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Asserita (ma non
condivisibile) impraticabilità
dell'azione penale per sanzionare il mobbing
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Cassazione Penale, Sez. IV, 13 gennaio 2011, n. 685 - Pres. Serpico - Rel.
Milo
Mobbing - Assenza di norma
incriminatrice in ambito penale - Impraticabilità - Esperibilità invece
dell'azione risarcitoria civile
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Le
pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e
finalizzate alla sua emarginazione (c.d. mobbing) possono integrare il
delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente nel caso in cui il
rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente o, per rimanere aderenti
alla fattispecie in esame, tra il preposto e il lavoratore soggetto
all'autorità del primo assuma natura para-familiare, in quanto
caratterizzato da relazioni intense e abituali, da consuetudini di vita tra
i detti soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra,
dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che
ricopre la posizione di supremazia (cfr.
Cass. Sez. VI 6/2/2009 n. 26594, che fa
esemplificativamente riferimento al rapporto che lega il collaboratore
domestico alle persone della famiglia presso cui svolge la propria opera o
al rapporto che può intercorrere tra il maestro d'arte e l'apprendista).
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Nulla di ciò è dato riscontrare nella condotta contestata all'imputato, la
quale, per come descritta dalla stessa denunciante, è - in astratto -
riconducibile nel c.d mobbing, la cui nozione evoca appunto una condotta che
si protrae nel tempo con le caratteristiche della persecuzione finalizzata
all'emarginazione del lavoratore.
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Nel nostro codice penale, però, nonostante una delibera del Consiglio
d'Europa del 2000, che vincolava tutti gli Stati membri a dotarsi di una
normativa corrispondente, non v'è traccia di una specifica figura
incriminatrice per contrastare tale pratica persecutoria definita mobbing.
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Sulla base del diritto positivo e dei dati fattuali acquisiti, pertanto, la
via penale non appare praticabile.
FattoDiritto
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1
- Il
Gup del Tribunale di Torino, con sentenza 1/10/2009, dichiarava non luogo a
procedere nei confronti di (...), in ordine al reato di cui all'art. 572
c.p., perché il fatto non sussiste.
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L'accusa specifica mossa all'Imputato, nella qualità di caposquadra del
settore UTE 23 dello stabilimento “M.” della "F. spa", è di avere
sottoposto, tra l’estate 2005 e il giugno 2007, l'operaia (...), che - per
ragioni di salute - era esonerata dallo svolgere determinate mansioni, a
trattamenti umilianti, degradanti e vessatori, imponendole ritmi di lavoro
non sostenibili, rivolgendole frasi offensive e minacciando di trasferirla
in altro stabilimento, ove non avesse eseguito i suoi ordini.
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Il Gup
riteneva che la versione dei fatti fornita dalla persona offesa, affetta da
disturbo psicotico di tipo schizofrenico, che la portava inevitabilmente ad
alterare la realtà, elaborandola soggettivamente in senso persecutorio, non
era attendibile e non trovava riscontro nelle testimonianze rese da altri
lavoratori in servizio presso lo stesso reparto: in particolare, (...) aveva
riferito che la (...) era stata sempre addetta a mansioni compatibili con le
sue condizioni di salute, non si era mai lamentata del comportamento del
caposquadra (...) e che egli stesso non aveva mai sentito quest'ultimo
pronunciare frasi offensive all'indirizzo della prima, né aveva mai
assistito a diverbi tra i medesimi; (...), (...) e (...) non avevano
avallato il racconto della persona offesa e, pur evidenziando il carattere
"rigido", "autoritario" e “non simpatico" del (...), avevano escluso di
avere mal percepito atteggiamenti vessatori di costui in danno della (...);
soltanto l'operaio (...) aveva in parte confermato i contenuti della
denunzia sporta dalla (...), ma tale testimonianza era scarsamente
attendibile, provenendo da soggetto che nutriva, per una pregressa
conflittualità mal superata, sentimenti di astio verso il (...).
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Sottolineava, inoltre, il Gup che, pur a volere allegare attendibilità alla
denunzia della persona offesa e alla testimonianza del (...), la condotta
ascritta all'imputato non risultava essere stata connotata da abitualità,
requisito tipico del reato di maltrattamenti, e, in ogni caso, appariva
essere stata ispirata dalla sola finalità di esigere dagli operai, ivi
compresa la (...), il massimo impegno e la massima precisione sul lavoro.
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2
- Ha proposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore munito di
procura speciale, la persona offesa costituita parte civile e ha lamentato
la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della
motivazione della sentenza sotto più profili: a) il Gup non si era limitato
ad esprimere, in linea con la funzione propria dell'udienza preliminare, una
valutazione prognostica negativa sulla potenzialità espansiva, nel futuro
dibattimento, del quadro probatorio, ma si era avventurato in una
valutazione di merito delle acquisizioni investigative, sconfinando dai suoi
poteri, per accreditare, in modo contraddittorio e parziale, un giudizio di
innocenza dell'imputato; b) s'imponeva il rinvio a giudizio dell'imputato
per le stesse ragioni poste a base dell'ordinanza con la quale il Gip, ex
art. 572 c.p.; c) era stata omessa qualunque doverosa valutazione in ordine
ai possibili sviluppi dibattimentali della prova, con riferimento anche alle
testimonianze di altre persone puntualmente indicate e mai ascoltate; d) la
ritenuta inattendibilità delle dichiarazioni accusatorie da lei rese non era
sorretta da argomenti validi ed era prevalentemente basata su una erronea
lettura delle relazioni medico-legali circa il suo stato psichico; e) si era
omesso qualunque vaglio critico delle testimonianze prese in considerazione,
e ritenute favorevoli all'imputato; f) si era assertivamente tacciato di
inattendibilità il teste (...), il quale aveva riferito circa le aggressioni
verbali subite dalla ricorrente ad opera del (...).
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3
- Il ricorso non è fondato e deve, essere rigettato.
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Rileva
la Corte che la valutazione operata dal Gup con la sentenza di non luogo a
procedere è sostanzialmente incentrata sulla constatazione del difetto delle
condizioni su cui fondare un giudizio prognostico di evoluzione, in senso
favorevole all'accusa, del materiale probatorio raccolto. La ritenuta
inidoneità degli elementi acquisiti a sostenere l'accusa in giudizio è la
risultante di una argomentata e logica valutazione in fatto di tali
elementi, che non si prestano a soluzioni alternative o, per così dire,
"aperte", suscettibili di essere meglio chiarite e definite nel
contraddittorio dibattimentale.
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La
sentenza in verifica, sulla base dello standard probatorio richiesto per
filtrare, al fini del sollecitato rinvio a giudizio, l'ipotesi d'accusa
formulata a carico dell'imputato, perviene alla conclusione della
insussistenza dei presupposti per farsi luogo all'esperimento
dibattimentale, che si rivelerebbe del tutto superfluo, non sussistendo la
ragionevole previsione che la denunciata situazione fattuale, già
chiaramente delineata, possa essere ulteriormente integrata da altri
elementi idonei a legittimare una diversa soluzione.
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Il
principio costituzionale della ragionevole durata del processo impone -
peraltro - anche al Giudice dell'udienza preliminare di evitare, per cosi
dire, "comode scorciatoie" burocratiche, devolvendo superficialmente alla
cognizione del Giudice dibattimentale la valutazione di una determinata
posizione processuale, che può invece essere definita alla luce degli
elementi già a disposizione del Gup.
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Ed
invero, prescindendo dalle riserve avanzate in ordine all'attendibilità
della persona offesa e del teste (...), la sentenza impugnata sottolinea, in
particolare, che la denunciata conflittualità tra il (...) e la (...), pur
determinata - secondo la versione fornita da quest'ultima - da atteggiamenti
sconvenienti del primo, che non di rado si sarebbe rapportato alla seconda
in modo offensivo e mortificante, sarebbe stata espressione di una
caratteriale rigidità ed arroganza del (...) nell’interpretare il proprio
ruolo di caposquadra e non già di una deliberata volontà di imporre
all'operaia sottoposta al suo controllo e alla sua autorità un regime di
vita vessatorio ed intollerabile.
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Non va
sottaciuto, inoltre, che le pratiche persecutorie realizzate ai danni del
lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. mobbing)
possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente
nel caso in cui il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente o, per
rimanere aderenti alla fattispecie in esame, tra il preposto e il lavoratore
soggetto all'autorità del primo assuma natura para-familiare, in quanto
caratterizzato da relazioni intense e abituali, da consuetudini di vita tra
i detti soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra,
dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che
ricopre la posizione di supremazia (cfr.
Cass. Sez. VI 6/2/2009 n. 26594, che fa
esemplificativamente riferimento al rapporto che lega il collaboratore
domestico alle persone della famiglia presso cui svolge la propria opera o
al rapporto che può intercorrere tra il maestro d'arte e l'apprendista).
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Nulla
di ciò è dato riscontrare nella condotta contestata all'imputato, la quale,
per come descritta dalla stessa denunciante, è - in astratto - riconducibile
nel c.d mobbing, la cui nozione evoca appunto una condotta che si protrae
nel tempo con le caratteristiche della persecuzione finalizzata
all'emarginazione del lavoratore.
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Nel
nostro codice penale, però, nonostante una delibera del Consiglio d'Europa
del 2000, che vincolava tutti gli Stati membri a dotarsi di una normativa
corrispondente, non v'è traccia di una specifica figura incriminatrice per
contrastare tale pratica persecutoria definita mobbing.
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Sulla
base del diritto positivo e dei dati fattuali acquisiti, pertanto, la via
penale non appare praticabile.
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E’
certamente percorribile, invece, la strada del procedimento civile,
costituendo il mobbing titolo per il risarcimento del danno eventualmente
patito dal lavoratore in conseguenza di condotte e atteggiamenti persecutori
del datore di lavoro o del preposto. La responsabilità datoriale ha natura
contrattuale ex art. 41; il legittimo esercizio del potere
imprenditoriale, infatti, deve trovare un limite invalicabile
nell'inviolabilità di tali diritti e nella imprescindibile esigenza di
impedire comunque l'insorgenza o l'aggravamento di situazioni patologiche
pregiudizievoli per la salute del lavoratore, assicurando allo stesso
serenità e rispetto nella dinamica del rapporto lavorativo, anche di fronte
a situazioni che impongano l'eventuale esercizio nei suoi confronti del
potere direttivo o addirittura di quello disciplinare.
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Il
mobbing è solo vagamente assimilabile alla previsione di cui all'art. 572
c.p., ma di questa non condivide tout court, quasi per automatismo, tutti
gli elementi tipici.
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4
- Al rigetto del ricorso consegue, di diritto, la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
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Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
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* * * * *
P.S. - La sentenza
dimentica che l'art. 612 bis c.p. (Atti persecutori) - nato per la
sanzionabilità dello stalking - è stato dalla stessa Cassazione penale (cfr.
Cass. 21.12.2010 n. 44803)
considerato, al tempo stesso, norma incriminatrice del mobbing. Esso dispone:
«Salvo
che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi
a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in
modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da
ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto
o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo
stesso ad alterare le proprie abitudini di vita ».
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