Onere della prova  del danno da demansionamento: sul lavoratore

 

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro 4 giugno 2003, n. 8904 - Pres. Ciciretti - Est Picone - P.M. Sorrentino (concl. diff.) - Palese  c. Soc. Ferrovie dello Stato.

 

Categorìe e qualifiche dei lavoratori - Art. 2103 c.c. - Demansionamento professionale del lavoratore - Risarcimento del danno - Criteri - Limiti - Onere della prova in capo al lavoratore - Necessità - Sussiste.

 

Il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, lesione idonea a determinare una dequalifìcazione del dipendente stesso, deve fornire la prova dell'esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una va-lutazione equitativa. Tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella sopraindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, facendo carico al lavoratore che denunzi il danno subito di fornirne la prova in base alla regola generale dell'art. 2697 ex. (Cass., n. 3686 del 1996; Cass, n. 1026 del 1997; Cass., n. 7905 del 1998; Cass., n. 6992 del 2002). L'onere del lavoratore di fornire la prova del danno subito a cagione della dequalificazione professionale è sicuramente indiscutibile ove domandi la riparazione di pregiudizi di natura patrimoniale (danno professionale in senso stretto); ma sussiste anche qualora il pregiudizio è di natura non patrimoniale, allorché si deduca la lesione del diritto alla salute (cd. danno biologico), ovvero del diritto fondamentale all'identità professionale sul luogo di lavoro (cd. danno esistenziale). (Nella specie, la sentenza impugnata, confermata sul punto dalla S.C., aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno per essere stata la dequalificazione fatta genericamente derivare dalla privazione di compiti direttivi, per non essere stati precisati i pregiudizi di ordine patrimoniale ovvero non patrimoniale subiti, e per non essere stati forniti elementi per ritenere che si fosse verifìcata una lesione di natura patrimoniale, non riparata dall'adempimento dell’obbligazione retributiva, ovvero di natura non patrimoniale)

 

Fatto. - II Tribunale di Milano ha giudicato infondato l'appello di Antonio Palese, confermando la sentenza del Pretore della stessa sede, che aveva rigettato la domanda di condanna della datrice di lavoro s.p.a. Ferrovie dello Stato al risarcimento del danno da lesione della professionalità e biologico, arrecatogli per essere stato adibito a compiti lavorativi dequalificati nel periodo 10 ottobre 1993-26 marzo 1996.

Il Tribunale ha rilevato che vi era stato un accertamento giudiziale, con la formazione di giudicato, in ordine all’assegnazione di mansioni dequalificanti nel periodo 12 ottobre 1992-7 gennaio 1993, ma per il periodo successivo il lavoratore non aveva fornito alcuna prova dell'evento lesivo, avendo chiesto l'ammissione di una prova testimoniale su circostanze totalmente generiche, non idonee a dimostrare il carattere dequalificante della mansioni in concreto affidategli; ugualmente non significativa si palesava la documentazione prodotta. Vi era, ha aggiunto il Tribunale, anche un periodo di lavoro coperto dal giudicato, ma della durata di poco più di due mesi, sicché doveva escludersi un'effettiva lesione della professionalità, né vi era prova di danni alla salute o alla vita di relazione.

La cassazione della sentenza è demandata da Antonio Palese con ricorso per quattro motivi, al quale resiste la s.p.a. Ferrovie dello Stato con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

 

Diritto. - Primo motivo di ricorso è la violazione e falsa applicazione dell’art 2909 c.c., nonché l'insufficienza della motivazione, poiché l'accertamento giudiziale dell'assegnazione a mansioni dequalificanti estendeva la sua efficacia fino a quando non fossero comprovati mutamenti della situazione. Secondo motivo è la violazione e falsa applicazione dell'alt. 2697 c.c. ed il vizio di motivazione insufficiente ed illogica, per avere la sentenza impugnata trascurato di considerare che il protrarsi della precedente situazione di assegnazione a mansioni dequalificanti era stato ammesso dall'azienda, mediante il riconoscimento di averlo destinato ad altri compiti solo in data 5 gennaio 1994, ma anche questi compiti erano connotati dalla privazione del ruolo dirigenziale, come comprovato dalla documentazione prodotta.

Terzo motivo di ricorso è la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1175, 1218, 1375, 2103, 2043 c.c, 244 e 421 c.p.c, nonché motivazione omessa e insufficiente, poiché l'azienda aveva ammesso che al Palese erano sottratte le mansioni direttive dal 19 ottobre 1992 al 26 marzo 1996, nonché l'estraneità delle mansioni assegnate al suo patrimonio professionale e comunque, in ordine agli altri fatti rilevanti, non era stata ammessa la prova per testimoni senza valide giustificazioni.

Quarto motivo dì ricorso è la violazione e falsa applicazione degli art. 2 e 41, comma secondo, Cost., dell'art. 1226 c.c. ed il difetto di motivazione, deducendosi che i comportamenti illegittimi del datore di lavoro, lesivi del patrimonio professionale e della dignità del lavoratore, devono essere sanzionati con il risarcimento del danno anche se non è possibile provare il pregiudizio in concreto subito, dovendosi ricorrere alla liquidazione equitativa. La Corte, esaminati unitamente i motivi di ricorso, li giudica infondati perché a sorreggere la statuizione di rigetto della domanda è sufficiente quella parte della motivazione della sentenza impugnata che esclude l'esistenza di qualsiasi prova del pregiudizio subito, con assorbimento di ogni altra questione. Che non sia stata fornita alcuna prova del danno subito in concreto, neppure presuntiva mediante indizi, è confermato dalla tesi sviluppata dal ricorrente con il quarto motivo, tesi che non può essere condivisa. La giurisprudenza della Corte, infatti, ha chiarito da tempo che l’art. 2103 c.c. - norma che sancisce il diritto (contrattuale) del lavoratore all’effettivo svolgimento della propria prestazione professionale, con mansioni inerenti alla qualifica attribuita con l’assunzione o successivamente acquisita, e comunque, in ogni caso, equivalenti alle ultime che abbia effettivamente svolte - discende che la lesione di tale diritto da parte del datore di lavoro costituisce inadempimento contrattuale e determina, oltre all'obbligo di corrispondere le retribuzioni dovute e di adempimento in forma specifica, anche l’obbligo del risarcimento del danno da dequalifìcazione professionale. Tale danno (detto anche danno professionale) può assumere aspetti diversi, potendo consistere sia nel danno patrimoniale derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, ovvero nel pregiudizio subito per perdita di chances, ossia di ulteriori possibilità di guadagno; sia in una lesione del diritto del lavoratore all'integrità fìsica o, più in generale, alla salute, ovvero all’immagine o alla vita di relazione.

Sotto l'ultimo degli aspetti considerati, in particolare viene in considerazione una specie particolare di danno esistenziale, derivante dalla lesione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 1 e 2 della Costituzione (cfr., tra le numerose decisioni Cass. n. 14199 del 2001; Cass., n. 15868 del 2002). Proprio la molteplicità dei pregiudizi che possono derivare dalla violazione dell'art 2103 c.c. ad opera del datore di lavoro, rende indispensabile che il lavoratore specifichi quali di essi ritenga in concreto di aver subito in concreto e fornisca, sia pure a livello di semplici indizi (indizi che possono trarsi anche semplicemente dal complesso delle circostanze del caso concreto, quali la natura, l'entità e la durata del demansionamento: cfr. Cass., n. 14443 del 2000; Cass., n. 13580 del 2001; Cass., n. 10 del 2002; Cass., n. 15868 del 2002, cit.), la prova dei danni subiti.

Ed infatti, con orientamento assolutamente prevalente, la Corte afferma che il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, lesione idonea a determinare una dequalifìcazione del dipendente stesso, deve fornire la prova dell'esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa. Tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella sopraindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, facendo carico al lavoratore che denunzi il danno subito di fornirne la prova in base alla regola generale dell'art. 2697 c.c. (Cass., n. 3686 del 1996; Cass, n. 1026 del 1997; Cass., n. 7905 del 1998; Cass., n. 6992 del 2002). L'onere del lavoratore di fornire la prova del danno subito a cagione della dequalificazione professionale è sicuramente indiscutibile ove domandi la riparazione di pregiudizi di natura patrimoniale (danno professionale in senso stretto); ma sussiste anche qualora il pregiudizio è di natura non patrimoniale, allorché si deduca la lesione del diritto alla salute (cd. danno biologico), ovvero del diritto fondamentale all'identità professionale sul luogo di lavoro (cd. danno esistenziale).

Invero il principio secondo il quale il rimedio del risarcimento del danno deve essere concesso a tutela dei diritti non patrimoniali si è consolidato a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 1984, recante l’interpretazione in senso costituzionalmente orientato dell'art. 2043 c.c., norma che tutela anche e soprattutto i diritti fondamentali della persona, quale il diritto alla salute, ed impone di risarcire il danno per il fatto stesso della lesione, indipendentemente dal verifìcarsi anche di pregiudizi di ordine patrimoniale, in termini di danno emergente o di lucro cessante.

E tuttavia, la stessa Corte Costituzionale ha successivamente chiarito (sentenza n. 372 del 1994) che il danno biologico non è presunto, siccome identificabile col fatto illecito lesivo della salute, giacché, se è indiscutibile che la prova della lesione è, in re ipsa, anche prova dell'esistenza del danno, è pur sempre necessaria la prova ulteriore dell'entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quella indicata dall'alt. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale), alla quale il risarcimento deve essere commisurato. Nella fattispecie, risulta dalla sentenza impugnata che la dequalifìcazione veniva fatta genericamente derivare dal fatto di essere stato privato il Palese dì compiti direttivi; che non erano stati precisati i pregiudizi di ordine patrimoniale, ovvero non patrimoniale, subiti e, comunque nessun elemento era stato fornito per ritenere che si fosse verificata una lesione di natura patrimoniale non riparata dall'adempimento dell'obbligazione retribuiva, ovvero di natura non patrimoniale (lesione dell'integrità fisica o psichica; danno esistenziale prodotto da lesione dell'immagine, dal discredito ecc).

Pertanto, deve ritenersi conforme al diritto il rigetto della domanda di risarcimento domando fondata, in sostanza, sulla sola circostanza di essere stato destinato a compiti lavorativi non equivalenti a quelli da ultimi svolti, (Omissis).

(Torna alla sezione Mobbing)