E’ reato minacciare il dipendente di infliggergli indebite sanzioni disciplinari

 

Cass. pen., IV sez., 6 maggio 2009 n. 19021 – Pres. Calbrese – Rel. Carrozza

 

FATTO E DIRITTO

 

1. - La Corte di Appello di Lecce ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa città, in ordine alla dichiarazione di responsabilità e alla determinazione della pena nei confronti di XXX, in relazione al reato di cui all’art. 612, 2° comma, c.p. In danno di XXX, per avere proferito, all’indirizzo di costei, che stava vietando al primo, alla guida della propria autovettura, il transito in una zona interdetta, la seguente frase: “io sono il tuo capo e devi fare quello che dico io; lunedì ti voglio a rapporto, quella è la macchina, fai la contravvenzione”, -ma in parziale riforma ha rideterminato i danni liquidati in favore della stessa, costituita parte civile, in € 5.00,00.

2.- L’imputato propone ricorso per cassazione, deducendo la nullità della sentenza per violazione, falsa ed errata interpretazione e applicazione dell’art. 612,2° comma c.p., in quanto: a.- la frase attribuita ad esso XXX non era idonea a coartare la libertà psichica della XXX e la sua determinazione; b.- il male minacciato non poteva dipendere da esso stesso, perché egli, come sindaco non era legittimato ad infliggere sanzioni disciplinari; c. - nessuno scopo giusto aveva da perseguire perché egli aveva già percorso la strada in senso vietato e aveva sollecitato la compilazione del verbale; d.- la frase proferita doveva ritenersi una mera manifestazione di un’intenzione priva di attuabilità; e.- la frase era stata pronunciata in uno stato di “ ira sociale” davanti all’arroganza della XXX, animata dalla smania di censurare pubblicamente, anche al di là dello zelo, il sindaco; f.- la minaccia non doveva ritenersi il grave ; g.- l’ipotesi delittuosa poteva ritenersi quella di cui all’art. 650 c.p.

3.- Il ricorso è manifestamente infondato.

I giudici del merito hanno dato conto di come dalle dichiarazioni dei testi escussi risultava che il XXX, nonostante l’impossibilità di transitare nella zona, interdetta al traffico veicolare, peraltro su ordinanza sindacale dello stesso XXX, e il divieto opposto dal vigile XXX, nel rispetto della normativa, avesse pronunciato la frase “io sono il tuo capo, tu devi obbedire ai miei ordini, domani ti voglio nel mio ufficio a rapporto” e subito dopo avesse, con una sgommata, ugualmente proseguito nonostante il divieto di circolazione. Gli stessi giudici del merito hanno di conseguenza legittimamente e con logica evidenziato che il XXX non avesse chiesto una semplice relazione di servizio sui fatti, che peraltro erano a conoscenza dello stesso sindaco, ma avesse voluto intimidire, facendo intravedere la possibilità di azioni disciplinari, il vigile urbano, che aveva cercato soltanto di fare rispettare il divieto, per “non avere ubbidito ai suoi ordini”. E, difatti, la Corte territoriale ha precisato che successivamente come risultava da una testimonianza il XXX aveva chiamato davanti a sé sia la XXX che il Comandante per verificare la possibilità di un’azione disciplinare.

Il fatto che il potere disciplinare spettasse al Segretario comunale non poteva escludere l’intento minaccioso tenuto conto che l’imputato comunque era sempre il capo dell’amministrazione comunale e si trovava in una situazione di superiorità gerarchica rispetto alla parte offesa. Per cui la minaccia era certamente grave , come, peraltro, evidenziato dai giudici del merito, proprio in considerazione della subordinazione gerarchica.

Che il fatto fosse idoneo a incutere timore e turbamento è provato da quanto evidenziato dalia Corte territoriale e cioè che la XXX, nell’occasione, si trovò sconvolta e in lacrime.

La deduzione che il fatto poteva essere riconosciuto come violazione dell’art. 650 c.p., non trova alcuna consistenza, perché il fatto contestato non è l’inosservanza del divieto bensì la minaccia al vigile urbano.

La manifesta infondatezza del ricorso importa che lo stesso va dichiarato inammissibile. Ne consegue anche la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento della somma determinata, per le ragioni di inammissibilità, in euro 500,00 in favore della Cassa delle Ammende, tenuto conto del fatto che non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”(Corte Cost. n. 186/2000).

 

P.Q.M.

 

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 500,00 in favore della Cassa delle Ammende.

 

ROMA 22 gennaio 2009

DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 6 MAGGIO 2009

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