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Risarcimento danno da
forzata inattività
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Cass., sez.
lav. (ord.), 18 maggio 2012 n. 7963 - Pres. Battimiello - Rel.
Tria - V.M. c. Cotral SpA
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Mansioni -
Forzata inattività - Tutela della persona del lavoratore - Dignità
professionale - Danno non patrimoniale - Fondamento.
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Il lavoratore - cui l'art. 2103 cod. civ. (nel testo sostituito dall'art. 13
della legge 20 maggio 1970. n. 300) riconosce esplicitamente il diritto a
svolgere le mansioni per le quali è stato assunto ovvero equivalenti alle
ultime effettivamente svolte - ha a fortiori il diritto a non essere
lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazione di
compiti, ancorché senza conseguenze sulla retribuzione: e, dunque, non solo
il dovere, ma anche il diritto all'esecuzione della propria prestazione
lavorativa - cui il datore di lavoro ha il correlato obbligo di adibirlo -
costituendo il lavoro non solo un mezzo di guadagno, ma anche un mezzo di
estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino.
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Il comportamento del datore di lavoro che lascia in condizione di inattività
il dipendente non solo viola l'art. 2103 cod. civ., ma è al tempo stesso
lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di
estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell'immagine
e della professionalità del dipendente,
ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche
della qualifica di appartenenza; tale comportamento comporta una lesione di
un bene immateriale per eccellenza, qual è la dignità professionale del
lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e
le proprie capacità nel contesto lavorativo e tale lesione produce
automaticamente un danno (non economico, ma comunque) rilevante sul piano
patrimoniale (per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore),
suscettibile di valutazione e risarcimento anche in via equitativa (Cass. 16
maggio 2006, n. 11430; Cass. 2 gennaio 2002, n. 10).
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In caso di
lesione di un diritto fondamentale della persona, la regola, secondo cui il
risarcimento deve ristorare interamente il danno subito, impone di tenere
conto dell'insieme dei pregiudizi sofferti, ivi compresi quelli
esistenziali, purché sia provata nel giudizio l'autonomia e la distinzione
degli stessi, dovendo il giudice, a tal fine, provvedere all'integrale
riparazione secondo un criterio di personalizzazione del danno, che, escluso
ogni meccanismo semplificato di liquidazione di tipo automatico, tenga
conto, pur nell'ambito di criteri predeterminati, delle condizioni personali
e soggettive del lavoratore e della gravità della lesione e, dunque, delle
particolarità del caso concreto e della reale entità del danno (Cass. 21
aprile 2011, n. 9138).
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Fatto e
diritto
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Ritenuto
che il consigliere designato ha depositato, in data 13 gennaio 2012 la
proposta di definizione, ai sensi dell'art. 380-bis cod. proc. civ., dal
seguente tenore:
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«1.-
La sentenza attualmente impugnata - in parziale accoglimento sia
dell'appello principale della Cotral s.p.a. sia dell'appello incidentale di
V.M.; avverso la sentenza del Tribunale di Roma del 4 febbraio 2003 -
quantifica in euro 6.228,00 la somma spettante a V. a titolo di risarcimento
del danno biologico, condanna il M. a restituire alla società la somma di
euro 22.887,29 e respinge tutte le altre domande proposte dal M.
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2.- La
Corte d'appello di Roma, per quel che qui interessa, precisa che: 1) il
demansionamento risulta ampiamente provato, avendo la prova testimoniale
dimostrato lo stato di inattività del M., a far data dalla sua
reintegrazione nel posto di lavoro avvenuta a novembre 1998; 2) viceversa
non appare specificamente dedotto, né tanto meno provato il danno per il
quale in primo grado la società Cotral, è stata condannala a pagare la somma
di euro 26.000.00, liquidata in via equitativa; 3) infatti, il mancalo
esercizio dell'attività professionale non configura di per sé alcun danno
risarcibile, il quale presuppone che sia data in concreto la prova
dell'avvenuto impoverimento del patrimonio cognitivo teorico-pratico del
lavoratore ovvero della perdita di tangibili occasioni di promozione o di
sviluppo di carriera; A) conseguentemente, la domanda di risarcimento del
danno della professionalità deve essere respinta; 5) analogamente non può
essere accolta la domanda di risarcimento del danno esistenziale, per
mancanza di prove al riguardo; 5) deve, invece, essere accolta la domanda di
risarcimento del danno biologico, nella misura del 5% determinata dal CTU.
da liquidare equitativamente in euro 6.228.00; 6) il M. va quindi
condannato a restituire l'eccedenza di ciò che risulta spettargli rispetto a
quanto ha riscosso in esecuzione della sentenza di primo grado.
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3.- Il
ricorso di M. domanda la cassazione della sentenza per due motivi;
resiste, con controricorso, Cotral s.p.a.
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4.-I motivi
del ricorso principale possono essere cosi sintetizzati:
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1)
violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116 cod. proc. civ. e degli
artt. 1226 e 2103 c.c. (ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ.). nonché omessa,
insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e
decisivo per il giudizio, rappresentato dal riconosciuto demansionamento e
dalla determinazione del conseguente danno (ex art 360, n. 5, cod. pro.
civ.).
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Si
sottolinea che la Corte d'appello, pur avendo considerato ampiamente provato
il demansionamento a partire dalla reintegrazione nel posto di lavoro del
(...) avvenuta nel novembre 1998, ha tuttavia accolto il motivo di appello
della società riguardante l'insussistenza dei presupposti per la condanna al
risarcimento del danno professionale, ritenendo non dedotto né provato tale
danno per il quale, invece, il Tribunale ha condannato la società al
pagamento della somma di euro 26.000,00 in via equitativa.
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Si assume
che tale ultima statuizione - fra l'altro, mal motivata - si ponga in
contraddizione con la precedente.
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2)
Violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 2 Cost., dell'art. 115 cod.
proc. civ., degli art. 2087 e 2727 cod. civ. (ex art. 360, n. 3, cod. proc.
civ.), nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un
fatto controverso e decisivo per il giudizio, rappresentato dal rigetto
della domanda del M. volta ad ottenere il risarcimento del danno
esistenziale e morale (ex art. 360, n. 5. cod. proc. civ.).
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Si
sostiene, quanto al danno esistenziale, che la Corte romana ha completamente
omesso di valutare la violazione dell'identità professionale sul posto di
lavoro subita dal M., unitamente alla compromissione dell'immagine, della
vita di relazione, delle aspettative professionali e politiche e del
risvolto esterno assunto dalla vicenda, tutti elementi risultanti dalla
documentazione in atti e che porterebbero a qualificare il comportamento
della società Cotral, come mobbing e ai quali ha fatto riferimento anche il CTU nella propria relazione.
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I suddetti
rilievi, nella prospettazione del ricorrente, valgono anche per il danno
morale (diverso da quello biologico), che attinge direttamente alla dignità
della persona e che può essere liquidato in via equitativa.
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5.- I
motivi di ricorso - da trattare congiuntamente, data la loro intima
connessione appaiono palesemente fondati.
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In base a
consolidati e condivisi orientamenti di questa Corte:
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a)
il lavoratore - cui l'art.
2103 cod. civ. (nel testo sostituito dall'art. 13 della legge 20 maggio
1970. n. 300) riconosce esplicitamente il diritto a svolgere le mansioni per
le quali è stato assunto ovvero equivalenti alle ultime effettivamente
svolte - ha a foritori il diritto a non essere lasciato in condizioni di
forzata inattività e senza assegnazione di compiti, ancorché senza
conseguenze sulla retribuzione: e, dunque, non solo il dovere, ma anche il
diritto all'esecuzione della propria prestazione lavorativa - cui il datore
di lavoro ha il correlato obbligo di adibirlo - costituendo il lavoro non
solo un mezzo di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della
personalità di ciascun cittadino. La violazione di tale
diritto del lavoratore all'esecuzione della propria prestazione è fonte di
responsabilità risarcitoria per il datore di lavoro; responsabilità che,
peraltro, derivando dall'inadempimento di un'obbligazione, resta pienamente
soggetta alle regole generali in materia di responsabilità contrattuale:
sicché, se essa prescinde da uno specifico intento di declassare o svilire
il lavoratore a mezzo della privazione dei suoi compiti, la responsabilità
stessa deve essere nondimeno esclusa - oltre che nei casi in cui possa
ravvisarsi una causa giustificativa del comportamento del datore di lavoro
connessa all'esercizio di poteri imprenditoriali, garantiti dall'art. 41
Cost. ovvero di poteri disciplinari - anche quando l'inadempimento della
prestazione derivi comunque da causa non imputabile all'obbligato, fermo
restando che, ai sensi dell'art. 1218 cod. civ.. l'onere della prova della
sussistenza delle ipotesi ora indicate grava sul datore di lavoro, in quanto
avente, per questo verso, la veste di debitore, ipotesi che può verificarsi
se il datore di lavoro dimostri che il demansionamento e la privazione delle
funzioni patiti nella specie dal dipendente siano dipesi da fattori
oggettivi estranei alla volontà datoriale e legati alla generale contrazione
delle attività imprenditoriali (Cass. 2 agosto 2006, n. 17564);
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b) infatti,
il lavoratore (cui l'art. 13 della legge n. 300 del 1970 riconosce
esplicitamente il diritto a svolgere le mansioni per le quali è stato
assunto ovvero quelle equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza
diminuzione della retribuzione) ha altresì diritto, a maggior ragione, a non
essere allontanato da ogni mansione, cioè il diritto all'esecuzione della
prestazione lavorativa, cui il datore di lavoro (tradizionalmente creditore
esclusivo della medesima) ha il correlativo obbligo di applicarlo,
restandogli consentita la possibilità di trasferirlo solo per comprovate
ragioni tecniche, organizzative e produttive. La violazione di tale diritto
del lavoratore all'esecuzione della propria prestazione è fonte di
responsabilità risarcitoria del datore di lavoro, salvo che l'inattività del
lavoratore sia riconducibile ad un lecito comportamento del datore di lavoro
medesimo, in quanto giustificata dall'esercizio dei poteri imprenditoriali,
garantiti dall'art. 41 Cost. o dall'esercizio dei poteri disciplinari (Cass.
3 giugno 1995, n. 6265; Cass. 6 marzo 2006. n. 4766); Cass. 16 maggio 2006.
n. 11430):
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c) in
particolare, il
comportamento del datore di lavoro che lascia in condizione di inattività il
dipendente non solo viola l'art. 2103 cod. civ., ma è al tempo stesso lesivo
del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di
estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell'immagine
e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente
mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica
di appartenenza; tale comportamento comporta una lesione di un bene
immateriale per eccellenza, qual è la dignità professionale del lavoratore,
intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie
capacità nel contesto lavorativo e tale lesione produce automaticamente un
danno (non economico, ma comunque) rilevante sul piano patrimoniale (per la
sua attinenza agli interessi personali del lavoratore), suscettibile di
valutazione e risarcimento anche in via equitativa (Cass. 16 maggio 2006, n.
11430; Cass. 2 gennaio 2002, n. 10).
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La Corte
d'appello non si è attenuta ai suddetti principi ove ha escluso
categoricamente che la forzata inattività - conclamata - possa essere di per
sé fonte di danno, facendo riferimento, a supporto di tale statuizione, alla
giurisprudenza di questa Corte riguardante la fattispecie del "demansionamento
professionale" in senso proprio, la quale presuppone l'adibizione del
lavoratore a mansioni inferiori rispetto quelle di appartenenza e, quindi,
comunque lo svolgimento di una attività lavorativa. Si tratta, come è
evidente, di una fattispecie diversa da quella che viene in considerazione
nel presente giudizio, alla quale si applicano regole differenti anche per
quel che riguarda il tipo di prova posta a carico delle parti.
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Quanto si è
detto, ovviamente, non esclude che, ai fini della liquidazione del danno, si
debba tenere presente l'orientamento ormai consolidato - e al quale si
intende dare continuità affermatosi nella giurisprudenza di questa Corte a
partire dalla sentenza delle Sezioni unite 11 novembre 2008, n. 26972, nel
senso di evitare la proliferazione delle voci del danno non patrimoniale.
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In
particolare, per la materia che viene qui in considerazione, va fatta
applicazione del principio secondo cui nella disciplina del rapporto di
lavoro, ove numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata alla
persona del lavoratore con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela
costituzionale (artt. 32 e 37 Cost.). il danno non patrimoniale è
configurabile ogni qualvolta la condotta illecita del datore di lavoro abbia
violato, in modo grave, i diritti della persona del lavoratore,
concretizzando un vulnus ad interessi oggetto di copertura costituzionale;
questi ultimi, non essendo regolati ex unte da norme di legge, per essere
suscettibili di tutela risarcitoria dovranno essere individuati, caso per
caso, dal giudice del merito, il quale, senza duplicare il risarcimento (con
l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici), dovrà discriminare i
meri pregiudizi -concretizzatisi in disagi o lesioni di interessi privi di
qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili - dai danni che
vanno risarciti, mediante una valutazione supportata da una motivazione
congrua, coerente sul piano logico e rispettosa dei principi giuridici
applicabili alla materia, sottratta, come tale, anche quanto alla
quantificazione del danno, a qualsiasi censura in sede di legittimità (vedi,
per tutte: Cass. 12 maggio 2009. n. 10864: Cass. 2 febbraio 2010, n. 2352;
Cass. 21 aprile 2011,n. 9138).
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Va, però,
osservate che, anche in riferimento ai criteri di liquidazione del danno, la
Corte d'appello non si attenuta ai su riportati principi perché ha
aprioristicamente escluso delle voci di danno, sempre muovendo dall'erroneo
presupposto suindicato in merito alla valutazione della forzata inattività
del M.
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In questo
modo la Corte romana non si è conformata ad altro consolidato e condiviso
indirizzo di questa Corte in base al quale, in caso di lesione di un diritto
fondamentale della persona, la regola, secondo cui il risarcimento deve
ristorare interamente il danno subito, impone di tenere conto dell'insieme
dei pregiudizi sofferti, ivi compresi quelli esistenziali, purché sia
provata nel giudizio l'autonomia e la distinzione degli stessi, dovendo il
giudice, a tal fine, provvedere all'integrale riparazione secondo un
criterio di personalizzazione del danno, che, escluso ogni meccanismo
semplificato di liquidazione di tipo automatico, tenga conto, pur
nell'ambito di criteri predeterminati, delle condizioni personali e
soggettive del lavoratore e della gravità della lesione e, dunque, delle
particolarità del caso concreto e della reale entità del danno (Cass. 21
aprile 2011, n. 9138).
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Che,
quindi, il relatore ha proposto la trattazione del ricorso in camera di
consiglio, in applicazione degli artt. 376, 380-bis e 375 cod. proc.
civ. per esservi accolto integralmente, per quanto detto in precedenza».
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Lette le
memorie del ricorrente e della società controricorrente.
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Considerato
che il Collegio condivide la proposta di definizione contenuta nella
relazione ex art. 380-bis cod. proc. civ.; che le osservazioni critiche
contenute nella memoria della società controricorrente non contrastano in
modo efficace le argomentazioni della relazione in quanto non contengono
elementi nuovi e diversi rispetto a quelli prospettati nel ricorso, basati
sull'erroneo presupposto secondo cui la forzata inattività - conclamata -
non possa essere di per sé fonte di danno per il lavoratore che la subisce,
presupposto condiviso anche dalla Corte territoriale; che, pertanto, il
ricorso deve essere accolto e la sentenza impugnata deve essere cassata, con
rinvio, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte
d'appello di Roma, in diversa composizione, che si uniformerà ai principi di
diritto suindicati.
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P.Q.M.
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Accoglie il
ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del
presente giudizio di cassazione, alla Corte d'appello di Roma, in diversa
composizione.
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