Troppo
rumore per una riaffermazione (di Cass. n. 5539 - 03) di continuità in tema di “irrilevanza delle condizioni genetiche
preesistenti” ai fini dell’integrale accollo al danneggiante della
responsabilità risarcitoria del danno biologico
A) - La
stampa del 24 aprile 2003 ha dato ampio risalto – tramite sintesi
giornalistiche – ad un presunto nuovo principio della Cassazione che ha
ritenuto errato un riparto di responsabilità tra datore di lavoro danneggiante
e dipendente danneggiato da illecito
datoriale (demansionamento sfociato in depressione), in ragione di un 50% per
ciascuno, in presenza di una riscontrata (tramite CTU) predisposizione genetica
del danneggiato, suscettibile secondo i giudici di merito di sottrarre il
datore di lavoro colpevole di demansionamento illegittimo ad un
50% di responsabilità.
I giornalisti – non dotati, per
estraneità alla materia giuridica, di “memoria storica” – si sono sbracciati
nell’affermare l’assoluta novità della statuizione effettuata dalla Cassazione,
sez. lav. 9 aprile 2003 n. 5539, la quale ha negato legittimità all’operazione
di riparto di responsabilità, statuendo che il comportamento illegittimo del
datore di lavoro determina l’integrale responsabilità al 100% (e non una
graduazione percentuale della stessa) ai fini del risarcimento del danno
biologico indotto, a prescindere dalla presenza di cd. “antecedenti genetici” o
“predisponenti” del danneggiato.
Le conclusioni giornalistiche
sono assolutamente inesatte o quantomeno superficiali. L’introduzione in campo giuslavoristico di un
principio consolidato in ambito civilistico, risalgono per lo meno al 1999, allorchè
la Cassazione nella sentenza 5 novembre 1999 n. 12339 (Pres.Delli Priscoli,
est.Mercurio) –
che si riporta integralmente al punto B) del presente scritto - affermò in
ambito giuslavoristico l’assoluta incomparabilità (per intrinseca
disomogeneità) tra comportamenti umani colpevoli e situazioni genetiche
strutturali incolpevoli, con la conseguenza che il comportamento umano
colpevole ed illegittimo (anche in tale fattispecie consistito in demansionamento e forzata inattività)
e determinativo di “infarto miocardico”
doveva essere considerato integralmente responsabile dell’evento afflittivo, a
prescindere dalla presenza di una situazione psicofisica del danneggiato
caratterizzata da una “aterosclerosi coronarica”. Non abbiamo potuto leggere
la sentenza n. 5539-03 – da noi richiesta alla
Cassazione – ma riteniamo ciononostante di dover effettuare tali precisazioni e
puntualizzazioni (basate sulle informate sintesi giornalistiche) per “smorzare” il carattere tanto “propagandistico” quanto
intrinsecamente “fazioso” di quanto prospettato dalla stampa (specie quella
Confindustriale), di cui di seguito pubblichiamo un articolo comparso su “Il
Sole-24 Ore” del 24 marzo 2003, n. 112, p. 25 e ss. a firma Beatrice Dalia,
titolato:
«Pieno
risarcimento ai dipendenti vittime del “danno biologico”
Risarcimento pieno al dipendente
depresso un pò per il lavoro, un pò di suo. Se alla condizione di avvilimento
dell'individuo contribuiscono anche i motivi di lavoro, l'imprenditore è tenuto
ad accollarsi per intero il danno biologico patito dal dipendente.
La
vicenda.
I giudici
di piazza Cavour hanno condannato una società di spedizioni a pagare 180 mila
euro a un dipendente caduto in una grave crisi depressiva per essere stato
prima dequalificato e poi messo alla porta. Lo svolgimento di mansioni al di
sotto della sua competenza lo aveva portato a una pesantissima cura
farmacologica e, durante lo stato di malattia, si era visto licenziare.
Il Tribunale non se l'era
sentita dì attribuire tutta la responsabilità all'imprenditore, visto che la
consulenza tecnica aveva evidenziato una certa predisposizione del soggetto,
affetto da una sindrome ansiosa e da obesità. Alla fine è risultato che il
danno alla salute, corrispondente a un 50% di invalidità, poteva essere
imputato solo per metà a cause lavorative. Quindi, ad avviso dei giudici dì
merito, il datore di lavoro doveva risarcire solamente il 50% di quel danno.
Il
ragionamento della Corte. La «condivisione» della responsabilità tra dipendente e
datore di lavoro, però, non è piaciuta ai giudici di piazza Cavour che hanno
richiamato il principio fondamentale in tema di responsabilità civile,
ricavabili dagli articoli 40 e 41 del Codice penale. In pratica, quando il
danno - vuoi per condizioni ambientali oppure per fattori naturali - avviene
indipendentemente dal comportamento «imputabile all'uomo», l'autore dell'azione
o dell'omissione resta sollevato per intero da ogni colpa nell'evento; se,
invece, quelle condizioni oggettive non possono dar luogo, senza l'apporto
umano, al danno, l'autore del comportamento è interamente responsabile di
tutte le conseguenze che derivano dall'evento lesivo. Trasportando questi
principi al diritto del lavoro, il risultato è un «raddoppio» degli obblighi di
tutela per il datore. E ogni perplessità sulla validità di simili
ragionamenti in materia giuslavoristica, a parere della Cassazione, «è
destinata a disvelare la propria inconsistenza solo che si considerino gli
obblighi a tutela della salute dei propri dipendenti facenti capo
all'imprenditore e solo che si tenga conto della ormai acquisita consapevolezza
della possibilità di pregiudizievoli ricadute sulla salute dei lavoratori,
specialmente se non dotati di piena integrità psico-fisica, scaturenti da
illegittimi provvedimenti datoriali di demansionamento o recesso dal rapporto
di lavoro».
La
(presunta, n.d.r.) estensione
II principio di diritto civile
che la Cassazione ha esteso all'ambito lavoristico- sempre secondo il predetto
quotidiano – sarebbe il seguente
«Solo nel caso in cui sia stata accertata l'effettiva operatività
del nesso causale tra comportamento imputabile al danneggiante e pregiudizio
arrecato rimane esclusa ogni possibilità di graduare in termini percentuali la
responsabilità dell'autore della condotta colposa, essendo quest'ultimo
responsabile per l'intero dei danni cagionati (...). Anche in presenza del
fatto non colposo del danneggiato, prevale l'esigenza che il danneggiato sia
integralmente risarcito del danno che egli non avrebbe comunque subito senza
l'inadempimento o l'illecito (...). II danneggiato che danneggia o concorre a
danneggiare se stesso non compie alcun illecito e non può essere sanzionato
alla stregua dell'autore del danno ingiusto. Nessuna incertezza può permanere
sull'applicabilità dei suddetti principi in materia giuslavoristica».
******
B) - Il precedente (ignorato dai giornalisti):
Cass. sez. lav., 5 novembre 1999, n. 12339 - Pres. Delli Priscoli - Rel. Mercurio -P.M. Mele - Ric. Rasile - Res. Ansaldo
Spa
Rapporto di lavoro - Dirigente - Demansionamento e forzata inattività -
Infarto - Danno biologico - Risarcibilità - Concausa naturale non imputabile -
Irrilevanza.
Il dirigente che, a seguito di demansionamento e forzata inattività, subisca uno stress psicofisico con conseguente infarto, ha diritto al risarcimento del danno biologico, nell'intera misura quantificata; né, a circoscrivere la responsabilità datoriale, rileva l'esistenza di una concausa naturale antecedente (aterosclerosi coronaria genetica), in quanto una comparazione del grado di incidenza di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto fra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non già tra una causa umana imputabile e una concausa naturale non imputabile.
Svolgimento
del processo e motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente, denunziando «violazione dell'art.
112 c.p.c e/o vizio di motivazione in ordine a un punto decisivo della
controversia, con riguardo alle richieste di risarcimento del danno morale e
del danno professionale specifico», lamenta che il Tribunale, incorrendo nello
stesso errore del pretore, abbia erroneamente interpretato in modo restrittivo
la domanda, pronunciando cioè sul solo danno biologico e non invece sulle altre
tipologie di danno (morale e professionale specifico) come pure era stato
specificato dal ricorrente in primo grado nella memoria del 9 febbraio 1995
depositata prima della pronunzia pretorile. Censura quindi la motivazione
dell'impugnata sentenza perché viziata da errori logici e di interpretazione,
atteso che il danno «da malattia» comprende, oltre alla diminuzione
dell'efficienza psico-fisica, anche la diminuita capacità professionale e la
sofferenza morale, e per avere quindi respinto sul punto l'appello di esso
Rasile.
Il motivo è infondato.
Premesso che l'interpretazione della domanda giudiziale costituisce
accertamento di fatto riservato al giudice del merito (cfr. Cass. 9 giugno 1971
n. 1728), -ed espresso nel caso di specie con motivazione congrua e
sufficiente, deve pure escludersi che il Tribunale sia comunque incorso in
vizio di omessa pronunzia e cioè che non abbia deciso sull'intera domanda con
violazione del principio di cui al l'art. 112 c.p.c, così come lamenta il
ricorrente.
E’ invero sufficiente rilevare - essendo in tal caso (di denunzia di
error in procedendo) consentito alla Corte l'esame diretto degli atti
processuali - che nel ricorso introduttivo dei giudizio di primo grado (del
gennaio 1988) il Rasile ha avanzato richiesta di risarcimento del danno (oltre
che patrimoniale per la dequalificazione) «alla salute e alla vita di
relazione» (pagg. 17 e 18 ric. Primo grado) senza alcun cenno, tra l'altro, al
danno morale (cioè al danno di cui agli artt. 2059 c.c. e 185 c.p.); e che
nella stessa memoria richiamata dal ricorrente a sostegno del proprio assunto
(dep. il 10 febbraio 1995) la medesima parte ha indicato tra le domande
proposte nel ricorso introduttivo (oltre a quelle su cui non si controverte
nella presente sede di legittimità) quella, specificata al punto
«d», volta a «risarcirgli il danno alla salute provocato per avergli causato
malattia nervosa e infarto al miocardio con esiti permanenti» (pag. 1), domanda
risarcitoria correttamente ritenuta dal Tribunale come avente a oggetto il solo
danno biologico.
Danno biologico che, infatti, com'è costante insegnamento giurisprudenziale,
è il danno alla salute immanente alla lesione dell'integrità biopsichica della
persona, distinto da ogni danno di natura patrimoniale così come dal danno
morale ex art. 185 c.p. e comprensivo anche del danno alla vita di relazione
(cfr., tra le molte, Cass. 11 maggio 1999 n. 4653; 28 aprile 1999 n. 4231; 13
settembre 1996 n. 8260; 16 aprile 1996 n. 3565).
Le ulteriori e conclusive indicazioni della medesima memoria
(10/2/1995) dove si prospetta pure un danno (patrimoniale e quindi distinto da quello
biologico o morale) alla capacità lavorativa specifica e si deduce altresì che
«a ciò va aggiunto il danno morale», comportano la introduzione, come è
evidente, di ulteriori domande, nuove e inammissibili perché svolte
tardivamente in relazione alle preclusioni poste dal rito del lavoro (cfr.
artt. 414 e segg. c.p.c) e che, come tali, correttamente non sono state prese
in esame dal Tribunale, il quale ne ha pure rilevato la tardività in relazione
alla loro proposizione nell'atto d'appello.
2. Con il secondo motivo il
ricorrente, denunziando «violazione dell'art. 2043 c.c. e 40 e 41 c.p. e dei
principi di diritto in ordine alla irrilevanza delle concause naturali
antecedenti (o degli "antecedenti condizionanti") nella riferibilità
dell'illecito e nella misura del risarcimento», censura la sentenza impugnata
per avere, in adesione alla consulenza tecnica di secondo grado, escluso che il
danno provocato dalla patologia cardiaca fosse imputabile in ragione del 100
per cento al comportamento illegittimo della società Ansaldo, avendo
riconosciuto quale concausa o antecedente condizionante una «aterosclerosi
coronarica» con efficacia causale per due terzi, e per avere in tal modo
violato i principi per i quali, come pure affermato nella giurisprudenza di questa
Corte, una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause
concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani
colpevoli, ma non già tra una causa umana imputabile e una causa naturale non
imputabile. Assume quindi, in base a tali principi, doversi addebitare nella
intera misura alla società Ansaldo la responsabilità del danno biologico (e
quindi in misura tripla rispetto a quella riconosciuta nella specie del
Tribunale) provocato dalla patologia cardiaca.
Questo motivo è fondato e va accolto.
Deve invero anche nel caso
di specie, sul punto della rilevanza causale del comportamento illecito
accertato dal giudice del merito a carico della società datrice di lavoro nella
determinazione del danno cardiaco riscontrato sul Rasile, essere osservato il
criterio, affermato dalla giurisprudenza di questa Corte in tema di concause
dell'evento dannoso (alcune naturali e altre costituite da comportamento umano
imputabile), secondo cui «alla stregua dei principi di cui agli artt. 40 e 41 c.p.,
regolanti il rapporto di causalità in tema di responsabilità extracontrattuale,
solo nel caso in cui le condizioni ambientali e i fattori naturali che
caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile
dell'uomo, si palesano sufficienti a determinare l'evento di danno
indipendentemente dell'apporto del comportamento umano imputabile, l'autore
dell'azione o della omissione resta sollevato per intero da ogni responsabilità
dell'evento, non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto di
efficienza causale, senza 'che in caso contrario la sua piena responsabilità
per tutte le conseguenze scaturenti secondo normalità dall'evento medesimo
possa subire una semplice riduzione proporzionale in ragione della minore gravità
della sua colpa, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica
di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di
comportamenti umani colpevoli, ma non già tra una causa umana imputabile e una
concausa naturale non imputabile» (Cass. 1° febbraio
1991 n. 981; 27 maggio 1995 n. 5924).
Orbene, nel caso di specie il Tribunale non ha dato applicazione a tali
principi allorquando ha individuato, sulla scorta,delle risultanze della
consulenza tecnica d'appello - come già sinteticamente riferito nella parte
narrativa della presente sentenza -, quali cause concorrenti della insorgenza
dell'infarto miocardico, sia lo stress psicologico di origine lavorativa
imputabile a comportamento illecito del datore di lavoro, sia una aterosclerosi
coronarica costituente causa di origine genetica e comunque organica - e quindi
da ritenersi naturale -, distinguendo e quantificando il grado di incidenza
eziologica riferibile a ciascuna di queste due concause e così limitando la
responsabilità dei datore di lavoro al grado di incidenza causale ravvisato nel
suo comportamento.
Così operando il Tribunale è in effetti incorso nella violazione di
legge denunciato con il motivo in esame, dovendo appunto ritenersi che «una
comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può
instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non
già tra una causa umana imputabile e una concausa naturale non imputabile»
(così cit. Cass. n. 981/1991), e sul punto l'impugnata sentenza deve essere
cassata.
3. Con il terzo motivo il
ricorrente, denunziando «vizio di motivazione in ordine alla decorrenza del
risarcimento del danno alla salute», lamenta che il Tribunale, senza alcuna
spiegazione, abbia fatto decorrere il risarcimento dal luglio 1987, laddove era
pacifico che la malattia cardiaca si era manifestato con infarto acuto nel
precedente mese di marzo, cui aveva fatto riferimento il pretore.
Questo motivo è privo di fondamento.
Infatti il Tribunale, contrariamente a quanto assunto in ricorso, ha
motivato e fornito al riguardo adeguata spiegazione indicando il 1° luglio 1987
come la data, accertata dal consulente tecnico d'ufficio, di consolidamento dei
postumi invalidanti (evidentemente sia dell'infarto miocardico che della
malattia nervosa).
4. In conclusione, il ricorso deve essere accolto nel secondo motivo, mentre il primo e il terzo motivo devono essere rigettati. La sentenza dev'essere cassata nella parte oggetto del motivo accolto, e la causa essere rinviata ad altro giudice di pari grado, che si designa nel Tribunale di La Spezia (Sezione lavoro), il qua le procederà a nuovo esame del punto trattato nel secondo motivo di ricorso uniformandosi ai principi di diritto sopra enunciati, e provvederà altresì sulle spese del presente giudizio di legittimità (ex art. 385 ult. co. c.p.c).
C) - Da parte
nostra (nel
volume
“Danni da mobbing e loro risarcibilità”,
Ediesse, Roma 2002, p. 119 e ss.), si ebbe occasione ed accortezza di
evidenziare la significatività dell’affermazione effettuata nella soprariportata
sentenza del 1999, al punto 5 del Cap. III del libro, punto così titolato:
5. Nesso di causalità, prova, quantificazione e
irriducibilità del danno biologico per concause naturali preesistenti
E lo
facemmo con queste considerazioni ed argomentazioni:
(omissis)
«Importante è evidenziare come il fatto illecito datoriale
(demansionamento e forzata inattività, superlavoro, e simili) che determini
danno biologico, assume efficacia esclusiva nell’ induzione del danno alla
salute, anche in presenza di concause naturali genetiche. Sul punto la
Cassazione sezione lavoro – nella sentenza 5 novembre 1999, n. 12339 (1) – ha
recepito il consolidato orientamento in sede civile e penale ed ha affermato
che la quantificazione del danno biologico ascrivibile all’illecito datoriale
non subisce “riduzioni proporzionali” ad opera di concause naturali
preesistenti (nel caso dell’infartuato da demansionamento consistente in
riscontrata aterosclerosi coronaria congenita) ma deve essere in toto (al 100%)
imputata all’inadempimento o fatto ingiusto datoriale, in considerazione del
fatto che «a circoscrivere la responsabilità datoriale non rileva una concausa
naturale antecedente, in quanto una comparazione del grado di incidenza di più
cause concorrenti può instaurarsi soltanto fra una pluralità di comportamenti
umani colpevoli, ma non già tra una causa umana imputabile e una concausa
naturale non imputabile. (Cass. 1 febbraio 1991, n. 981; Cass. 27 maggio 1995,
n. 5924)». Nel caso di specie ha cassato la sentenza del Tribunale che, in
ragione della valutazione in proporzione di un terzo della concausa naturale,
aveva condannato l’azienda ad un danno biologico in ragione dei due terzi
residui, affermando che su di essa invece incombeva la liquidazione del danno
al 100%. La rilevanza della sentenza in esame sta nell’aver importato in
ambiente giuslavoristico il principio della relatività dell’efficienza causale
dei c.d fattori naturali, ben noto alla giurisprudenza civile e penale. In
linea di principio la giurisprudenza civile non esclude che una pluralità di
fatti, di per sé imputabili a più persone, svolgano un’efficacia causativa del
danno, fermo restando che uno solo di essi può assurgere al rango di causa
efficiente esclusiva, qualora, inserendosi nella serie causale quale causa
sopravvenuta, spezzi il nesso eziologico tra l’evento dannoso e gli altri fatti
ovvero releghi effettivamente le altre cause in posizione di «occasioni
estranee» (cfr. Cass. 19 settembre 1996 n. 8348; Cass. 11 febbraio 1988, n.
1473).
Questo principio, definito della equivalenza delle
condizioni, è stato di recente ritenuto dalla giurisprudenza applicabile in
materia di infortuni sul lavoro e le malattie professionali (cfr. Cass. 5
febbraio 1998, n. 1196).
La Cassazione,
pronunziandosi in materia di responsabilità civile, ha ripetutamente affermato
un secondo principio: il confronto fra cause concorrenti, allo scopo di
valutarne il diverso grado di incidenza eziologia, può essere operato solamente
tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli ma non già fra una causa
umana imputabile e una concausa naturale non imputabile (cfr. Cass. 27 maggio
1995 n. 5924; Cass. 1 febbraio 1991, n. 981). La sentenza n. 12339 del 1999 fa
applicazione di tale enunciato, per la prima volta a quanto consta, in una fattispecie
di rapporto di lavoro, con effetti tanto rilevanti quanto condivisibili ai fini
del giudicato: la Corte esclude, infatti, la rilevanza causale della situazione
congenita del lavoratore, addossando per intero all’azienda la responsabilità
(e la relativa quantificazione) del danno biologico prodotto a quest’ultimo
dalla patologia cardiaca».
D)
- Concludendo da quanto si intuisce dalle sintesi giornalistiche – salva la
riserva di un riesame integrativo a sentenza letta – le conclusioni di Cass.
sez. lav. 9 aprile 2003 n. 5539 non avrebbero affatto una carica innovativa (quasi “eversiva”)
ma si porrebbero in una linea di continuità e di coerenza con l’orientamento
inaugurato in ambito giuslavoristico da Cass. 5 novembre 1999 n. 12339.
Roma, 25 aprile 2003
(1) Cass. sez. lav. 5 novembre 1999, n. 12339 può leggersi integralmente in Guida al lavoro 2000, 11, 22 con nota di Ricci, ivi 28 e in Meucci, Danni da Mobbing e loro risarcibilità, Ediesse, Roma 2002, Appendice, p. 515 e ss.
*******
In possesso della sentenza n. 5539 del 9 aprile 2003 della sezione lavoro della Cassazione, essa risulta pienamente confermativa delle considerazioni sopraesposte, ed allineate a Cass. n. 12339/1999 (singolarmente non menzionata dall'estensore Vidiri, che invece invoca sentenze precedenti). Di seguito, per il lettore, ne riportiamo il testo [(mentre annotatori di sponda datoriale non possono fare a meno di stigmatizzare stizziti, in chiose tentativamente di recupero (in cui abbiamo trovato ben più impegnato sulla stessa rivista l'avv. Andrea Stanchi) come: «E' opportuno segnalare come questa prospettiva allarghi in maniera considerevole il campo della responsabilità datoriale, superando i parametri della normale prevedibilità umana», così Pucci (dello Studio Toffoletto e soci) in "Responsabilità totale del datore di lavoro per il danno biologico", in Guida al lavoro n.21 p.14 e ss].
Corte
di cassazione, sezione lavoro, 9 aprile 2003 n. 5539 – Pres. Senese –
Rel. Vidiri – P.M. Napoletano (concl.conf.) - Ric. Monteleone - Res. SDA Express Courier; Transcoop SpA.
Sul tema vedi anche: Meucci - Responsabilità integrali per danni alla salute; inoltre Fattori congeniti predisponenti a patologie non esonerano da responsabilità chi lede il diritto alla salute , nonchè Stress lavorativo, nesso causale, concause e c.t.u. in appello.
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