Dequalificazione da forzata inattività e danno biologico

 

Cass. sez. lav., 24 gennaio 1990 n. 411 -  Pres.  Antoci - Est.  Buccarelli - Sparaco (avv.  Zanussi e Mastroianni) c. 3M Italia Spa  (avv.  Fusco)

 

Licenziamento illegittimo - Reintegrazione con assegnazione di mansioni dequalificanti - Lesione alla capacità di produrre reddito - Risarcimento - Configurabilità - Danno biologico - Risarcimento - Configurabilità - Onere della prova - Grava sul lavoratore.

 

Il bene della salute costituisce, come tale, oggetto di autonomo diritto primario assoluto (art. 32 Cost.), sicché il risarcimento dovuto per la sua lesione non può essere limitato alle conseguenze che incidono solo sull'idoneità a produrre reddito, ma deve autonomamente comprendere il cosiddetto danno biologico, inteso come la menomazione dell'integrità' psicofisica della persona in sè e per sè considerata, in quanto incidente sul valore uomo in tutta la sua dimensione, che non si esaurisce nell'attitudine a produrre ricchezza, ma si collega alla somma delle funzioni naturali riguardanti il soggetto nel suo ambiente di vita ed aventi rilevanza non solo economica ma anche biologica, sociale, culturale ed estetica. (Nella specie, la Corte Suprema ha affermato l'applicabilità dell'esposto principio di diritto con riguardo alla condotta del datore di lavoro che, dopo aver illegittimamente licenziato ed estromesso dall'attività lavorativa il dipendente, aveva quindi affidato al medesimo, a seguito della sua reintegrazione, mansioni non corrispondenti alla sua qualifica o alla sua categoria, causandogli in tal modo una grave sindrome da esaurimento nervoso).

 

(Omissis) – Fatto e diritto - Con il primo motivo di ricorso, denunziata violazione e falsa applicazione dell'art. 2059 c.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.) si duole il ricorrente della sentenza impugnata, per avere il Tribunale rigettato la domanda di risarcimento danni non patrimoniali, non ricorrendo l'ipotesi di «reato»: seguendo però al riguardo un'interpretazione della terminologia del codice «restrittiva» (e ormai) «superata».

Richiamati i princìpi enunciati dalla Corte Costituzionale (decisione 26/6/78 n. 88), deduce il ricorrente che la risarcibilità dei danni non patrimoniali non può essere restrittivamente limitata alla (sola) ipotesi di «reato» ma deve essere ammessa in tutti i «casi determinati dalla legge... », sotto il prospettato profilo della risarcibilità del «danno biologico»; e, pertanto, anche nel caso concreto dedotto in giudizio, in cui il lavoratore, ingiustamente licenziato, era stato colto, a seguito del licenziamento (e delle successive complesse vicende giudiziarie ricordate), da una. «sindrome depressiva» conseguenza (questa) di un «forte esaurimento nervoso subìto».

Con il secondo motivo, denunziata violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.), si duole il ricorrente, censurando sotto altra angolazione la sentenza impugnata, che il Tribunale, nel rigettare la domanda, non abbia sufficientemente considerato che, accanto alla responsabilità contrattuale del datore di lavoro, poteva essere giuridicamente prospettata anche quella «extra contrattuale» per avere lo stesso insistito reiteratamente nella ripetizione di atti e fatti illeciti e arbitrari (lesivi della personalità del lavoratore) quali a esempio la «dequalificazione» delle mansioni affidategli risultate non confacenti alla sua qualifica contrattuale.  E che tale particolare tipo di responsabilità (art. 2043 C.C.) poteva essere giuridicamente configurata indipendentemente dal «dolo» e dalla « colpa », anche sulla base (soltanto) della semplice « omissione ».

Le censure sono (in parte) fondate, e il ricorso può essere accolto, per quanto di ragione, nei limiti qui di seguito precisati.

Pur potendosi condividere, in linea di principio, la tesi di diritto (enunciata dal Tribunale) della non risarcibilità dei danni  c.d. « morali » o « non patrimoniali» (secondo la nozione tradizionale elaborata da dottrina e giurisprudenza) all'infuori dei (limitati) casi del fatto «illecito» costituente «reato» ex art. 2059 C.c. e 185 c.p. (di guisa che infondate si rivelano innanzitutto le censure di cui al primo motivo del ricorso), va tuttavia rilevato (secondo quanto fondatamente deduce il ricorrente nel secondo motivo) - che il Tribunale, decidendo nei termini sopra ricordati, non ha considerato che il lavoratore - pur rivendicando (anche, ma solo nominalmente e in modo improprio) il risarcimento di tali danni, aveva (peraltro) dedotto, a tal uopo, (sin dall'atto introduttivo del giudizio) di avere subito una grave sindrome nevrotico da «esaurimento nervoso» quale conseguenza del fatto «illecito» (non solo sul piano esclusivamente contrattuale) commesso ai suoi danni dal datore di lavoro.

E ciò (secondo l'assunto del lavoratore) - non solo a causa dell'illegittimo licenziamento intimatogli (e delle consequenziali vicende giudiziarie ingiustamente subite, sino alla definitiva reintegra nel posto di lavoro), ma anche per avere (dovuto) esercitare (su ordine del suo datore di lavoro) mansioni di lavoro (dequalificate) non confacenti alla qualifica o categoria contrattualmente riconosciutagli.

Deve essere, pertanto, annullato sul punto il giudizio conclusivo del Tribunale, chiaramente inficiato dai vizi di legittimità denunziati sub motivo secondo del ricorso.

Come e noto, anche per la recente evoluzione dei nuovi princìpi elaborati in materia dalla Corte Costituzionale e dalla giurisprudenza di questa stessa Corte, il «bene della salute» (che deve intendersi ovviamente compromesso o leso dall'«esaurimento nervoso» lamentato, nel caso di specie, dal lavoratore), costituisce - come tale - oggetto di un autonomo diritto primario assoluto (art. 32 della Costituzione); di guisa che il risarcimento dovuto per la sua lesione non può essere limitato alle conseguenze che incidono soltanto sull'idoneità del soggetto a produrre reddito, ma deve autonomamente comprendere anche il danno c.d. «biologico» inteso come menomazione dell'integrità « psicofisica » della persona in sé e per sé considerata, in quanto incidente sul valore «uomo» in tutta la sua dimensione; e che non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza, ma si collega alla somma delle funzioni naturali riguardanti il soggetto nel suo ambiente di vita e di lavoro, e aventi rilevanza non solo economica, ma anche biologica, sociale, culturale ed estetica.

In altri termini, in caso di fatto illecito lesivo dell'integrità psico-fisica della persona, il danno patrimoniale risarcibile non è costituito soltanto dalle conseguenze pregiudizievoli correlate all'efficienza lavorativa e alla capacità di produzione di reddito, ma si estende a tutti gli effetti negativi incidenti. sul bene primario della salute in sé considerato, quale diritto inviolabile dell'uomo alla pienezza della vita e all'esplicazione della propria personalità morale, intellettuale e culturale (cfr. per i principi enunciati: ad es. tra le più recenti Cass. 25/5/85 n. 3212;Cass. 21/3/86 n. 2012; Cass. 14/1/88 n. 208).

Né si può sostenere (come ha fatto il Tribunale, che ha tuttavia correttamente riconosciuto in linea di principio il concorso tra responsabilità contrattuale e responsabilità extra-contrattuale, quale conseguenza di un medesimo fatto che abbia violato contemporaneamente non soltanto diritti derivanti da contratto, ma anche diritti spettanti alla persona offesa, indipendentemente dal contratto medesimo) che non spettava, nel caso concreto, alcun risarcimento - sotto la particolare angolazione dedotta dal lavoratore, perché nessun «illecito» era configurabile in capo al datore di lavoro, al di fuori ed indipendentemente dal rapporto di lavoro instaurato con il ricorrente.

Il Tribunale, infatti, non ha attentamente considerata la portata precettiva dell'art. 2043 c.c., il quale, stabilito il principio (generale) della risarcibilità del «danno ingiusto» senza altra qualificazione, prevede in via immediata la risarcibilità delle menomazioni di quello che è il complessivo valore della persona, nella sua proiezione non solo economica ed oggettiva fatta palese dal patrimonio, ma (anche) «soggettiva» (biologica e sociale): nel senso e nei termini sopra richiamati.

Non ha, poi, attentamente valutato nel merito il complessivo comportamento del datore di lavoro (sin dall’ iniziale, illegittimo, licenziamento intimato fino all'ultima e definitiva reintegra nel posto di lavoro del dipendente illegittimamente estromesso) tenuto conto al riguardo dei princìpi di diritto (e della loro successiva evoluzione: cfr. sez. un. 1669/82 e sez. un. 2925/88) in materia enunciati dalla giurisprudenza di questa Corte, in tema di «effetti» della riforma in appello della sentenza di 1° grado, o della (successiva) cassazione (art. 336 c.p.c.); anche e soprattutto in relazione al (successivo) comportamento del datore di lavoro (e sul quale è mancata ogni e qualsiasi valutazione) che, dopo la «reintegra» ha affidato (fra l'altro) al lavoratore mansioni non corrispondenti alla sua qualifica o alla sua categoria, violando così (secondo l'assunto del ricorrente) un preciso obbligo previsto dalla legge (art. 2103 c.c.).

E tale esame (e valutazione) era necessario per verificare se, al di fuori del piano esclusivamente contrattuale (nei cui limiti è stata circoscritta riduttivamente la disamina del giudice del merito), si potesse configurare piuttosto un'ipotesi di responsabilità extra-contrattuale del datore di lavoro alla stregua dei fatti «illeciti» denunziati, con riferimento al danno alla salute lamentato dal lavoratore.

Va conclusivamente accolto, per quanto di ragione, il ricorso; con conseguente annullamento della sentenza impugnata; e con rinvio ad altro giudice (che si designa nel Tribunale di Napoli) il quale, nel riesaminare la domanda del lavoratore, si dovrà uniformare agli enunciati princìpi di diritto, provvedendo infine anche sulle spese processuali di questo giudizio.

(Torna alla sezione Mobbing)