Danno alla professionalità: necessità di prova, anche presuntiva

 

CASSAZIONE, Sez. lav., 14 maggio 2002, n. 6992 - Pres. Senese – Rel. Roselli - P.M. Raimondi  (concl. conf.) - Caenazzo (avv. Ozzola) c. Rolo Banca 1473 s.p.a. (avv. Visconti, Montuschi).

 

Demansionamento - Diritto del lavoratore alla reintegrazione nelle mansioni superiori – Sussiste - Danno da perdita di professionalità -Necessità di prova, anche per presunzioni.

 

L'art. 2103 c.c. impone due distinti divieti al datore di lavoro, l'inosservanza dei quali comporta il diritto del lavoratore alla reintegrazione: a) il divieto assoluto di adibire il lavoratore a mansioni inferiori a quelle per le quali è stato assunto e b) il divieto di trasferirlo, questo secondo derogabile per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.

Il danno da perdita di professionalità, quale specie del danno patrimoniale, consiste non già nella menomazione della reputazione che produca un danno morale e neppure in una indefinita « lesione della personalità », bensì in una diminuzione delle nozioni teoriche e della capacità pratica o comunque di vantaggi connessi all'esperienza professionale (ad es. la notorietà derivante dall'esibizione di capacità artistiche) conseguenti al mancato esercizio delle mansioni spettanti, per un tempo più o meno prolungato, avendo riguardo non solo alla qualità intrinseca delle attività da esplicare ma anche al grado di autonomia e di discrezionalità nell'esercizio di esse, nonché alla posizione del dipendente nell'organizzazione aziendale (Cass. 14 luglio 1993, n. 7789). Per questa come per qualsiasi altra specie di danno civile il risarcimento spetta quando sia provata non solo l'attività illecita ma anche l'oggettiva consistenza del pregiudizio che da essa derivi, non potendo confondersi il risarcimento con l'inflizione di una sanzione civile, o pena privata, soltanto quest'ultima conseguente automaticamente alla condotta illecita; che solo quando la sussistenza del danno sia in qualsiasi modo provata, anche per presunzioni, e tuttavia non sia dimostrabile il preciso ammontare, il giudice di merito può procedere alla valutazione equitativa ex art. 1226 c.c. (Cass. 12 gennaio 1996, n. 188, 24 aprile 1997, n. 3596).

II prestatore di lavoro, il quale chieda la condanna del datore al risarcimento del danno di qualsiasi specie, compreso quello alla professionalità, subito a causa della lesione del diritto di eseguire la prestazione corrispondente alla qualifica spettante, deve fornire la prova del danno stesso, quale presupposto della valutazione equitativa, non essendo sufficiente la mera potenzialità lesiva del comportamento illecito del datore.

 

Svolgimento del processo e motivi della decisione

 

Ritenuto che con ricorso del 1º febbraio 1997 al Pretore di Milano, Alessandro Caenazzo, dipendente della s.p.a. Rolo Banca, esponeva di essere stato trasferito da Dolo (Venezia) a Milano e di essere stato adibito, in violazione dell’art. 2103 cod. civ., alle mansioni di addetto allo sviluppo, inferiori a quelle di direttore di filiale, già svolte, onde chiedeva la reintegrazione nel precedente posto di lavoro ed il risarcimento del danno;

che, costituitasi la convenuta, il Pretore accoglieva le due domande con decisione del 27 febbraio 1998, riformata però con sentenza del 12 febbraio 1999 dal Tribunale, che assolveva la convenuta dalla domanda, ritenendo che il trasferimento fosse giustificato da ragioni organizzative, ossia dalla necessità di assegnare il Caenazzo a mansioni più adatte alle sue capacità e che egli non aveva provato di aver subito alcun danno risarcibile;

che contro questa sentenza ricorre per cassazione il Caenazzo mentre la s.p.a. Rolo Banca resiste con controricorso, ulteriormente illustrato con memoria.

Considerato che col primo motivo il ricorrente lamenta l’omessa motivazione circa l’inferiorità delle mansioni a lui affidate, di addetto allo sviluppo, rispetto a quelle svolte in precedenza, di direttore di filiale, ossia circa il suo diritto ad essere reintegrato nel posto di lavoro ex art. 2103 cit.;

- che col secondo motivo egli deduce insufficienza e contraddittorietà della motivazione, nella parte in cui la sentenza impugnata ammette la possibilità di dequalificazione ed al tempo stesso rigetta la domanda di reintegrazione;

- che col quarto e quinto motivo egli insiste sostanzialmente sulle dette censure, lamentando che il Tribunale non abbia raffrontato le mansioni successive a quelle precedenti, onde accertarne l’inferiorità;

- che i quattro motivi, da esaminare insieme per l’evidente connessione, sono fondati;

- che l’art. 2103 cod. civ. impone due distinti divieti al datore di lavoro: (a) il divieto assoluto di adibire il lavoratore a mansioni inferiori a quelle per le quali è stato assunto e (b) il divieto di trasferirlo, questo secondo derogabile per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive;

- che l’inosservanza di tali divieti comporta il diritto del lavoratore alla reintegrazione;

- che nel caso di specie, avendo il prestatore di lavoro chiesto l’accertamento della violazione del primo dei due divieti, il Tribunale prima si è espresso in modo dubbioso sul punto decisivo concernente l’assegnazione a mansioni inferiori ("è possibile che dequalificazione vi sia stata" dice la sentenza qui impugnata, diversamente da ciò che afferma in memoria la controricorrente, la quale tenta di supplire alle carenze argomentative della sentenza con proprie osservazioni sul merito della causa), ma ha poi rigettato la domanda di reintegrazione motivando in ordine alle esigenze tecniche, organizzative e produttive addotte dall’imprenditore per giustificare il trasferimento, così confondendo le due proibizioni sopra dette ed omettendo di motivare in ordine alla prima;

- che, cassata la sentenza sul punto, la causa va rinviata ad altro giudice, che si designa nella Corte d’appello di Brescia e che porrà a raffronto le mansioni svolte prima e dopo il trasferimento, e così accerterà se vi sia stata effettiva dequalificazione;

- che col terzo motivo il ricorrente lamenta l’insufficienza di motivazione sul rigetto della domanda di risarcimento del danno, per difetto di prova circa la perdita di capacità professionale da illegittima sottrazione delle funzioni;

- che il motivo non è fondato;

- che dall’assegnazione del prestatore di lavoro a mansioni inferiori a quelle spettanti, illegittima in quanto contraria all’art. 2103 cit., possono derivare a carico del medesimo danni morali, oppure di natura biologica (ad es. un’alterazione dell’equilibrio psicologico) o, ancora, corrispondenti alla perdita di esperienza professionale;

- che nella specie il ricorrente esclude di aver posto "questione alcuna" in materia di danno morale o biologico (pag. 8 del ricorso), ma richiamando la giurisprudenza di questa Corte, lamenta che il Tribunale abbia negato senza congrua motivazione un "’vulnus’ alla reputazione" ed una "diminuzione del patrimonio professionale", sopportati quali conseguenze della dequalificazione;

- che il danno da perdita di professionalità, quale specie del danno patrimoniale, consiste non già nella menomazione della reputazione che produca un danno morale e neppure in una indefinita "lesione della personalità" bensì in una diminuzione delle nozioni teoriche e della capacità pratica o comunque di vantaggi connessi all’esperienza professionale (ad es. la notorietà derivante dall’esibizione di capacità artistiche) conseguenti al mancato esercizio delle mansioni spettanti, per un tempo più o meno prolungato, avendo riguardo non solo alla qualità intrinseca delle attività da esplicare ma anche al grado di autonomia e di discrezionalità nell’esercizio di esse nonché alla posizione del dipendente nell’organizzazione aziendale (Cass. 14 luglio 1993 n. 7789);

che per questa come per qualsiasi altra specie di danno civile il risarcimento spetta quando sia provata non solo l’attività illecita ma anche l’oggettiva consistenza del pregiudizio che da essa derivi, non potendo confondersi il risarcimento con l’inflizione di una sanzione civile, o pena privata, soltanto quest’ultima conseguente automaticamente alla condotta illecita;

- che solo quando la sussistenza del danno sia in qualsiasi modo provata, anche per presunzioni, e tuttavia non sia dimostrabile il preciso ammontare, il giudice di merito può procedere alla valutazione equitativa ex art. 1226 cod. civ. (Cass. 12 gennaio 1996 n. 188, 24 aprile 1997 n. 3596);

che pertanto il prestatore di lavoro, il quale chieda la condanna del datore al risarcimento del danno di qualsiasi specie, subito a causa della lesione del diritto di eseguire la prestazione corrispondente alla qualifica spettante, deve fornire la prova del danno stesso, quale presupposto della valutazione equitativa, non essendo sufficiente la mera potenzialità lesiva del comportamento illecito del datore (Cass. 18 aprile 1996 n. 3686, 4 febbraio 1997 n. 1026, 11 agosto 1998 n. 7905, 2 novembre 2001 n. 13580);

che la contraria tesi, ossia quella della risarcibilità senza alcuna prova del danno, oltre a contrastare con gli artt. 1218, 1223, 2697 cod. civ., non può essere condivisa poiché affida il risarcimento a nozioni estremamente vaghe e foriere di incontrollabile litigiosità;

- che questo collegio non ritiene di poter seguire il precedente costituito dalla sent. 6 novembre 2000 n. 14443, la quale afferma la risarcibilità pur in mancanza della dimostrazione di un effettivo pregiudizio, sul presupposto di un non definito diritto alla libera esplicazione della libertà del lavoratore;

che per la medesima ragione non è condivisibile Cass. 2 gennaio 2002 n. 10, in cui si parla di "libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro" come di bene "con una indubbia dimensione patrimoniale" e di un "valore superiore della professionalità, direttamente collegato a un diritto fondamentale del lavoratore e costituente sostanzialmente un bene a carattere immateriale", tanto bastando a rendere inutile la prova della "effettiva sussistenza di un danno patrimoniale" (è però da notare che nella specie trattavasi di attore radiofonico e televisivo, obbligato a rendere una prestazione giornaliera di cinque o sei ore e tenuto inattivo dall’imprenditore per sedici anni e che dalla sentenza non risulta avere egli invocato la prova presuntiva);

- che resta in ogni caso salva, una volta provata l’assegnazione a mansioni inferiori ossia la violazione dell’art. 2103 cit., la tutela specifica del diritto alla mansione, vale a dire alla reintegrazione;

- che nel caso qui in esame il ricorrente non prospetta alcun concreto elemento nemmeno presuntivo di prova del danno, indebitamente trascurato dai giudici di merito;

- che anzi il Tribunale ha osservato come la prova sia completamente mancata, essendosi limitato l’attore a prospettare ostacoli alla progressione in carriera in maniera vaga e indeterminata e tale giudizio è incensurabile nel giudizio di legittimità;

- che il giudice di rinvio provvederà anche in ordine alle spese processuali;

 

PER QUESTI MOTIVI

 

La Corte accoglie il primo, secondo, quarto e quinto motivo di ricorso e rigetta il terzo; cassa in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte d’appello di Brescia, anche per le spese.

 

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