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Autotutela contro il
trasferimento demansionante: legittimità
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Cass., sez. lav.,19
febbraio 2008, n. 4060 – Pres. Mattone – Rel. Nobile – Imat Felco SpA c.
A.G.
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Rifiuto del ricorrente
al trasferimento con assegnazione di nuove mansioni
dequalificate – Legittimità.
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Il giudice, ove venga
proposta dalla parte l'eccezione "inadimplenti non est adimplendum", deve
procedere ad una valutazione comparativa degli opposti adempimenti avuto
riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione
economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza
sull'equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli
interessi delle stesse. Tale valutazione rientra nei compiti del giudice di
merito ed è incensurabile in sede di legittimità se assistita da motivazione
sufficiente e non contraddittoria (v. Cass. 16/5/2006 n. 11430, cfr. anche
fra le altre Cass. 15/4/2002 n. 5444, Cass. 4/11/2003 n. 16530). In
particolare, poi, con riferimento alla mancata ottemperanza da parte del
lavoratore al provvedimento di trasferimento, giustificata quale attuazione
di una eccezione di inadempimento, è stato anche precisato che "non si può
ritenere che sussista una presunzione di legittimità dei provvedimenti
aziendali, che imponga l'ottemperanza agli stessi fino a un contrario
accertamento in giudizio" (v. Cass. 8/2/1999 n. 1074, Cass. 20/12/2002 n.
18209).
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Svolgimento del
processo
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Con ricorso del 11/6/2004 A.G. impugnava la sentenza del Tribunale di Como
n. 128 del 2004 che aveva respinto la domanda proposta nei confronti della
Imat Felco s.p.a. di declaratoria di illegittimità del licenziamento
intimato in data 19/9/2003 e di condanna al pagamento della somma di Euro
19.500,00, a titolo di indennità sostitutiva della reintegrazione L. n. 300
del 1970, ex art. 18.
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In particolare il Tribunale aveva ritenuto che il licenziamento fosse
fondato su giustificato motivo soggettivo e che il rifiuto del ricorrente di
trasferirsi da Cantù a Como, motivato dal lavoratore con il fatto che
l'esercizio delle nuove mansioni avrebbe costituito un demansionamento,
costituiva una grave inadempienza, poiché, da un lato, di demansionamento si
poteva parlare solo in caso di esercizio delle mansioni, dall'altro il
ricorrente aveva reagito al trasferimento con l'autotutela, strumento non
consentito dalla legge, anche a fronte della rassicurazione del datore di
lavoro circa l'equivalenza delle mansioni (equivalenza, in ogni caso,
ritenuta dal Tribunale).
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Con l'appello, in specie, l'A. lamentava:
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- che il demansionamento si era di per sé consumato nel momento in cui il
lavoratore aveva assunto una qualifica inferiore;
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- che andavano fatti salvi i principi di cui alla contrattazione collettiva
e che lo stesso datore di lavoro aveva sempre inquadrato i commessi al 4° e
5° livello e che lo stesso responsabile del banco a Como era inquadrato al
3° livello, mentre la responsabilità di filiale (a Cantù) richiedeva
maggiori responsabilità e quindi superiore inquadramento;
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- che il comportamento tenuto da esso appellante configurava pieno esercizio
del diritto di eccezione di inadempimento;
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- che in ogni caso non erano state provate le ragioni tecnico-produttive a
fondamento del trasferimento.
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Si costituiva la società appellata e resisteva al gravame.
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La Corte d'Appello di Milano, con sentenza depositata il 13/10/2005, in
riforma della impugnata sentenza, dichiarava la illegittimità del
licenziamento e condannava la società al pagamento della richiesta indennità
sostitutiva della reintegrazione, oltre le spese del doppio grado.
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In sintesi la Corte territoriale, premesso che per valutare la
giustificatezza o meno del comportamento del lavoratore sotto il profilo
della attuazione di una eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c.
occorreva effettuare la comparazione "tra le mansioni svolte nella sede di
provenienza e quelle assegnate nella sede di destinazione,
indipendentemente...dal concreto svolgimento delle stesse", esaminate
ampiamente le risultanze documentali e testimoniali nonché le declaratorie
contrattuali, concludeva che, diversamente da quanto ritenuto dal primo
giudice, risultava provato in causa che "al trasferimento a Como si
accompagnava un palese demansionamento", per cui il rifiuto del lavoratore
di svolgere le nuove mansioni costituiva "legittima reazione ex art. 1460
c.c., come eccezione di inadempimento".
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Per la cassazione della detta sentenza ha proposto ricorso la Imat Felco
s.p.a. con due motivi.
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L'A. ha resistito con controricorso.
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La società ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
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Motivi della decisione
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Con il primo motivo la ricorrente, denunciando violazione degli artt. 2103,
2104 e 1460 c.c. e vizi di motivazione, in primo luogo, ribadisce la
sussistenza nella fattispecie delle ragioni tecniche, organizzative e
produttive poste a fondamento del trasferimento, come prospettate dalla
società nelle memorie di costituzione di primo e di secondo grado, e lamenta
la mancata considerazione delle stesse da parte dei giudici di appello.
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La censura è infondata.
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Sul punto la Corte di Appello ha espressamente affermato che "non si può
discutere, come vorrebbe l'appellante, della sussistenza o no delle ragioni
tecniche, organizzative e produttive poste a fondamento del trasferimento,
trattandosi di profili di illegittimità non prospettati nel giudizio di
primo grado e oggi quindi preclusi".
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In altre parole la sussistenza delle dette ragioni non era stata posta in
discussione, essendo stato dedotto dall'attore soltanto il profilo del
demansionamento, di guisa che la Corte legittimamente si è concentrata su
tale profilo e sulla relativa eccezione di inadempimento da parte del
lavoratore.
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Del resto la rilevanza dell'accertato demansionamento prescinde dalla
eventuale sussistenza o meno delle citate ragioni.
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In secondo luogo la società, in sostanza, deduce che "il rifiuto opposto da
A.G., frutto di una comparazione disomogenea, fra un dato di fatto concreto
(attività prestata a Cantù) e una mera supposizione (mansioni inferiori che
sarebbero state svolte a Como), è illegittimo, comportando una inammissibile
autotutela priva di giustificazione concreta" ed essendo, altresì, in
contrasto con la buona fede.
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La censura è sviluppata, poi, con il secondo motivo, con il quale la
ricorrente, denunciando violazione dell'art. 1460 c.c. e vizio di
motivazione, deduce che "erronea è la comparazione che la Corte d'Appello
svolge fra un dato concreto e uno meramente ipotetico, essendo viceversa
necessaria...la comparazione fra due elementi di fatto in concreto
verificatisi e che nella fattispecie non è stato possibile verificare".
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Peraltro secondo la ricorrente in sostanza l'A. a Cantù "godeva di un
inquadramento, sovrabbondante, al 2° livello" e "la verifica in concreto
delle mansioni che il dipendente avrebbe svolto" (a Como) avrebbe dimostrato
"che esse sarebbero state equivalenti a quelle svolte in precedenza presso
il negozio di Cantù".
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Al riguardo la società lamenta una "lettura frettolosa" della
"documentazione in atti e delle prove assunte".
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Anche tali censure (contenute nella seconda parte del primo motivo e nel
secondo motivo) non possono essere accolte, risultando in parte infondate ed
in parte inammissibili.
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Questa Corte ha più volte affermato il principio secondo cui "l'illegittimo
comportamento del datore di lavoro consistente nell'assegnazione del
dipendente a mansioni inferiori a quelle corrispondenti alla sua qualifica
può giustificare il rifiuto della prestazione lavorativa, in forza
dell'eccezione di inadempimento di cui all'art. 1460 c.c., purché la
reazione risulti proporzionata e conforme a buona fede" (v. fra le altre
Cass. 26/6/1999 n. 6663, Cass. 27/6/1997 n. 5737, Cass. 12/10/1996 n. 8939).
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Al riguardo, nel quadro generale dei contratti con prestazioni
corrispettive, è stato altresì affermato che "il giudice, ove venga proposta
dalla parte l'eccezione "inadimplenti non est adimplendum", deve procedere
ad una valutazione comparativa degli opposti adempimenti avuto riguardo
anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del
contratto e alla loro rispettiva incidenza sull'equilibrio sinallagmatico,
sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse. Tale valutazione
rientra nei compiti del giudice di merito ed è incensurabile in sede di
legittimità se assistita da motivazione sufficiente e non contraddittoria"
(v. Cass. 16/5/2006 n. 11430, cfr. anche fra le altre Cass. 15/4/2002 n.
5444, Cass. 4/11/2003 n. 16530). In particolare, poi, con riferimento alla
mancata ottemperanza da parte del lavoratore al provvedimento di
trasferimento, giustificata quale attuazione di una eccezione di
inadempimento, è stato anche precisato che "non si può ritenere che
sussista una presunzione di legittimità dei provvedimenti aziendali, che
imponga l'ottemperanza agli stessi fino a un contrario accertamento in
giudizio" (v. Cass. 8/2/1999 n. 1074, Cass. 20/12/2002 n. 18209). A tali
principi la Corte di appello si è pienamente attenuta osservando,
preliminarmente che "la comparazione deve avvenire tra le mansioni svolte
nella sede di provenienza e quelle assegnate nella sede di destinazione,
indipendentemente,..dal concreto svolgimento delle stesse, altrimenti non
potrebbe più parlarsi di eccezione di inadempimento".
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Ciò posto la sentenza impugnata, esaminate attentamente le risultanze
documentali (in specie la corrispondenza intercorsa) e testimoniali nonché
le declaratorie contrattuali, ha concluso che risultava provato in causa che
"al trasferimento a Como si accompagnava un palese demansionamento".
Pertanto, effettuata una accurata ricostruzione e comparazione del
comportamento complessivo di entrambe le parti (valutando anche, in specie,
il fatto che la "Imat, senza mai modificare sostanzialmente la propria
posizione in ordine alle mansioni da assegnare nonostante le precise censure
del dipendente, abbia deciso di interrompere il rapporto senza neppure un
nuovo formale ordine di prendere servizio a Como", la Corte d'Appello, con
motivazione congrua e priva di vizi logici, ha concluso che il rifiuto
dell'A. costituiva "legittima reazione ex art. 1460 c.c. come eccezione di
inadempimento".
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Tale accertamento di fatto resiste, quindi, alle censure di parte
ricorrente, con le quali, in sostanza, si sollecita in questa sede un
inammissibile riesame del merito (lamentandosi una "lettura frettolosa" di
risultanze documentali e testimoniali il cui testo, peraltro, neppure viene
riprodotto nel ricorso).
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Sul punto va ribadito il principio secondo cui "il controllo di logicità del
giudizio di fatto, consentito dall'art. 360 c.p.c., n. 5, non equivale alla
revisione del "ragionamento decisorio", ossia dell'opzione che ha condotto
il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione
esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che
un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova
formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall'ordinamento al
giudice di legittimità; ne consegue che risulta del tutto estranea
all'ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Suprema Corte di
procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso la autonoma, propria
valutazione delle risultanze degli atti di causa", (v., fra le altre, da
ultimo Cass. 7/6/2005 n. 11789, Cass. 6/3/2006 n. 4766).
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Del resto l'art. 360 c.p.c., n. 5 "non conferisce alla Corte di Cassazione
il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di
controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica,
l'esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto
spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, all'uopo,
valutarne le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza e
scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare
i fatti in discussione " (v. Cass. S.U. 11/6/1998 n. 5802), non incontrando,
al riguardo, lo stesso giudice, "alcun limite che quello di indicare le
ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni
singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo
ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che,
sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la
decisione adottata" (v. fra le altre Cass. 7/8/2003 n. 11933, Cass.
20/4/2006 n. 9234). Il ricorso va pertanto respinto. Le spese seguono la
soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
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P.Q.M.
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Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese
liquidate in Euro 17,00 oltre Euro 2.500,00 per onorari oltre spese
generali, IVA e CPA.