DANNO PSICHICO DA RAPINE IN BANCA: RISARCIMENTO DANNO MORALE DA LESIONI COLPOSE

 

Cass. sez.  lav., 20 aprile 1998, n. 4012 - Lanni Pres. – Castiglione Est. - Cinque P.M. (concl. conf.) - Banca Popolare Pugliese (già Banca Popolare Sud Puglia) s.r.l. (avv.  Vallebona, Dell'Anna) c. Tortorella (avv.  Scognamiglio).

Conferma T. Lecce 18 maggio 1995.

 

Sicurezza del lavoro - Protezione contro le aggressioni esterne nel settore bancario - Insufficienza, in relazione alle circostanze - Responsabilità risarcitoria dell'istituto di credito - Sussiste.

Sicurezza del lavoro - Rischio di infermità psichica conseguente al ripetersi di rapine in un istituto di credito - Obbligo di trasferimento del lavoratore che ne fa richiesta - Sussiste - Aggravio conseguente della responsabilità risarcitoria – Esclusione – Danno morale da reato di lesioni colpose – Sussistenza.

 

A norma dell'art. 2087 c.c., che è norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni e ipotesi non espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione, l'obbligo dell'imprenditore di tutelare l'integrità fisiopsichica dei dipendenti impone l'adozione non solo di misure di tipo igienico-sanitario o antinfortunistico, ma anche di misure atte, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione di detta integrità anche in relazione al rischio di aggressioni conseguenti all'attività criminosa di terzi, tenuto conto della frequenza assunta da tale fenomeno rispetto a determinate imprese (in particolare, banche) e alla probabilità del verificarsi del relativo rischio, non essendo detti eventi coperti dalla tutela antinfortunistica di cui al d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 e giustificandosi l'interpretazione estensiva della predetta norma alla stregua sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute (ari. 32 Cost.) sia dei principi di correttezza e buonafede (artt. 1175 e 1375 c.c.) cui deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro (nella specie, l'impugnata sentenza - confermata, sul punto, dalla S.C. - aveva affermato la risarcibilità dei danni subiti da un impiegato di Banca, rimasto coinvolto in tre rapine, a seguito delle quali aveva riportato un grave stato di malattia nervosa, avendo rilevato come il datore di lavoro, pur mettendo in opera le misure di sicurezza minime previste da un accordo aziendale in materia, non aveva provveduto a garantire il piantonamento dell'agenzia alla quale era addetto il lavoratore né ad attivare un sistema d'allarme collegato con istituti di vigilanza o con le forze dell'ordine).

Non aver soddisfatto la richiesta di trasferimento avanzata dal lavoratore, che lamenta un grave stato di malattia nervosa, costituisce elemento confermativo della responsabilità per inadempimento del dovere di sicurezza, senza però che questo dia luogo a un incremento del risarcimento già dovuto a titolo di responsabilità ex art. 2087 c.c.

Va infine condannata la stessa banca a risarcire i danni morali subiti dal lavoratore. osservando che non può escludersi «il rilievo anche penale della colpa per mancata adozione delle misure di sicurezza obbligatorie ex art. 2087 c.c., colpa posta a fondamento della responsabilità civile riconosciuta in sentenza» (v. Cass. sez. IV 8 marzo 1988, Corbetta; Cass. pen. Sez. IV 13 gennaio 1989, Marocco). E da siffatta premessa, lo stesso giudice d’appello è pervenuto all’esatta conclusione che le lesioni colpose costituiscono proprio quella fattispecie criminosa tipica, procedibile d’ufficio, (art. 590 c.p.), che giustifica il risarcimento del danno morale (artt. 2059 c.c. e 185 c.p.).

 

(Omissis)- Motivi della decisione - Omissis. - Le articolate censure, dedotte con i due motivi in esame, ripropongono il quesito se anche i problemi relativi alla sicurezza dei lavoratore non in senso strettamente igienico-sanitario, ma collegati - pur sempre con riguardo alla sua integrità fisio-psichica - a situazioni di ordine pubblico e di criminalità, non esistenti, almeno nelle dimensioni successivamente assunte, allorché la norma di riferimento (art. 2087 c.c., ritenuta applicabile alla fattispecie dai giudici di merito) era stata posta, siano ricomprensibili nel generico e, perciò, elastico campo di applicazione della detta norma.

Il quesito è stato già esaminato e risolto positivamente da questa Corte con la decisione n. 5048 del 6 settembre 1988, che conviene richiamare nei suoi passaggi argomentativi più significativi.

Con la sentenza n. 5048/1988, sull'indiscusso presupposto che l'art. 2087 c.c. sia norma volta a tutelare il prestatore d'opera da rischi generici rispetto a quelli specificamente previsti dal sistema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e, quindi, a coprire rischi comunque rientranti nel complessivo ambito di tale normativa protettiva (tant'è che lo stesso art. 2087 è stato definito come norma di chiusura del sistema antinfortunistico, posta a tutela di situazioni non direttamente contemplate, ma in esso ricomprensibili, anche con responsabilità diretta del datore di lavoro, non riversabile sull'assicurazione obbligatoria), il Supremo Collegio ha affermato i seguenti principi:

A)           L'art. 2087 c.c. contiene un principio di autoresponsabilità dell'imprenditore il quale, indipendentemente da specifiche disposizioni normativa, è tenuto a porre in essere tutti gli accorgimenti e le misure necessarie ad evitare il verificarsi di lesioni del bene primario (del lavoratore come, di ogni persona), che è la salute e l'integrità fisica.

B)      L'esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per infortunio sul lavoro o malattia professionale opera esclusivamente nei limiti posti dall'art. lo del d.P.R. n. 112411965 e per i soli eventi coperti dalla assicurazione obbligatoria (cfr. anche: Cass. n. 6282/1996); qualora, invece, eventi lesivi eccedenti tale copertura si verifichino, comunque, in pregiudizio del lavoratore e siano causalmente ricollegabili alla nocività dell'ambiente di lavoro, «viene in rilievo, come fonte della suddetta responsabilità, la norma dell'art. 2087». La quale, atteggiandosi come norma di chiusura del sistema antinfortunistico, anche dove faccia difetto una specifica misura preventiva, impone al datore di lavoro di adottare tutte le cautele necessarie (e, comunque, le misure generiche di prudenza, diligenza ed osservanza delle norme tecniche e di esperienza: così Cass. n. 7636/1996) a tutelare l'integrità fisica dei dipendenti, anche quando essi siano stati regolarmente assicurati.

C)      L'obbligo di tutela sussiste esclusivamente nei confronti dei dipendenti, e non anche nei confronti della indistinta massa del pubblico che  in ragione dell'attività dell'impresa si trovi a frequentare i locali della stessa ».

D)     La diffusione dell'attività criminosa è tale da far considerare quella bancaria «nei locali cui accede il pubblico» un'attività «quanto meno occasione di rischio... per i dipendenti», nei riguardi dei quali sussiste il suddetto obbligo «non in applicazione della disciplina generale della responsabilità civile (artt. 2048 o 2050 c.c.), bensì in applicazione di quella norma, pur sempre generale ma entro un più circoscritto ambito settoriale, che è costituita dall'art. 2087 c.c.».

E)      Quest'ultimo, per le sue caratteristiche di norma aperta, vale a supplire alle lacune di una normativa «che non può prevedere ogni fattore di rischio», assumendo, quindi, rispetto a questa la funzione sussidiaria di adeguamento al caso concreto.

F)      L'ordinamento è in grado di sopperire alle inevitabili lacune con la predisposizione di clausole generali, in cui l'interprete può cogliere nuove esigenze meritevoli di tutela, attribuendo loro, «ove appaia consentito alla stregua dell'ordinamento, dal suo insieme e in primo luogo sulla base dei principi costituzionali», veste e dignità di posizioni soggettive tutelate.

G)      Una clausola generale, che si presta a ricevere nuovi contenuti, è appunto quella contenuta nell'art. 2087, che trova piena e concreta attuazione in relazione al diritto - costituzionalmente garantito - alla salute e all'integrità fisica, ormai acquisito, per via di interpretazione giurisprudenziale, in molteplici applicazioni.

H)     Il valore primario assegnato al diritto alla salute dall'art. 32 Cost. comporta che la sua tutela debba spiegarsi non solo in ambito pubblicistico, ma anche nei rapporti fra privati, ove la salute rileva come posizione soggettiva autonoma, e che una tutela privilegiata spetta ai lavoratori, nei cui confronti essa si svolge tanto sotto il profilo sanitario, quanto sotto quello economico, con l'imposizione in particolare sotto quest'ultimo profilo - «all'imprenditore di un rigoroso dovere di garantire la sicurezza dei lavoratori (art. 2087 c.c.), che si pone come condizione per il legittimo esplicarsi dell'iniziativa economica privata (art. 41, secondo comma, Cost. ». Sicché la tutela della salute del lavoratore, nell'ambito del rapporto di lavoro, si realizza, tra l'altro, riversando entro certi limiti sull'imprenditore il rischio (della malattia e, più in generale) dell'integrità fisica del dipendente.

I)       La presenza, nell'ordinamento, di un tale diritto di così ampio raggio consente di ritenere che una sua lesione in ambiente o in costanza di lavoro, pur se non collegata direttamente all'una o all'altro, «in quanto inferta da terzi estranei », possa rientrare nell'ampia previsione dell'art. 2087 c.c., che non appresta una tutela complementare rispetto alla complessa normativa di prevenzione antinfortunistica e igienico-sanitaria, che, però, non prevede un caso « come quello in esame ». Dal che si deduce che l'ordinamento non può lasciare esclusivamente a carico del lavoratore un danno alla sua salute, occasionato proprio dall'attività lavorativa, o senza che né la collettività attraverso il sistema antinfortunistico, né il datore di lavoro contribuiscano a risarcirlo ».

L)         L'art. 2087 c.c. consente, perciò, «senza strappi ai principi», di addossare quel rischio insieme ai vari altri che l'esercizio di un'impresa in sé comporta.

Conseguentemente, l'imprenditore ha il dovere di valutare se l'attività della sua azienda presenta rischi extralavorativi di fronte al cui prevedibile verificarsi insorga il suo obbligo di prevenzione.  Obbligo, il contenuto del quale è individuabile «nella realtà alla stregua delle tecniche di sicurezza comunemente adottate».

M)       Il contenuto degli obblighi a tutela dell'integrità fisica dei dipendenti di un istituto bancario deve essere individuato nella predisposizione di misure di sicurezza idonee a salvaguardarli da possibili danni.

Le suesposte conclusioni, cui è pervenuta la richiamata decisione n. 5048/1988, e alle quali questo Collegio presta convinta adesione, sono state oggetto di ampio dibattito.  L'argomento contrario, apparentemente insuperabile, scaturito da tale dibattito è che, se è doveroso che l'imprenditore risponda «personalmente» dei rischi alla salute del lavoratore da lui stesso creati (e non eliminati per imprudenza, negligenza, imperizia), in caso di rapina l'istituto di credito non «crea» direttamente un pericolo di danno all'integrità fisica del proprio dipendente; così che verrebbe ad esso imputato un danno, pur in assenza di nesso causale con la sua attività, nesso che sussiste invece tra l'azione del rapinatore ed il ferimento (del dipendente dell'istituto), rispetto al quale l'esercizio del credito sarebbe mera occasione.

L'obiezione, a parere di questa Corte, è agevolmente superabile, ove si consideri che l'imprenditore deve valutare i rischi che l'esercizio di un'impresa in sé comporta e che «nel momento attuale, la diffusione dell'attività criminosa è tale da far considerare quella bancaria, nei locali cui accede il pubblico, un'attività quanto meno occasione di rischio (per il pubblico e) per i dipendenti, stante la prevedibilità della irruzione di terzi con disegni criminosi nei locali aperti al pubblico » (Cass. n. 5048/1988).

D'altra parte, se è vero che la responsabilità del datore, come delineata dall'ampio contenuto della norma di cui all’art. 2087 c.c., non può essere dilatata fino a comprendere ogni ipotesi di danno verificatosi a carico dei dipendenti «pur se in conseguenza di eventi criminosi non addebitabili per colpa al datore di lavoro», giacché, altrimenti, sarebbe ipotizzabile, in subiecta materia, una sorta di responsabilità oggettiva «ancorata al presupposto teorico che qualsiasi rischio possa essere evitato, pur se esorbitante da ogni umana previsione o prevedibilità», è anche vero che l'art. 2087 c.c. non configura un caso di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di fonte legale ovvero suggeriti dalle conoscenze sperimentali e tecniche del momento (Cass. n. 8740/1995).

Le osservazioni finora assunte hanno trovato l'autorevole conforto della Corte costituzionale, la quale, partendo dall'indefettibile presupposto che l'art. 2087 c.c. abbraccia ogni tipo di misura utile a garantire il diritto soggettivo del lavoratore ad operare in un ambiente esente da rischi, ha ancora recentemente posto in rilievo come: «la salute è un bene primario che assurge a diritto fondamentale della persona ed impone piena ed esaustiva tutela, tale da operare sia in ambito pubblicistico che nei rapporti di diritto privato... La tutela della salute riguarda la generale e comune pretesa dell'individuo a condizioni (di vita, dì ambiente e) di lavoro che non pongano a rischio questo suo bene essenziale». Conseguentemente «non sono soltanto le norme costituzionali (artt. 32 e 41) ad imporre ai datori di lavoro la massima attenzione per la protezione della salute e dell'integrità fisica dei lavoratori... L'art. 2087 del codice civile stabilisce che l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che, secondo le particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro» (C. cost. n. 399/1996).

Coerentemente, in adempimento del principio della massima sicurezza «tecnologicamente possibile » vigente nel nostro ordinamento ai sensi del più volte citato art. 2087 c.c. (peraltro, di recente riaffermato dal d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626), secondo cui la sicurezza non può essere subordinata a criteri di fattibilità economica o produttiva (Cass., Sez. pen., 9 gennaio 1984, in causa Gorla), lo stesso datore di lavoro è tenuto a trovare le misure sufficienti a conseguire il fine della protezione della salute e dell'integrità fisica dei propri dipendenti in modo conforme al principio direttivo costituzionale dell'art. 32.

Gli obblighi che l'art. 2087 impone all’imprenditore in tema di tutela delle condizioni di lavoro non si riferiscono soltanto alle attrezzature, ai macchinari e ai servizi che il datore di lavoro fornisce o deve fornire, ma si estendono, nella fase dinamica dell'espletamento del lavoro, anche «all'ambiente di lavoro, in relazione al quale le misure e le cautele da adottarsi dall'imprenditore devono prevenire sia i rischi insiti in quell'ambiente, sia i rischi derivanti dall’azione di fattori ad esso esterni e inerenti al luogo in cui tale ambiente si trova»(Cass. n. 9401/1995).

In questi termini, va quindi condiviso il canone interpretativo suggerito dalla sentenza n. 5048/1988, laddove si è affermato che «l'art. 2087, per le sue caratteristiche di norma aperta, vale a supplire alle lacune di una normativa che non può prevedere ogni fattore di rischio, ed ha una funzione, sussidiaria rispetto a quest'ultima, di adeguamento di essa al caso concreto», senza che ciò costituisca «strappi ai principi », poiché il dovere di protezione (dei lavoratori) che grava sull'imprenditore - collegato, del resto, al rischio di impresa - comporta che debba essere lo stesso imprenditore a valutare se l'attività della sua azienda presenti rischi extra-lavorativi «di fronte al cui prevedibile verificarsi insorga il suo obbligo di prevenzione», giusta il principio per cui ciascun datore, in riferimento alla particolarità del lavoro, da una parte, ed all'esperienza e alla tecnica, dall'altra, deve nella rappresentazione dell'evento (prevedibilità) prospettare a se stesso l'adozione delle misure (e, dunque, di tutte le misure) più consone e più aggiornante, al fine di scongiurare la sua realizzazione (prevedibilità).

Ne consegue che, proprio alla stregua dei dati di esperienza, il suddetto obbligo «avrà un contenuto non teorizzabile a priori», ma ben individuabile nella realtà alla luce delle tecniche di sicurezza comunemente adottate (Cass. n. 5048/1988).

Trattasi, evidentemente, di un'obbligazione ex lege accessoria e collaterale rispetto a quelle principali proprie del rapporto di lavoro, involgente, quindi, la diligenza nell'adempimento ex art. 1176 c.c. (cfr.  Cass. n. 7768/1995), « eventualmente correlata alla natura dell'attività esercitata, e comunque improntata nella sua esecuzione a quei criteri di comportamento delle parti di ogni rapporto obbligatorio costituiti, ex artt. 1175 e 1375 c.c., dalla correttezza e buona fede, ormai ampiamente valorizzati dalla giurisprudenza»(Cass. n. 5048/1988; Cass. n. 7768/1995).

Con specifico riferimento all'attività bancaria, il contenuto degli obblighi a tutela dell'integrità fisica dei dipendenti deve, dunque, essere individuato nella predisposizione di misure e mezzi di sicurezza idonei a salvaguardare detti prestatori da possibili danni.  Rischi e mezzi di tutela, tenuti del resto, ben presenti dalle parti (sociali) contrattuali, alla cui attenzione com'è desumibile anche nel caso concreto - già da tempo è dedicata, dai contratti collettivi di categoria (che generalmente rimettono ai contratti integrativi aziendali la concreta attuazione) la trattazione della relativa problematica; con ciò potendosi ritenere ormai acquisito, anche nel convincimento delle parti sindacali, la sussistenza di quel rilevante rischio per i dipendenti da azioni criminose di terzi, che giustifica, in definitiva, l'applicazione dell'art. 2087 c.c.

Onde deve ritenersi che il datore di lavoro, il quale, in una simile situazione di rischio prevedibile ed accettabile alla stregua dei comuni criteri di diligenza «o addirittura disciplinata in sede collettiva nazionale o aziendale», non abbia predisposto gli adeguati mezzi di tutela, debba rispondere ex art. 2087 c.c. dell'evento lesivo nei confronti del dipendente (così Cass. n. 5048/1988).  Dovendo, infatti, il datore di lavoro ispirare la sua doverosa condotta alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza per fare in modo che il lavoratore sia posto nelle condizioni di operare con assoluta sicurezza, atteso che l'art. 2087 c.c. stimola obbligatoriamente il datore di lavoro ad aprirsi alle nuove acquisizioni tecnologiche (Cass. pen. 29 aprile 1994, GP, 1995, II, 505).

Allorquando ricorra un tale inadempimento del datore, le conseguenze della malattia o dell'infortunio del dipendente, che abbiano origine e trovino causa in detto inadempimento, dunque, debbono essere sopportate dallo stesso datore, per essere stato egli, appunto, inadempiente all'obbligazione contrattuale a lui facente carico ai sensi dell'art. 2087, giacché l'impossibilità della prestazione lavorativa è imputabile al comportamento illecito della stessa parte cui detta prestazione è destinata (Cass. n. 3559/1984; Cass. n. 4723/1994; Cass. n. 6601/1995; Cass. n. 3751/1996).

Ciò posto, si osserva che il giudice d'appello ha applicato esattamente tale insegnamento, poiché, con logica e congrua motivazione, collegata all'esercizio del potere istituzionale, che devolve esclusivamente al giudice di merito l'interpretazione delle disposizioni collettive di diritto comune, data la loro natura contrattuale (Cass. n. 5980/1996), - come già precisato in narrativa - ha accertato che l'art. 10 dell'accordo integrativo aziendale il luglio 1988, alla lett. a) aveva imposto alla Banca, attuale ricorrente, l'obbligo di «adottare tutte le misure idonee a prevenire atti criminosi nei confronti delle persone e del patrimonio aziendale, con particolare riferimento a tutte le possibilità di accesso all'interno delle strutture della Banca.  Ogni dipendenza sarà fornita di doppia porta con metal detector o di analoga misura di sicurezza, in modo tale da garantire comunque gli standard minimi di sicurezza esistenti nella piazza »; pervenendo alla (corretta) conclusione che la previsione contrattuale non aveva esaurito l'obbligo della Banca di tutelare i propri dipendenti, esonerandola - in tal modo - dalla responsabilità civile «per il solo fatto dì aver adottato l'unica misura di sicurezza tipizzata dall'accordo collettivo».

Invero, il Tribunale, chiamato a verificare se la Banca avesse adempiuto o no l'obbligazione contrattuale ad essa facente carico ex art. 2087 c.c., ha dato risposta negativa, osservando che la clausola contrattuale su richiamata andava intesa «solo quale misura minima comunque inderogabile», con ciò però escludendo che l'accordo integrativo aziendale del 11 luglio 1988 non avesse posto a carico della Banca (come, al contrario, sostenuto con le censure in esame) «l'obbligo di adottare tutte le misure idonee a prevenire atti criminosi, e cioè un impegno addirittura superiore all'onere dell'ordinaria diligenza che, ai sensi degli artt. 2043 e 1176 c.c., segna il limite della responsabilità per danni». Impegno che lo stesso Tribunale - con incensurabile, perché correttamente motivato, accertamento - (condividendo, sul punto, la determinazione del Pretore) ha individuato, oltre che nella porta a consenso con metal detector, nel «piantonamento diurno con guardia giurata o sorvegliante addetto ad una guardiola blindata, sistema d'allarme collegato con istituti di vigilanza o con le forze dell'ordine»; ossia, in quel complesso di misure di sicurezza, che, lungi dall'essere inesigibili dal datore di lavoro, rientrano in quell'ambito di prevedibilità (dell'evento) e di prevenibilità (mediante l'adozione di idonee e consone misure), ricollegabile certamente alla particolarità del lavoro (bancario).  Misure che il datore, come cennato, è tenuto - alla stregua di una valutazione ex ante e del criterio dell'ordinaria diligenza - ad adottare al fine di scongiurare il verificarsi di eventi dannosi per la salute dei propri dipendenti.

Contro le affermazioni del Tribunale, la cui statuizione riposa su esatti e condivisibili principi di diritto, la ricorrente principale ha, invece, formulato censure in parte infondate e, per altra parte (laddove ha preteso di ribaltare l'accertamento di fatto in ordine al verificarsi delle rapine), inammissibili nel giudizio di legittimità.

Esse, in definitiva, in relazione al punto ora precisato, decisivo nella presente controversia e, quindi, in ordine alla responsabilità della ricorrente, non intaccano i precetti di logica e razionalità, che sorreggono la motivazione della sentenza impugnata.

Con il quarto motivo, si chiede la cassazione della decisione gravata per violazione e falsa applicazione degli artt. 1375, 2087, 2108 e 2734 c.c., dell'art. 116 c.p.c., dell'art. 89 Cost. e degli artt. 1362 e ss. c.c., con riferimento all'interpretazione dell'art. 10 del contratto aziendale, in relazione all'art. 360, n. 8, n. 4 e n. 5, c.p.c., per avere il Tribunale affermato la responsabilità della Banca per non avere trasferito il Tortorella prima dell'ultima rapina, nonché per insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto.

Si deduce che il Tribunale «con davvero inspiegabile favore per il ricorrente » ha erroneamente ritenuto che non occorresse una domanda di trasferimento da parte del dipendente, in quanto la Banca avrebbe dovuto di sua iniziativa «andare incontro al desiderio del Tortorella ».

Il motivo è infondato.

Il giudice di appello, condividendo il rilievo contenuto nella decisione pretorile, ha valutato il mancato trasferimento dell'attuale resistente «prima dell'ultima rapina quale ulteriore comportamento colposo della Banca, che si aggiunge, nella determinazione del pregiudizio psico-fisico del dipendente, a quello consistito nella mancata adozione delle doverose misure di sicurezza nelle filiali di Lizzanello e Guagnano ». Osservando, inoltre, che tale ultimo profilo di colpa era in realtà «già di per sé idoneo a giustificare l'obbligo risarcitorio». Conseguentemente, ad avviso di questa Corte, risultando ininfluente, ai fini della decisione, finale, valutare anche se la Banca abbia omesso altre (doverose) misure (e/o attività), appare irrilevante la censura prospettata, giacché un suo eventuale accoglimento non potrebbe variare l'esito della decisione stessa.

Con il quinto motivo, si denunziano violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 2103 c.c., in relazione all'art. 360, n. 3 e n. 5, c.p.c., per avere il Tribunale affermato una responsabilità della Banca laddove non aveva immediatamente trasferito il Tortorella dopo l'ultima rapina e gli aveva assegnato mansioni dequalificanti, nonché insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto.  Il quinto motivo deve ritenersi assorbito nel quarto, in quanto, avendo - in proposito - la sentenza impugnata ribadito che il relativo profilo di colpa «costituisce solo un elemento aggiuntivo a fondamento della responsabilità già sussistente per violazione dell'art. 2087», la ricorrente non prospetta nuovi ed ulteriori profili di critica a supporto della propria doglianza.

Con il sesto motivo, si assume la violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 c.c., degli artt. 1, 2, 3, 4 e seg., 9 e seg., 10 e 13 T.U. n. 1124 dei 1965 e degli arti. 101, 112, 414 e 420 c.p.c., in relazione altari. 360, n. 3, n. 4 e n. 5, c.p.c., per avere il tribunale erroneamente negato il diritto del Tortorella ad ottenere la prestazione assicurativa dell'INAIL ed il conseguente esonero di responsabilità della Banca.

Si deduce che era specifico il fatto (non contestato) che il lavoratore fosse assicurato presso l'INAIL, negato, viceversa, dal giudice d'appello, e che è erronea l'opinione secondo cui il funzionario di Banca sia per definizione escluso dall'assicurazione presso detto Istituto.

La censura è infondata.

Il Tribunale ha correttamente statuito, basandosi su una «missiva in data 2.4.93», che l'INAIL non poteva (né doveva) erogare alcuna prestazione in favore dei Tortorella, dal momento che costui «non è persona rientrante nella tutela assicurativa di cui al D.P.R. n. 1124 dei 1965».

L'opinione, così espressa, è del resto conforme all'autorevole affermazione della Corte Costituzionale che, chiamata a decidere della legittimità costituzionale dell'art. 4 del T.U. della legge sull'assicurazione obbligatoria per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, approvato con D.P.R. n. 1224 del 1965, nella parte in cui non prevede l'obbligo di assicurazione per una particolare categoria di prestatori (funzionari di banca), ha - con decisione n. 429 del 3 ottobre 1990 - dichiarato inammissibile la relativa questione sull'assorbente rilievo che la conseguente «forma autonoma di un'assicurazione dell'infortunio» compete esclusivamente al potere discrezionale del legislatore, non comportando, dunque, l'esclusione del caso de quo violazione di alcun precetto costituzionale.

La contraria opinione della ricorrente cozza, viceversa, contro l'insindacabile accertamento del Tribunale e deve, perciò, essere disattesa.

Con il settimo motivo, si chiede l'annullamento della pronunzia impugnata per violazione e falsa applicazione dell'art. 32 Cost. e degli artt. 1223, 1226 e 2697 cod. civ., nonché dell'art. 414, n. 4, c.p.c., in relazione all’art. 360, n. 3, n. 4 e n. 5, c.p.c. laddove è stato erroneamente riformato il capo della statuizione dei Pretore, relativo alla quantificazione del danno biologico, liquidato (in Lit. 54 milioni) con il criterio a punti, anzi che con il criterio dei triplo della pensione sociale.  Si denuncia, altresì, insufficiente motivazione sul punto.

La doglianza è infondata.

Il Tribunale, nella quantificazione del danno biologico, richiesto dal Tortotella, si è correttamente uniformato al prevalente insegnamento di questa Corte, secondo cui il risarcimento del danno biologico, inteso come menomazione dell'integrità psico-fisica del soggetto, costantemente presente in ogni fatto illecito che rechi danno alla persona, deve essere liquidato anche in difetto di criteri obiettivi per l'esatta quantificazione del pregiudizio, stante il potere-dovere dei giudice di ricorrere ad una valutazione equitativa.

Sicché non può essere utilizzato il criterio indicato dall'art. 4 del D.L. 23 dicembre 1996 n. 857 (convertito con legge 26 febbraio 1977 n. 39), che si riferisce al pregiudizio patrimoniale conseguente alla menomazione della capacità di produzione  del reddito personale (ex plurimis: Cass. n. 477/96), ben potendosi utilizzare - come, peraltro, ha fitto il tribunale - il criterio della liquidazione c.d. per punti.

Con l'ottavo motivo, la Banca ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 32 Cost., 1223, 1226 e 2697 c.c., in relazione all'art. 360, n. 3 e n. 5, c.p.c. per avere il giudice d'appello erroneamente duplicato il risarcimento del danno medesimo, considerandolo, una volta, come patrimoniale, ed, una volta come biologico; nonché insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto.

La ricorrente sostiene che la doppia detrazione della pensione non era affatto frutto di un errore, poiché il Pretore, operando correttamente su somme di denaro al netto delle 'imposte, aveva tenuto conto di quella parte di reddito (pensione di invalidità) che il Tortorella percepiva proprio per le stesse ragioni (inidoneità), per le quali aveva perduto il reddito lavorativo.  Di modo che non può parlarsi di doppia detrazione, in quanto la pensione, già goduta in costanza di rapporto, rilevava sia al fine della determinazione dell'effettivo reddito da lavoro, sia come risarcimento di reddito compensativo, secondo il principio della compensatio lucri cum damno.

La ricorrente deduce, infine, che deve essere evitata un’ingiusta duplicazione del danno, mediante il risarcimento del danno biologico e risarcimento di quello patrimoniale. Il motivo va rigettato.

Va premesso che – come si legge nella sentenza impugnata - il Tribunale, esaminando la specifica doglianza del lavoratore, il quale aveva lamentato - a proposito della quantificazione del danno patrimoniale - l'erroneità della detrazione, del reddito percepito nell'anno precedente il licenziamento, dell'assegno di invalidità «poiché gli stipendi a lui versati dalla banca erano già decurtati dell’importo di tale assegno», ha considerato - con apprezzamento incensurabile - che «negli statini mensili degli stipendi esibiti dal Tortorella, risulta effettuata una specifica trattenuta pensionati dall'epoca successiva all'emissione (luglio 1989) del certificato di pensione INPS pure esibito. Il calcolo del risarcimento dovuto per il danno patrimoniale subito andrà... nuovamente effettuato secondo i criteri adottati dal Pretore... ma senza operare la detrazione relativa all'assegno di invalidità» (pag. 24 sent. imp.).

Ha, quindi, adottato un'esatta statuizione, poiché (il Tribunale) ha mostrato di avere chiara la distinzione tra danno patrimoniale (riferibile al pregiudizio conseguente alla menomazione della capacità di produzione del reddito personale) e danno biologico (connesso ad una menomazione psico-fisica del soggetto), che debbono essere (entrambi) risarciti, senza che ciò comporti - come osservato dalla giurisprudenza di legittimità - una duplicazione nella liquidazione di un elemento del danno (cfr. Cass. n. 12911/92), atteso che il danno biologico e quello patrimoniale attengono a sfere distinte di riferimento (Cass. n. 3565/96; n. 3727/96).

Con il nono motivo, la ricorrente principale deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 25 Cost. e degli artt. 1218, 2059, 2087 e 2697 c.c. nonché degli artt. 42, 43 e 590 cod. pen., degli artt. 414, n. 4, 437, c.p.c. in relazione all'art. 360, n. 3, n. 4 e n. 5 c.p.c. ed omessa e/o insufficiente motivazione sul punto.

Censura la sentenza impugnata per aver erroneamente condannato essa attuale ricorrente principale al risarcimento del danno morale, sostenendo che:

a) il Tribunale ha accolto una causa pretendi (reato di lesioni colpose) mai indicata in primo grado e «saltata fuori tardivamente solo in appello»

b) il Tribunale ha confuso i requisiti della responsabilità contrattuale del debitore (artt. 1218 e 2087 c.c.), dai quali esula l'onere della prova della responsabilità penale, per la quale è indispensabile la prova dell'elemento soggettivo (artt. 42 e 43 cod. pen.);

c) l'inesistenza, nella specie, di una predeterminata norma prevenzionistica, atteso che l'accertamento della responsabilità civile, che era fondata solo su un'inammissibile forzatura del principio di cui all’art. 2087 c.c., esclude in radice la configurabilità di un reato.

Anche l'ultimo motivo è infondato.

Si deve innanzitutto escludere che il giudice d'appello si sia pronunziato in difetto di una causa petendi, giacché il Tortorella come si desume dalla sentenza impugnata e dagli atti di causa aveva chiesto l'affermazione della responsabilità della Banca Popolare Pugliese S.r.l. per tutti i danni patrimoniali e morali derivanti dalla dedotta violazione dell’obbligo di sicurezza previsto dall’art. 2087 c.c.

E su tale indiscutibile presupposto si è conseguentemente determinato a condannare la stessa banca a risarcire i danni morali subiti dal lavoratore. osservando (correttamente e coerentemente con principi ripetutamente affermati dalla giurisprudenza, puntualmente richiamati nella decisione ora gravata), che non può escludersi «il rilievo anche penale della colpa per mancata adozione delle misure di sicurezza obbligatorie ex art. 2087 c.c., colpa posta a fondamento della responsabilità civile riconosciuta in sentenza» (v. Cass. sez. IV 8 marzo 1988, Corbetta; Cass. pen. Sez. IV 13 gennaio 1989, Marocco).

E, da siffatta premessa, lo stesso giudice d’appello è pervenuto all’esatta conclusione che le lesioni colpose costituiscono proprio quella fattispecie criminosa tipica, procedibile d’ufficio, (art. 590 c.p.), che giustifica il risarcimento del danno morale (artt. 2059 c.c. e 185 c.p.).

In definitiva il ricorso principale deve essere rigettato.

Va rigettato anche il ricorso incidentale, con il cui unico motivo Marcello Tortorella denuncia, a sua volta, violazione e falsa applicazione degli artt. 2087, 2110 c.c., e 3 legge n. 604 del 1966, nonché contraddittorietà ed insufficienza di motivazione su un punto essenziale della controversia.

Il ricorrente incidentale, a sostegno della censura, osserva che il Tribunale, dopo avere correttamente affermato che, anche nella disciplina del rapporto di lavoro, trova applicazione il principio generale che l'autore di un comportamento contra legem non può invocare a suo vantaggio l'evento dannoso cagionato (cosicché non può essere intimato il licenziamento per superamento del periodo di comporto quando responsabile della malattia del prestatore sia il datore di lavoro per violazione dell'art. 2087 c.c.), ha poi contraddittoriamente ritenuto legittimo il recesso disposto dalla Banca, assumendo che, se la malattia del dipendente contratta per colpa del datore non può determinare un recesso per superamento del periodo di comporto, tale periodo, però, continua ad avere rilievo al diverso scopo di individuare il momento in cui il licenziamento per causa diversa (nella fattispecie: per inidoneità al lavoro) può essere efficacemente intimato. Il vizio e la contraddittorietà della motivazione appaiono evidenti ove si consideri che l'inidoneità al lavoro dei Tortorella era stata determinata proprio dal fatto colposo della Banca, con la conseguente irrilevanza del decorso del periodo di comporto e, in ogni caso o gradatamente, con la conseguente esigenza di stabilire, prescindendo dal riferimento, che può avvenire solo in via equitativa, al periodo complessivo di assenza dal lavoro negli ultimi due anni, se effettivamente si fosse verificata, per il decorso di quel periodo, l'inidoneità al lavoro del Tortorella.

Sotto quest'altro profilo, quanto meno, doveva essere verificato, sulla base di una motivazione congrua e coerente, il carattere irreversibile in tempi ragionevoli dello stato di invalidità psichica del Tortorella.

Occorre, innanzi tutto, osservare che il Tribunale, partendo dal presupposto che il lavoratore era stato assente per malattia per oltre 22 mesi negli ultimi tre anni prima del recesso datoriale, alla data del 28 maggio 1990 poteva essere «efficacemente» licenziato, ha affermato che, sebbene la malattia contratta dal prestatore per colpa del datore non possa determinare un licenziamento per superamento del periodo di comporto, tuttavia «tale periodo continua ad avere rilievo al diverso scopo di individuare il momento in cui il licenziamento per causa diversa (nella fattispecie in esame: per inidoneità al lavoro) può essere efficacemente intimato».

Si legge, poi, nella sentenza impugnata che il giudice d'appello con riferimento alla consulenza medico-legale d'ufficio, volta all'accertamento se il Tortorella, alla data del licenziamento, fosse idoneo o no allo svolgimento delle mansioni di funzionario di banca secondo le declaratorie contrattuali - ha concluso nei seguenti termini: «…il Tortorella versava in condizioni di salute fisica e mentale tali da richiedere assoluto riposo; appare legittimo dedurne che in tali condizioni il ricorrente non aveva la capacità e possibilità di svolgere alcuna attività lavorativa e, di conseguenza, neppure quella di funzionario di banca».

La statuizione del Tribunale appare corretta e va mantenuta ferma, posto che essa è conforme ai principi di diritto costantemente affermati da questa Corte, secondo cui la sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore, a causa di malattia, anche se non è stato superato il periodo di comporto, giustifica la risoluzione del rapporto di lavoro (v. da ultimo: Cass. n. 3040/96), costituendo esso un caso di giustificato motivo oggettivo di licenziamento (v. Cass. n. 5830/87 ed altre; Cass. n. 7196/91 ed altre).  Sicché, tenuto conto - come rilevato dal Tribunale - che, nell'ambito dell'organizzazione della Banca, attuale ricorrente, non «possono ... individuarsi mansioni» compatibili - in relazione alla qualifica di funzionario - con lo stato psico-fisico del Tortorella, la cui richiesta di reintegra «non può, di conseguenza, essere accolta», allo stesso Tortorella era consentita soltanto la tutela risarcitoria, peraltro riconosciuta dal giudice di merito.

Le spese di questo giudizio di legittimità vanno totalmente compensate tra le parti, attesa la reciprocità della soccombenza e la complessità delle questioni trattate.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta entrambi.

Dichiara interamente compensate tra le parti le spese di questo giudizio di cassazione.

 

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