a farle
accettare le condizioni della società presso la quale lavorava, in sostanza,
o le dimissioni o il prolungamento contro la sua volontà del periodo di
maternità, retribuito solo al 30% dello stipendio corrisposto dall'ente
previdenziale. Propone ricorso per cassazione l'imputato sulla base di due
motivi.
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Con il primo motivo deduce violazione della legge penale e mancanza di
motivazione relativamente alla qualificazione giuridica dei fatti, non
essendosi mai verificata una coartazione della libertà di autodeterminazione
psichica della G., dovendosi così escludere l'ipotesi di cui all'art. 610
cod. pen., e neppure potendosi configurare un tentativo punibile in quanto
pacificamente la condotta del F. non avrebbe raggiunto alcun effetto, anche
perché sarebbe stata priva del requisito dell'univocità degli atti,
richiesto dall'art. 56 cod. pen.
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L'azione del F. non sarebbe stata rivolta in modo inequivoco a coartare la
volontà della G., essendo possibile per quella un diverso atteggiamento
della volontà, in particolare decidere di allontanarsi dal lavoro e
riprendere l'astensione facoltativa post partum.
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Con il secondo motivo deduce mancanza di motivazione relativamente alla
propria richiesta di concessione delle circostanze attenuanti generiche e di
determinazione della pena nel minimo edittale, argomenti del gravame che la
Corte non avrebbe affrontato neppure per confutarli.
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Osserva il Collegio che il primo motivo di ricorso non è fondato.
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Del tutto irrilevante invero che il comportamento del prevenuto abbia o meno
ottenuto l'effetto intimidatorio nei confronti della G., atteso che i
giudici del merito hanno ritenuto che ricorresse l'ipotesi del tentativo di
violenza privata.
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E quanto all'idoneità dell'azione commessa dal F. correttamente i giudici
del merito hanno osservato che:
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- convocare in un locale fatiscente e abbandonato, anche se sede formale
della società, l'unica dipendente che non aveva accettato di dare le
dimissioni, rimasta alla società che i titolari avevano intenzione di far
cessare per proseguire nella medesima attività sotto una nuova veste
societaria, ma con lo stesso complesso aziendale e con gli stessi dipendenti
licenziati e assunti nuovamente;
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- avvertirla che quello sarebbe stato il suo luogo di lavoro, con nulla da
fare in una stanza dotata di scrivania impolverata, perché solo quello
meritava per la sua ostinazione a non volersi dimettere (non essendo
licenziabile in quanto ancora nel periodo di puerperio) o a non voler
proseguire nell'astensione facoltativa, ma al 30% della retribuzione, erano
stati atti che avevano prospettato una situazione lavorativa e personale
deteriore per la G., e quindi ingiusta nell'ambito del rapporto di lavoro,
avendo la stessa manifestato l'intenzione di riprendere la propria normale
attività non appena terminata l'astensione obbligatoria, del tutto idonei ed
inequivocabilmente diretti ad orientarne la volontà ad accettare le nuove
condizioni che la società dal prevenuto rappresentata voleva imporre.
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E il ricorso non riesce a dimostrare l'asserito errore dei giudici del
merito laddove finisce sempre per evidenziare come la G. non si fosse
lasciata intimidire e come poi la situazione si fosse risolta con
l'accettazione da parte della società di trattenere in servizio a stipendio
pieno la dipendente, lasciandola a casa fino allo scadere del termine di
protezione dal licenziamento. Del tutto immotivata è invece la sentenza
della Corte d'appello per quel che concerne il trattamento sanzionatorio. A
fronte di motivazione generica del Tribunale il gravame aveva chiesto al
giudice d'appello una rivisitazione del trattamento sanzionatorio sia con
riferimento alle attenuanti generiche che alla misura della pena, richieste
alle quali la Corte di merito non ha ritenuto di dare risposta alcuna, né
l'argomentazione complessiva della sentenza apre spazi per individuare una
motivazione implicita.
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Peraltro, il delitto ascritto al F. si è estinto per prescrizione nel
termine di anni sette e mesi sei, applicabile sia in riferimento al testo
vigente che al precedente testo dell'art. 157 cod. pen., così che in assenza
di cause di sospensione e di correlative proroghe del termine, la causa
estintiva ha operato nell'aprile 2011, in epoca immediatamente successiva
alla pronuncia della sentenza di secondo grado.
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Ne consegue l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per
intervenuta prescrizione, con conferma delle statuizioni civili a carico del
F., il cui ricorso sul punto viene rigettato.
P.Q.M.
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Annulla senza rinvio, nei confronti di F.R. la sentenza impugnata, essendo
il reato estinto per prescrizione; rigetta il ricorso relativamente alle
statuizioni civili.
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