Troppo rumore per una riaffermazione (di Cass. n. 5539 - 03) di continuità in tema di “irrilevanza delle condizioni genetiche preesistenti” ai fini dell’integrale accollo al danneggiante della responsabilità risarcitoria del danno biologico

 

A) - La stampa del 24 aprile 2003 ha dato ampio risalto – tramite sintesi giornalistiche – ad un presunto nuovo principio della Cassazione che ha ritenuto errato un riparto di responsabilità tra datore di lavoro danneggiante e dipendente danneggiato da illecito datoriale (demansionamento sfociato in depressione), in ragione di un 50% per ciascuno, in presenza di una riscontrata (tramite CTU) predisposizione genetica del danneggiato, suscettibile secondo i giudici di merito di sottrarre il datore di lavoro colpevole di demansionamento  illegittimo ad un 50% di responsabilità.

I giornalisti – non dotati, per estraneità alla materia giuridica, di “memoria storica” – si sono sbracciati nell’affermare l’assoluta novità della statuizione effettuata dalla Cassazione, sez. lav. 9 aprile 2003 n. 5539, la quale ha negato legittimità all’operazione di riparto di responsabilità, statuendo che il comportamento illegittimo del datore di lavoro determina l’integrale responsabilità al 100% (e non una graduazione percentuale della stessa) ai fini del risarcimento del danno biologico indotto, a prescindere dalla presenza di cd. “antecedenti genetici” o “predisponenti” del danneggiato.

Le conclusioni giornalistiche sono assolutamente inesatte o quantomeno superficiali. L’introduzione in campo giuslavoristico di un principio consolidato in ambito civilistico, risalgono per lo meno al 1999, allorchè la Cassazione nella sentenza 5 novembre 1999 n. 12339 (Pres.Delli Priscoli, est.Mercurio) – che si riporta integralmente al punto B) del presente scritto - affermò in ambito giuslavoristico l’assoluta incomparabilità (per intrinseca disomogeneità) tra comportamenti umani colpevoli e situazioni genetiche strutturali incolpevoli, con la conseguenza che il comportamento umano colpevole ed illegittimo (anche in tale fattispecie consistito in demansionamento e forzata inattività)  e determinativo di “infarto miocardico” doveva essere considerato integralmente responsabile dell’evento afflittivo, a prescindere dalla presenza di una situazione psicofisica del danneggiato caratterizzata da una “aterosclerosi coronarica”. Non abbiamo potuto leggere la sentenza n. 5539-03 – da noi richiesta alla Cassazione – ma riteniamo ciononostante di dover effettuare tali precisazioni e puntualizzazioni (basate sulle  informate sintesi giornalistiche) per “smorzare” il carattere tanto “propagandistico” quanto intrinsecamente “fazioso” di quanto prospettato dalla stampa (specie quella Confindustriale), di cui di seguito pubblichiamo un articolo comparso su “Il Sole-24 Ore” del 24 marzo 2003, n. 112, p. 25 e ss. a firma Beatrice Dalia, titolato:

 

«Pieno risarcimento ai dipendenti vittime del “danno biologico”

 

Risarcimento pieno al dipendente depresso un pò per il lavoro, un pò di suo. Se alla condizione di avvilimento dell'individuo contribuiscono anche i motivi di lavoro, l'imprenditore è tenuto ad accollarsi per intero il danno biologico patito dal dipendente.

La vicenda. I giudici di piazza Cavour hanno condannato una società di spedizioni a pagare 180 mila euro a un dipendente caduto in una grave crisi depressiva per essere stato prima dequalificato e poi messo alla porta. Lo svolgimento di mansioni al di sotto della sua competenza lo aveva portato a una pesantissima cura farmacologica e, durante lo stato di malattia, si era visto licenziare.

Il Tribunale non se l'era sentita dì attribuire tutta la responsabilità all'imprenditore, visto che la consulenza tecnica aveva evidenziato una certa predisposizione del soggetto, affetto da una sindrome ansiosa e da obesità. Alla fine è risultato che il danno alla salute, corrispondente a un 50% di invalidità, poteva essere imputato solo per metà a cause lavorative. Quindi, ad avviso dei giudici dì merito, il datore di lavoro doveva risarcire solamente il 50% di quel danno.

Il ragionamento della Corte. La «condivisione» della responsabilità tra dipendente e datore di lavoro, però, non è piaciuta ai giudici di piazza Cavour che hanno richiamato il principio fondamentale in tema di responsabilità civile, ricavabili dagli articoli 40 e 41 del Codice penale. In pratica, quando il danno - vuoi per condizioni ambientali oppure per fattori naturali - avviene indipendentemente dal comportamento «imputabile all'uomo», l'autore dell'azione o dell'omissione resta sollevato per intero da ogni colpa nell'evento; se, invece, quelle condizioni oggettive non possono dar luogo, senza l'apporto umano, al danno, l'autore del comportamento è interamente responsabile di tutte le conseguenze che derivano dall'evento lesivo. Trasportando questi principi al diritto del lavoro, il risultato è un «raddoppio» degli obblighi di tutela per il datore. E ogni perplessità sulla validità di simili ragionamenti in materia giuslavoristica, a parere della Cassazione, «è destinata a disvelare la propria inconsistenza solo che si considerino gli obblighi a tutela della salute dei propri dipendenti facenti capo all'imprenditore e solo che si tenga conto della ormai acquisita consapevolezza della possibilità di pregiudizievoli ricadute sulla salute dei lavoratori, specialmente se non dotati di piena integrità psico-fisica, scaturenti da illegittimi provvedimenti datoriali di demansionamento o recesso dal rapporto di lavoro».

La (presunta, n.d.r.) estensione

II principio di diritto civile che la Cassazione ha esteso all'ambito lavoristico- sempre secondo il predetto quotidiano – sarebbe il seguente

«Solo nel caso in cui sia stata accertata l'effettiva operatività del nesso causale tra comportamento imputabile al danneggiante e pregiudizio arrecato rimane esclusa ogni possibilità di graduare in termini percentuali la responsabilità dell'autore della condotta colposa, essendo quest'ultimo responsabile per l'intero dei danni cagionati (...). Anche in presenza del fatto non colposo del danneggiato, prevale l'esigenza che il danneggiato sia integralmente risarcito del danno che egli non avrebbe comunque subito senza l'inadempimento o l'illecito (...). II danneggiato che danneggia o concorre a danneggiare se stesso non compie alcun illecito e non può essere sanzionato alla stregua dell'autore del danno ingiusto. Nessuna incertezza può permanere sull'applicabilità dei suddetti principi in materia giuslavoristica».

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B) - Il precedente (ignorato dai giornalisti):

Cass. sez. lav., 5 novembre 1999, n. 12339 - Pres. Delli Priscoli - Rel. Mercurio -P.M. Mele - Ric. Rasile - Res. Ansaldo Spa

 

Rapporto di lavoro - Dirigente - Demansionamento e forzata inattività - Infarto - Danno biologico - Risarcibilità - Concausa naturale non imputabile - Irrilevanza.

 

Il dirigente che, a seguito di demansionamento e forzata inattività, subisca uno stress psicofisico con conseguente infarto, ha diritto al risarcimento del danno biologico, nell'intera misura quantificata; né, a circoscrivere la responsabilità datoriale, rileva l'esistenza di una concausa naturale antecedente (aterosclerosi coronaria genetica), in quanto una comparazione del grado di incidenza di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto fra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non già tra una causa umana imputabile e una concausa naturale non imputabile.

 

Svolgimento del processo e motivi della decisione

1. Con il primo motivo il ricorrente, denunziando «violazione dell'art. 112 c.p.c e/o vizio di motivazione in ordine a un punto decisivo della controversia, con riguardo alle richieste di risarcimento del danno morale e del danno professionale specifico», lamenta che il Tribunale, incorrendo nello stesso errore del pretore, abbia erroneamente interpretato in modo restrittivo la domanda, pronunciando cioè sul solo danno biologico e non invece sulle altre tipologie di danno (morale e professionale specifico) come pure era stato specificato dal ricorrente in primo grado nella memoria del 9 febbraio 1995 depositata prima della pronunzia pretorile. Censura quindi la motivazione dell'impugnata sentenza perché viziata da errori logici e di interpretazione, atteso che il danno «da malattia» comprende, oltre alla diminuzione dell'efficienza psico-fisica, anche la diminuita capacità professionale e la sofferenza morale, e per avere quindi respinto sul punto l'appello di esso Rasile.

Il motivo è infondato.

Premesso che l'interpretazione della domanda giudiziale costituisce accertamento di fatto riservato al giudice del merito (cfr. Cass. 9 giugno 1971 n. 1728), -ed espresso nel caso di specie con motivazione congrua e sufficiente, deve pure escludersi che il Tribunale sia comunque incorso in vizio di omessa pronunzia e cioè che non abbia deciso sull'intera domanda con violazione del principio di cui al l'art. 112 c.p.c, così come lamenta il ricorrente.

E’ invero sufficiente rilevare - essendo in tal caso (di denunzia di error in procedendo) consentito alla Corte l'esame diretto degli atti processuali - che nel ricorso introduttivo dei giudizio di primo grado (del gennaio 1988) il Rasile ha avanzato richiesta di risarcimento del danno (oltre che patrimoniale per la dequalificazione) «alla salute e alla vita di relazione» (pagg. 17 e 18 ric. Primo grado) senza alcun cenno, tra l'altro, al danno morale (cioè al danno di cui agli artt. 2059 c.c. e 185 c.p.); e che nella stessa memoria richiamata dal ricorrente a sostegno del proprio assunto (dep. il 10 febbraio 1995) la medesima parte ha indicato tra le domande proposte nel ricorso introduttivo (oltre a quelle su cui non si controverte nella presente sede di legittimità) quella, specificata al punto «d», volta a «risarcirgli il danno alla salute provocato per avergli causato malattia nervosa e infarto al miocardio con esiti permanenti» (pag. 1), domanda risarcitoria correttamente ritenuta dal Tribunale come avente a oggetto il solo danno biologico.

Danno biologico che, infatti, com'è costante insegnamento giurisprudenziale, è il danno alla salute immanente alla lesione dell'integrità biopsichica della persona, distinto da ogni danno di natura patrimoniale così come dal danno morale ex art. 185 c.p. e comprensivo anche del danno alla vita di relazione (cfr., tra le molte, Cass. 11 maggio 1999 n. 4653; 28 aprile 1999 n. 4231; 13 settembre 1996 n. 8260; 16 aprile 1996 n. 3565).

Le ulteriori e conclusive indicazioni della medesima memoria (10/2/1995) dove si prospetta pure un danno (patrimoniale e quindi distinto da quello biologico o morale) alla capacità lavorativa specifica e si deduce altresì che «a ciò va aggiunto il danno morale», comportano la introduzione, come è evidente, di ulteriori domande, nuove e inammissibili perché svolte tardivamente in relazione alle preclusioni poste dal rito del lavoro (cfr. artt. 414 e segg. c.p.c) e che, come tali, correttamente non sono state prese in esame dal Tribunale, il quale ne ha pure rilevato la tardività in relazione alla loro proposizione nell'atto d'appello.

2.    Con il secondo motivo il ricorrente, denunziando «violazione dell'art. 2043 c.c. e 40 e 41 c.p. e dei principi di diritto in ordine alla irrilevanza delle concause naturali antecedenti (o degli "antecedenti condizionanti") nella riferibilità dell'illecito e nella misura del risarcimento», censura la sentenza impugnata per avere, in adesione alla consulenza tecnica di secondo grado, escluso che il danno provocato dalla patologia cardiaca fosse imputabile in ragione del 100 per cento al comportamento illegittimo della società Ansaldo, avendo riconosciuto quale concausa o antecedente condizionante una «aterosclerosi coronarica» con efficacia causale per due terzi, e per avere in tal modo violato i principi per i quali, come pure affermato nella giurisprudenza di questa Corte, una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non già tra una causa umana imputabile e una causa naturale non imputabile. Assume quindi, in base a tali principi, doversi addebitare nella intera misura alla società Ansaldo la responsabilità del danno biologico (e quindi in misura tripla rispetto a quella riconosciuta nella specie del Tribunale) provocato dalla patologia cardiaca.

Questo motivo è fondato e va accolto.

Deve invero anche nel caso di specie, sul punto della rilevanza causale del comportamento illecito accertato dal giudice del merito a carico della società datrice di lavoro nella determinazione del danno cardiaco riscontrato sul Rasile, essere osservato il criterio, affermato dalla giurisprudenza di questa Corte in tema di concause dell'evento dannoso (alcune naturali e altre costituite da comportamento umano imputabile), secondo cui «alla stregua dei principi di cui agli artt. 40 e 41 c.p., regolanti il rapporto di causalità in tema di responsabilità extracontrattuale, solo nel caso in cui le condizioni ambientali e i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile dell'uomo, si palesano sufficienti a determinare l'evento di danno indipendentemente dell'apporto del comportamento umano imputabile, l'autore dell'azione o della omissione resta sollevato per intero da ogni responsabilità dell'evento, non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto di efficienza causale, senza 'che in caso contrario la sua piena responsabilità per tutte le conseguenze scaturenti secondo normalità dall'evento medesimo possa subire una semplice riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non già tra una causa umana imputabile e una concausa naturale non imputabile» (Cass. 1° febbraio 1991 n. 981; 27 maggio 1995 n. 5924).

Orbene, nel caso di specie il Tribunale non ha dato applicazione a tali principi allorquando ha individuato, sulla scorta,delle risultanze della consulenza tecnica d'appello - come già sinteticamente riferito nella parte narrativa della presente sentenza -, quali cause concorrenti della insorgenza dell'infarto miocardico, sia lo stress psicologico di origine lavorativa imputabile a comportamento illecito del datore di lavoro, sia una aterosclerosi coronarica costituente causa di origine genetica e comunque organica - e quindi da ritenersi naturale -, distinguendo e quantificando il grado di incidenza eziologica riferibile a ciascuna di queste due concause e così limitando la responsabilità dei datore di lavoro al grado di incidenza causale ravvisato nel suo comportamento.

Così operando il Tribunale è in effetti incorso nella violazione di legge denunciato con il motivo in esame, dovendo appunto ritenersi che «una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non già tra una causa umana imputabile e una concausa naturale non imputabile» (così cit. Cass. n. 981/1991), e sul punto l'impugnata sentenza deve essere cassata.

3.    Con il terzo motivo il ricorrente, denunziando «vizio di motivazione in ordine alla decorrenza del risarcimento del danno alla salute», lamenta che il Tribunale, senza alcuna spiegazione, abbia fatto decorrere il risarcimento dal luglio 1987, laddove era pacifico che la malattia cardiaca si era manifestato con infarto acuto nel precedente mese di marzo, cui aveva fatto riferimento il pretore.

Questo motivo è privo di fondamento.

Infatti il Tribunale, contrariamente a quanto assunto in ricorso, ha motivato e fornito al riguardo adeguata spiegazione indicando il 1° luglio 1987 come la data, accertata dal consulente tecnico d'ufficio, di consolidamento dei postumi invalidanti (evidentemente sia dell'infarto miocardico che della malattia nervosa).

4.    In conclusione, il ricorso deve essere accolto nel secondo motivo, mentre il primo e il terzo motivo devono essere rigettati. La sentenza dev'essere cassata nella parte oggetto del motivo accolto, e la causa essere rinviata ad altro giudice di pari grado, che si designa nel Tribunale di La Spezia (Sezione lavoro), il qua le procederà a nuovo esame del punto trattato nel secondo motivo di ricorso uniformandosi ai principi di diritto sopra enunciati, e provvederà altresì sulle spese del presente giudizio di legittimità (ex art. 385 ult. co. c.p.c).

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C) - Da parte nostra (nel volume “Danni da mobbing e loro risarcibilità”, Ediesse, Roma 2002, p. 119 e ss.), si ebbe occasione ed accortezza di evidenziare la significatività dell’affermazione effettuata nella soprariportata sentenza del 1999, al punto 5 del Cap. III del libro,  punto così titolato:

5. Nesso di causalità, prova, quantificazione e irriducibilità del danno biologico per concause naturali preesistenti

E lo facemmo con queste considerazioni ed argomentazioni:

(omissis)

«Importante è evidenziare come il fatto illecito datoriale (demansionamento e forzata inattività, superlavoro, e simili) che determini danno biologico, assume efficacia esclusiva nell’ induzione del danno alla salute, anche in presenza di concause naturali genetiche. Sul punto la Cassazione sezione lavoro – nella sentenza 5 novembre 1999, n. 12339 (1) – ha recepito il consolidato orientamento in sede civile e penale ed ha affermato che la quantificazione del danno biologico ascrivibile all’illecito datoriale non subisce “riduzioni proporzionali” ad opera di concause naturali preesistenti (nel caso dell’infartuato da demansionamento consistente in riscontrata aterosclerosi coronaria congenita) ma deve essere in toto (al 100%) imputata all’inadempimento o fatto ingiusto datoriale, in considerazione del fatto che «a circoscrivere la responsabilità datoriale non rileva una concausa naturale antecedente, in quanto una comparazione del grado di incidenza di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto fra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non già tra una causa umana imputabile e una concausa naturale non imputabile. (Cass. 1 febbraio 1991, n. 981; Cass. 27 maggio 1995, n. 5924)». Nel caso di specie ha cassato la sentenza del Tribunale che, in ragione della valutazione in proporzione di un terzo della concausa naturale, aveva condannato l’azienda ad un danno biologico in ragione dei due terzi residui, affermando che su di essa invece incombeva la liquidazione del danno al 100%. La rilevanza della sentenza in esame sta nell’aver importato in ambiente giuslavoristico il principio della relatività dell’efficienza causale dei c.d fattori naturali, ben noto alla giurisprudenza civile e penale. In linea di principio la giurisprudenza civile non esclude che una pluralità di fatti, di per sé imputabili a più persone, svolgano un’efficacia causativa del danno, fermo restando che uno solo di essi può assurgere al rango di causa efficiente esclusiva, qualora, inserendosi nella serie causale quale causa sopravvenuta, spezzi il nesso eziologico tra l’evento dannoso e gli altri fatti ovvero releghi effettivamente le altre cause in posizione di «occasioni estranee» (cfr. Cass. 19 settembre 1996 n. 8348; Cass. 11 febbraio 1988, n. 1473).

Questo principio, definito della equivalenza delle condizioni, è stato di recente ritenuto dalla giurisprudenza applicabile in materia di infortuni sul lavoro e le malattie professionali (cfr. Cass. 5 febbraio 1998, n. 1196).

La Cassazione, pronunziandosi in materia di responsabilità civile, ha ripetutamente affermato un secondo principio: il confronto fra cause concorrenti, allo scopo di valutarne il diverso grado di incidenza eziologia, può essere operato solamente tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli ma non già fra una causa umana imputabile e una concausa naturale non imputabile (cfr. Cass. 27 maggio 1995 n. 5924; Cass. 1 febbraio 1991, n. 981). La sentenza n. 12339 del 1999 fa applicazione di tale enunciato, per la prima volta a quanto consta, in una fattispecie di rapporto di lavoro, con effetti tanto rilevanti quanto condivisibili ai fini del giudicato: la Corte esclude, infatti, la rilevanza causale della situazione congenita del lavoratore, addossando per intero all’azienda la responsabilità (e la relativa quantificazione) del danno biologico prodotto a quest’ultimo dalla patologia cardiaca».

 

D) - Concludendo da quanto si intuisce dalle sintesi giornalistiche – salva la riserva di un riesame integrativo a sentenza letta – le conclusioni di Cass. sez. lav. 9 aprile 2003 n. 5539 non avrebbero affatto una carica innovativa (quasi “eversiva”) ma si porrebbero in una linea di continuità e di coerenza con l’orientamento inaugurato in ambito giuslavoristico da Cass. 5 novembre 1999 n. 12339.

 

Roma, 25 aprile 2003

Mario Meucci

Note

(1) Cass. sez. lav. 5 novembre 1999, n. 12339 può leggersi integralmente in Guida al lavoro 2000, 11, 22 con nota di Ricci, ivi 28 e in Meucci, Danni da Mobbing e loro risarcibilità, Ediesse, Roma 2002, Appendice, p. 515 e ss.

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In possesso della sentenza n. 5539 del 9 aprile 2003 della sezione lavoro della Cassazione, essa risulta pienamente confermativa delle considerazioni sopraesposte, ed allineate a Cass. n. 12339/1999 (singolarmente non menzionata dall'estensore Vidiri, che invece invoca sentenze precedenti).  Di seguito, per il lettore, ne riportiamo il testo [(mentre annotatori di sponda datoriale non possono fare a meno di stigmatizzare stizziti, in chiose tentativamente di recupero (in cui abbiamo trovato ben più impegnato sulla stessa rivista l'avv. Andrea Stanchi) come: «E' opportuno segnalare come questa prospettiva allarghi in maniera considerevole il campo della responsabilità datoriale, superando i parametri della normale prevedibilità umana», così Pucci (dello Studio Toffoletto e soci) in "Responsabilità totale del datore di lavoro per il danno biologico", in Guida al lavoro n.21 p.14 e ss].

 

Corte di cassazione, sezione lavoro, 9 aprile 2003 n. 5539 – Pres. Senese – Rel. Vidiri –  P.M. Napoletano (concl.conf.) - Ric. Monteleone - Res. SDA Express Courier; Transcoop SpA.

Responsabilità civile - Risarcimento del danno -Causalità (nesso di) - Condizioni ambientali e fattori naturali - Sufficienza nella causazione del danno - Responsabilità dell'agente - Esclusione - Fondamento - Concorso tra una causa naturale e una causa umana imputabile - Graduazione della colpa - Esclusione - Fondamento - Fattispecie in materia di responsabilità per danno biologico.
 
In materia di rapporto di causalità della responsabilità extracontrattuale, in base ai principi di cui agli artt. 40 e 41 c. p., qualora le condizioni ambientali od i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile dell'uomo siano sufficienti a determinare l'evento di danno indipendentemente dal comportamento medesimo, l'autore dell'azione o della omissione resta sollevato per intero da ogni responsabilità dell'evento, non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto di efficienza causale; qualora invece quelle condizioni non possano dar luogo, senza l'apporto umano, all'evento di danno, l'autore del comportamento imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità, atteso che in tal caso non può operarsi una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa imputabile ed una concausa naturale non imputabile.
Nessuna incertezza può permanere sull'applicabilità dei suddetti principi in materia giuslavoristica nella quale ogni pure infondata riserva sulla loro validità è destinata a disvelare la propria inconsistenza solo che si considerino gli obblighi a tutela della salute dei propri dipendenti facenti capo sull'imprenditore - di cui è significativa espressione il disposto dell'ari. 2087 c.c. - e solo che si tenga anche conto della ormai acquisita generale consapevolezza della possibilità di pregiudizievoli ricadute sulla salute dei lavoratori, specialmente se non dotati di piena integrità psico-fisica, scaturenti da illegittimi provvedimenti datoriali di demansionamento o di recesso dal rapporto lavorativo.(Nella specie la S.C. ha cassato, senza rinvio e quantificando a carico dell’azienda il danno al 100%, la sentenza d'appello che - avendo accertato che gli illegittimi provvedimenti del datore di lavoro erano responsabili, sul piano eziologico, del 50% del danno biologico, per  sindrome ansioso depressiva,  riscontrato nel lavoratore essendo esso ascrivibile per l'altro 50% ad una predisposizione fisica e a infermità pregresse - aveva posto a carico del datore di lavoro non la totalità dei danni subiti dal lavoratore, bensì solo il 50% di essi).
 
Motivi della decisione
Con il ricorso Rosario Monteleone deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2055, 1227 c.c. nonché degli artt. 40 e 41 c.p. in ordine all'incidenza sull'ammontare del danno risarcibile nel concorso tra causa umana e causa naturale. In particolare sostiene che il Tribunale di Genova ha errato nel dare rilevanza alla concausa naturale nella determinazione del danno risarcibile, disattendendo sul punto l'indirizzo giurisprudenziale dei giudici di legittimità secondo cui non deve essere posta a carico del danneggiato una parte del danno quando la sua verificazione non sia a lui imputabile. Nel caso di specie doveva, pertanto, prescindersi dal fatto che il modo di essere di esso ricorrente (la «predisposizione fisica») avesse avuto una efficacia eziologica, dal punto di vista oggettivo, nella determinazione dell'evento dannoso. In conclusione, sostiene il ricorrente che anche dalla lettera degli articoli 1227 e 2055 c.c. si evince che l'evento della predisposizione fisica del soggetto - rispetto alla patologia insorta per effetto del comportamento illegittimo ed illecito di altro soggetto (datore di lavoro) - pur costituendo un antecedente condizionante o concausa naturale nella produzione dell'evento dannoso, non incide però sulla responsabilità risarcitoria del danneggiante non valendo a ridurla proporzionalmente talché il danneggiante stesso (datore di lavoro) è tenuto a risarcire il danno nel suo intero ammontare.
Il ricorso è fondato e, pertanto, va accolto.
Questa Corte ha più volte affermato che in materia di rapporto di causalità nella responsabilità extracontrattuale, in base ai principi dì cui agli artt. 40 e 41 c.p., qualora le condizioni ambientali od i fattori naturali che caratterizzano la realtà fìsica su cui incide il comportamento imputabile dell'uomo siano sufficienti a determinare l'evento di danno indipendentemente dal comportamento medesimo, l'autore dell'azione o dell'omissione resta sollevato, per intero, da ogni responsabilità dell'evento, non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto di efficienza causale; qualora, invece, quelle condizioni non possano dar luogo, senza l'apporto umano, all'evento di danno, l'autore del comportamento imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità. In tal caso, infatti, non può operarsi una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile (cfr. in tali sensi: Cass. 16 febbraio 2001, n. 2335; Cass. 27 maggio 1995, n. 5924; Cass. 1° febbraio 1991, n. 981). La valutazione di una situazione di concorso tra cause naturali non imputabili e cause umane imputabili può sfociare, così, alternativamente, o in giudizio di responsabilità totale per l'autore della causa umana, o in un giudizio di totale assolvimento da ogni sua responsabilità, a seconda che il giudice ritenga essere rimasto operante, nel primo caso (ai sensi del primo comma dell'art. 41 c.p.) oppure essere venuto meno nel secondo caso (ai sensi del secondo comma dell'art. 41 c.p.) il nesso di causalità tra detta causa umana imputabile e l'evento (cfr. in motivazione in tali sensi: Cass. 1° febbraio 1991, n. 981 cit).
In altri termini solo nel caso in cui sia stata accertata l'effettiva operatività del nesso causale tra comportamento imputabile del danneggiante e pregiudizio arrecato rimane esclusa ogni possibilità di graduare in termini percentuali - con riferimento alla concausa naturale - la responsabilità dell'autore della condotta colposa, essendo quest'ultimo responsabile per l'intero dei danni cagionati. Un siffatto indirizzo - che trova sicuro fondamento normativo sia nel disposto degli artt. 1227 e 2056 c.c. (da cui si evince che in caso di concorso di cause è consentita una riduzione del risarcimento solo in presenza di condotta colposa del creditore) che in quello dell'art. 2055 c.c. (da cui si evince che la graduazione e riduzione della responsabilità non è concepibile neppure in presenza di cause umane, azioni od omissioni imputabili a soggetti diversi dal danneggiato e diversi tra loro, stante il principio della responsabilità solidale il quale non opera soltanto in sede di regresso; cfr. così: Cass. 16 febbraio 2001, n. 2335 cit.; Cass. 1° febbraio 1991, n. 981 cit.) - viene condiviso da autorevole dottrina, la quale precisa che, come per una concausa naturale, anche in presenza del fatto non colposo del danneggiato, prevale l'esigenza che il danneggiato sia integralmente risarcito del danno che egli non avrebbe comunque subito senza l'inadempimento o l'illecito. In quest'ottica ricostruttiva la dottrina aggiunge anche che il danneggiato che «danneggia o concorre a danneggiare se stesso» non compie alcun illecito e non può essere sanzionato alla stregua dell'autore del danno ingiusto.
Nessuna incertezza può permanere sull'applicabilità dei suddetti principi in materia giuslavoristica nella quale ogni pure infondata riserva sulla loro validità è destinata a disvelare la propria inconsistenza solo che si considerino gli obblighi a tutela della salute dei propri dipendenti facenti capo sull'imprenditore - di cui è significativa espressione il disposto dell'ari. 2087 c.c. - e solo che si tenga anche conto della ormai acquisita generale consapevolezza della possibilità di pregiudizievoli ricadute sulla salute dei lavoratori, specialmente se non dotati di piena integrità psico-fisica, scaturenti da illegittimi provvedimenti datoriali di demansionamento o di recesso dal rapporto lavorativo. Corollario di quanto sinora detto è che il Tribunale, dopo avere correttamente riconosciuto, sulla base delle risultanze della consulenza in atti, che gli illegittimi provvedimenti societari (ed in particolar modo il licenziamento) erano responsabili sul piano eziologico della misura del 50% del danno biologico riscontrato nel Monteleone, non ha da tale situazione fatto scaturire le dovute conseguenze. Ed invero il giudice d'appello, in violazione dei principi innanzi enunciati, ha liquidato i danni da corrispondere al lavoratore, escludendo da detto risarcimento la percentuale - cinquanta per cento - di quelli che per la consulenza medico-legale erano eziologicamente ricollegabili ad una predisposizione fisica del Monteleone ed a sue infermità pregresse. Il Tribunale di Genova, sempre alla stregua di quanto innanzi detto, avrebbe dovuto, invece, porre a carico delle società la totalità dei danni cagionati al lavoratore in ragione dell'accertato concorso nella fattispecie in esame tra causa imputabile, appunto, a dette società (provvedimenti di illegittima dequalificazione e, soprattutto, di illegittimo licenziamento) e causa (predisposizione organica e infermità pregresse) non imputabile al lavoratore, destinata come ogni causa naturale a non concorrere nella determinazione dei danni, da addossare nella loro totalità all'autore della condotta imputabile. Alla stregua di quanto sinora detto il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata. Ai sensi dell'alt. 384 c.p.c., non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito, con la condanna della Sda Express Courier (che, come va ribadito, in controricorso ha affermato -senza alcuna contestazione in tutti gli atti difensivi di controparte - di essere di diritto titolare dei rapporti di cui al presente giudizio per conferimento dei propri complessi aziendali da parte della Sda Express Courier a r.l. e Transcoop Spa) al pagamento a favore di Rosario Monteleone di euro 179.985,22 (equivalenti a lire 174.250.000 x 2, stante la responsabilità della società anche per la percentuale, quantificata nel 50% dei danni ricollegabili alle pregresse condizioni psico-fisiche del Monteleone), oltre interessi e rivalutazione monetaria determinati giusta i criteri già fissati dal Tribunale di Genova.
In relazione alle spese dell'intero processo, mentre deve rimanere ferma la statuizione per quelle dei giudizi di merito, in relazione a quelle di questo grado va, invece, disposta la condanna della S.D.A. Express Courier Spa a corrispondere a favore di Rosario Monteleone le spese di questo giudizio di cassazione, liquidate unitamente agli onorari difensivi come in dispositivo,
P.Q.M.
la Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, condanna la Sda Express Courier Spa a corrispondere a Rosario Monteleone la complessiva somma di euro 179.985,22 (centosettantanovemilanovecentoottantacinque/22), oltre interessi e rivalutazione monetaria determinati giusta i criteri fissati dal Tribunale di Genova. Mantiene ferma la statuizione sulle spese dei giudici di merito e condanna la società controricorrente al pagamento a favore del Monteleone delle spese di questo giudizio di cassazione, che liquida in euro 10,00 oltre euro 4.000,00 (quattromila/00) per onorari difensivi.
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Roma 22 maggio 2003

Sul tema vedi anche: Meucci - Responsabilità integrali per danni alla salute; inoltre Fattori congeniti predisponenti a patologie non esonerano da responsabilità chi lede il diritto alla salute , nonchè Stress lavorativo, nesso causale, concause e c.t.u. in appello.

 

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