Un ipotesi particolare: lo spostamento fra mansioni, assistito da clausola contrattuale di fungibilità, non occasiona demansionamento

 

Cassazione – Sezioni unite civili – 24 novembre 2006, n. 25033- Pres. Carbone – Rel. Amoroso - P.M. Iannelli (concl. conf.) – Ricorrente: Orazi (avv. Galleano, Scarselli) – Controricorrente: Poste Italiane Spa (avv. Fiorillo, De Marinis, Trifirò)

 

Mobilità orizzontale nell’ambito dell’unitaria categoria, prevista da clausola contrattuale e recepita nel contratto individuale all’atto dell’assunzione – Lo spostamento fra le mansioni all'interno dell'area categoriale per “contingenti necessità aziendali” o per “valorizzare la professionalità potenziale collettiva”, non determina dequalificazione.

 

La contrattazione collettiva ‑ se da una parte deve muoversi all’interno, e quindi nel rispetto, della prescrizione posta dal comma 1 dell’articolo 2103 Cc che fa divieto di un’indiscriminata fungibilità di mansioni che esprimano in concreto una diversa professionalità, pur confluendo nella medesima declaratoria contrattuale e quindi pur essendo riconducibili alla matrice comune che connota la qualifica secondo la declaratoria contrattuale ‑ è però autorizzata a porre meccanismi convenzionali di mobilità orizzontale prevedendo, con apposita clausola, la fungibilità funzionale tra esse per sopperire a contingenti esigenze aziendali ovvero per consentire la valorizzazione della professionalità potenziale di tutti i lavoratori inquadrati in quella qualifica senza per questo incorrere nella sanzione di nullità del comma 2 della medesima disposizione.

 

Svolgimento del processo

 

1. Con ricorso ex articolo 414 Cpc, Orazi Rita conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Brescia, quale giudice del lavoro, la società Poste Italiane Spa, sua datrice di lavoro, esponendo:

a) di essere stata assunta dapprima con contratto di formazione e lavoro, in data 12 aprile 1996, e successivamente con contratto a tempo indeterminato in data 10 ottobre 1997, con inquadramento nell’Area operativa;

b) di aver svolto con continuità mansioni di addetta allo sportello;

c) di essere stata assegnata a decorrere dal dicembre del 1998 a mansioni di recapito;

d) che tale assegnazione costituiva un demansionamento rispetto alle mansioni in precedenza svolte, come tale vietato dall’articolo 2103 Cc.

Chiedeva pertanto che, accertata l’illegittimità dell’assegnazione alle mansioni di recapito, la società Poste Italiane fosse condannata alla reintegra nelle mansioni precedentemente svolte nonché al risarcimento del danno da dequalificazione, da liquidarsi in via equitativa.

2. Si costituiva in giudizio la società convenuta resistendo alla domanda della ricorrente, di cui chiedeva il rigetto.

Con sentenza del 10 luglio 2001 il tribunale adito accoglieva parzialmente il ricorso, dichiarando illegittimo il provvedimento di assegnazione della dipendente a mansioni di recapito ed ordinando la reintegrazione della stessa nelle mansioni di addetta allo sportello. Rigettava invece la domanda volta al risarcimento del danno da dequalificazione.

3. Con ricorso in appello, tempestivamente depositato, la società Poste Italiane impugnava la sentenza di primo grado, chiedendone la totale riforma.

L’appellata Orazi proponeva a sua volta appello incidentale avverso la medesima pronuncia nella parte in cui non aveva accolto la domanda risarcitoria.

Con sentenza del 10 ottobre ‑ 29 novembre 2002 la Ca di Brescia, previa riunione dei due giudizi di appello, riformava integralmente la decisone del giudice di primo grado, rigettando il ricorso e compensando tra le parti le spese del giudizio.

In particolare la Corte territoriale ha rilevato che la Orazi è stata assunta per lo svolgimento di mansioni rientranti nell’Area operativa, cui appartenevano sia quelle di sportello che quelle di recapito ed in relazione alle quali la contrattazione collettiva prevedeva, con apposita clausola di fungibilità, l’intercambiabilità delle mansioni; né tale clausola di fungibilità poteva ritenersi contrastante con il disposto dell’articolo 2103 Cc.

4. Avverso questa pronuncia ricorre per cassazione la ricorrente con un unico motivo illustrato anche da successiva memoria.

Resiste con controricorso la società intimata.

La causa è stata rimessa alle Su perché presenta una questione di massima di particolare importanza ex articolo 374, comma 2, Cpc.

 

Motivi della decisione

 

1. Con l’unico motivo di ricorso la ricorrente denuncia da una parte la violazione degli articoli 2103 e 1362 Cc, in connessione con gli articoli 43 e 46 del Ccnl 26 novembre 1994 per i dipendenti delle Poste Italiane, recante la clausola di fungibilità di mansioni equivalenti, e dell’accordo del 23 maggio 1995; menziona poi anche l’accordo territoriale del 20 marzo 1998 sull’alternanza di mansioni equivalenti. Ad avviso della ricorrente la clausola di fungibilità delle mansioni, prevista dalla menzionata contrattazione collettiva, sarebbe invalida stante il carattere assolutamente inderogabile del precetto posto dal comma 1 dell’articolo 2103 Cc. In nessun caso sarebbe possibile alla contrattazione collettiva, perché non consentito dalla citata disposizione, prevedere la mobilità tra mansioni che esprimano una professionalità diversa da quella ormai acquisita dal lavoratore, ancorché rientranti nella medesima qualifica e segnatamente, nella specie, nell’Area operativa.

D’altra parte la ricorrente deduce il vizio di motivazione dell’impugnata sentenza. Sostiene che comunque la Corte d’appello avrebbe errato nel non rilevare la differenza esistente tra le mansioni di sportello, cui la dipendente era stata applicata all’atto dell’assunzione, e le mansioni di recapito, cui la stessa era stata assegnata in un periodo successivo con conseguente illegittima dequalificazione.

2. Il ricorso è infondato.

Deve premettersi che in punto di fatto è pacifico tra le parti che la ricorrente sia stata assunta prima (il 12 aprite 1996) con contratto di formazione e lavoro per l’acquisizione della qualifica di Area operativa prevista dalla vigente (all’epoca) contrattazione collettiva (articolo 43 Ccnl 26 novembre 1994 per i dipendenti delle Poste Italiane) e poi (il 10 ottobre 1997) con contratto definitivo a tempo indeterminato con inquadramento in tale area. La stessa inizialmente è stata assegnata a mansioni di sportello e successivamente (a partire dal 9 dicembre 1998) a mansioni di recapito. Più in particolare la Corte d’appello ha rilevato, in riferimento a tali mansioni assegnatele in successione di tempo, che la ricorrente si era “obbligata con la conclusione del contratto a svolgerle entrambe promiscuamente o in via alternativa” come mansioni di assunzione nella vigenza del Ccnl del 1994. Ed in esecuzione di tale previsione contrattuale all’atto dell’assunzione la ricorrente è stata inizialmente addetta a mansioni di sportello e, dopo alcuni mesi, “è stata inviata a un corso teorico organizzato per tutti i neo assunti con contratto di formazione e lavoro diretto all’insegnamento teorico e all’acquisizione delle nozioni tecniche per l’espletamento sia delle mansioni di sportello che delle mansioni di recapito”; sì da maturare l’esperienza sufficiente per svolgere le une e le altre mansioni. Poi è stata avviata a corsi di approfondimento di una giornata organizzati solo per sportellisti in tirocinio o già assunti definitivamente, infine ‑ dopo che in data 20 marzo 1998 era stato stipulato un accordo sindacale di sede (ossia territoriale) riguardante appunto, per i nuovi assunti, specificamente la fungibilità tra le mansioni di recapito e quelle di sportello ‑ secondo un “meccanismo di scambio automatico” (id est: avvicendamento o turnazione), come riferisce la stessa ricorrente in ricorso ‑ la Orazi è stata assegnata dal 9 dicembre 1998 a mansioni di recapito.

Entrambe queste mansioni rientrano (o meglio, rientravano) nella stessa qualifica, ossia nella declaratoria contrattuale dell’Area operativa. che costituisce una qualifica tout court, seppur di ampio contenuto perché, con una definizione assai generale (articolo 43 Ccnl cit.), è destinata ad accorpare plurime mansioni. Nella specie ‑ si legge nell’impugnata sentenza ‑ il contratto individuale di lavoro era stato stipulato “per l’espletamento in via alternativa, secondo le necessità aziendali, di mansioni diverse e fungibili, appartenenti ad una medesima qualifica professionale”.

La ricorrente però ‑‑ come già indicato ‑ deduce in generale che la clausola di fungibilità delle mansioni, prevista dalla contrattazione collettiva, urta con il precetto inderogabile dell’articolo 2103 Cc; d’altra parte in particolare assume che lo svolgimento delle mansioni di addetta allo sportello esprime una professionalità specifica, diversa e più elevata di quella tipica delle mansioni di recapito e quindi ha lamentato un demansionamento vietato dall’articolo 2103 c.c.; sicché essa pone in sostanza una questione di diritto di carattere generale, cui si riferisce il denunciato vizio di violazione di legge, ed un’altra più specifica, relativa al caso di specie, cui si riferisce essenzialmente il dedotto vizio di motivazione.

3. La prima questione che si pone è se siano compatibili con il disposto dell’articolo 2103 Cc ‑ applicabile, a partire dalla vigenza del primo contratto collettivo (26 novembre 1994), al rapporto di lavoro in questione dopo la sua privatizzazione con l’istituzione dell’ente Poste Italiane, successivamente trasformato in società per azioni (Cassazione, Su, 205/99) ‑ le clausole di fungibilità che in ipotesi la contrattazione collettiva, sia quella nazionale che quella integrativa territoriale, abbia previsto ‑ come in realtà ha previsto quella relativa al rapporto di lavoro dedotto in giudizio ‑ per innestare elementi di flessibilità nella mobilità orizzontale in azienda.

La Corte d’appello, muovendo dal rilievo che sia le mansioni di sportello che quelle di recapito appartengono entrambe all’Area operativa (perché rientranti nella declaratoria contrattuale dell’articolo 43 Ccnl 1994), ha considerato che la contrattazione collettiva dell’epoca (articolo 46 Ccnl cit.) prevedeva la loro “intercambiabilità” (con esclusione solo di quelle tecniche, ipotesi che nella specie non ricorre) “per necessità di servizio”, ponendo in rilievo ‑ come già notato ‑ che la conclusione del contratto individuale di lavoro era stata finalizzata all’espletamento vuoi delle mansioni di recapito vuoi di quelle di sportello, entrambe rientranti tra quelle dell’Area operativa.

Il problema che si pone all’esame delle Su, investite dalla Sezione lavoro con ordinanza 22915/05 per essere questa una questione di massima di particolare importanza ai sensi dell’articolo 374, comma 2, Cpc, è se la “clausola di fungibilità” ‑ così denominata dalla Ca ed espressa dal cit. articolo 46 Ccnl (ma anche, più specificamente, dal citato accordo di sede) ‑ sia compatibile, o meno, con il precetto inderogabile posto dal comma 1 dell’articolo 2103 Cc e quindi se risulti, o no, inficiata dalla sanzione di nullità comminata dal comma 2 di tale disposizione.

4. Orbene la prima considerazione da fare è che il parametro di validità della clausola collettiva di fungibilità è costituito, per quanto rileva in questa causa, dal citato comma 1 dell’articolo 2103 Cc che disciplina lo jus variandi del datore di lavoro nell’assegnazione delle mansioni relative alle qualifiche contrattuali ovvero alle categorie legali. Ed infatti, oltre alle categorie legali contemplate dall’articolo 2095 Cc, cui si raccordano discipline legali specifiche, e nel rispetto delle stesse, la contrattazione collettiva, nell’esercizio della sua autonomia, può prevedere il sistema di classificazione del personale articolandolo in plurime qualifiche secondo l’apprezzamento discrezionale delle parti sociali.

È quindi ben possibile che il contratto collettivo accorpi nella stessa qualifica mansioni diverse che esprimono distinte professionalità; l’articolo 96, comma 2, disp. att. Cc ‑ che opera sullo stesso piano di quello dell’articolo 2103 Cc ‑ contempla espressamente la possibilità che le qualifiche del prestatore di lavoro, nell’ambito di ciascuna categoria legale, possano essere raggruppate per “gradi” secondo l’importanza e l’ordinamento dell’impresa. Nulla esclude che queste professionalità costituiscano lo sbocco di percorsi formativi distinti, in ipotesi anche di livello diverso. L’equivalenza contrattuale sta a significare che la disciplina collettiva che fa riferimento alla qualifica si applica di norma a tutte tali mansioni così accorpate, ancorché espressione di diverse professionalità.

Una volta poi assegnate le mansioni al lavoratore, questo esprime nel loro espletamento una professionalità ormai individualizzata, destinata ad arricchirsi progressivamente con l’esperienza (cfr. articolo 1, comma 1 lettera f) D.Lgs 152/97, che prescrive che il datore di lavoro pubblico e privato è tenuto a fornire al lavoratore, entro trenta giorni dalla data dell’assunzione, l’inquadramento, il livello e la qualifica attribuitigli oppure le caratteristiche o la descrizione sommaria del lavoro).

5. Orbene ‑ prendendo in esame innanzi tutto il comma 1 dell’articolo 2103 Cc, sostituito dall’articolo 13 legge 300/70 (Statuto dei lavoratori), che prevede che il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione ‑ deve considerarsi che si tratta di una speciale norma di protezione del lavoratore per preservarlo dai “danni a quel complesso di capacità e di attitudini che viene definito con il termine professionalità, con conseguente compromissione delle aspettative di miglioramenti all’interno. o all’esterno dell’azienda” (Corte costituzionale 113/04); compromissione costituita appunto dal demansionamento che può ridondare in comportamento discriminatorio. La valenza costituzionale del bene protetto da tale disposizione, in comparazione con altre prerogative del lavoratore di pari rilievo, ha portato recentemente alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’articolo 2751bis, n. 1, Cc, nella parte in cui non munisce del privilegio generale sui mobili il credito del lavoratore subordinato per danni da demansionamento subiti a causa dell’illegittimo comportamento del datore di lavoro (Corte costituzionale 113/04, cit.).

Ma anche in precedenza la Corte costituzionale (108/89) ha posto in rilievo che “per quanto riguarda le mansioni, l’art. 2103 Cc ( ... ) prevede l’obbligo del datore di lavoro di destinare il lavoratore alle mansioni per cui lo ha assunto o a mansioni equivalenti, senza, però, diminuzione di retribuzione, o alla categoria superiore successivamente acquisita”. “Sicché ‑ ha aggiunto la Corte ‑ può affermarsi che nella determinazione delle mansioni e dei conseguenti livelli retributivi, l’autonomia del datore di lavoro, cui spetta l’organizzazione dell’azienda, è fortemente limitata dal potere collettivo, ossia dai contratti collettivi e dai contratti aziendali”.

Quale norma di protezione, l’articolo 2103 Cc regolamenta l’esercizio dello jus variandi da parte del datore di lavoro che vede il lavoratore in una posizione di soggezione conseguente al carattere subordinato del rapporto di lavoro; da ciò la necessità di bilanciare questo potere direttivo con l’approntamento di una garanzia finalizzata da ultimo alla tutela della dignità del lavoratore; cfr. Cassazione, Su, 7755/98, in tema di demansionamento eccezionalmente compatibile con l’articolo 2103 Cc, che ha rimarcato la “necessità di bilanciare la tutela degli interessi, costituzionalmente rilevanti (articolo 4, 32, 36), del prestatore con la libertà di iniziativa economica dell’imprenditore”. Il demansionamento può infatti atteggiarsi a comportamento discriminatorio e ‑ avverte in proposito Corte costituzionale 108/89, appena cit. ‑ “la dignità sociale del lavoratore è tutelata contro discriminazioni che riguardano non solo l’area dei diritti di libertà e l’attività sindacale finalizzata all’obiettivo strumentale dell’autotutela degli interessi collettivi, ma anche l’area dei diritti di libertà finalizzati allo sviluppo della personalità morale e civile del lavoratore”; anche Corte costituzionale 359/03 ‑ con riferimento al mobbing che secondo la (allora impugnata) legge reg. Lazio 16/2002, articolo 2, comma 2, poteva consistere anche nel demansionamento (così ora anche Cassazione, Sezione lavoro, 6326/05) ‑ ha ribadito l’esigenza di “salvaguardare sul luogo di lavoro la dignità ed i diritti fondamentali del lavoratore (articoli 2 e 3, comma 1, della Costituzione)”; altresì cfr. ora il D.Lgs 216/03, che ha dato attuazione alla direttiva comunitaria 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

Analogamente queste Su (Cassazione, Su, 6572/06) hanno affermato che “il danno professionale, che ha contenuto patrimoniale, può verificarsi in diversa guisa, potendo consistere sia nel pregiudizio derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità”. Altresì queste Su (Cassazione, Su, 12699/98) hanno identificato la ratio della norma in esame nell’eliminazione di situazioni di dequalificazione professionale.

In particolare queste Su (Cassazione, Su, 7755/98) hanno precisato ‑ e qui ulteriormente ribadiscono ‑ che le mansioni “equivalenti” alle attuali (articolo 2103 cit.) sono quelle oggettivamente comprese nella stessa area professionale e salariale e che, soggettivamente, esse debbono armonizzarsi con la professionalità già acquisita dal lavoratore nel corso del rapporto, impedendone comunque la dequalificazione o la mortificazione.

Quindi, in sintesi, il baricentro della disposizione in esame (articolo 2103 Cc), nella formulazione introdotta dallo Statuto dei lavoratori (legge 300/70, cit.), è la protezione della professionalità acquisita dal prestatore di lavoro.

6. La violazione della prescrizione del citato comma 1 dell’articolo 2103 Cc è sanzionata dalla nullità di ogni regolamento negoziale o clausola con essa confliggente: il comma 2 di tale disposizione prevede infatti che “ogni patto contrario è nullo”. E costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte (in passato v. Cassazione, Sezione lavoro, 672/87; fino a 12821/02; e con 20983/04, 18719/04, 12251/03, 7606/03, 6614/03, 1494/03) che la nullità dei patti contrari, comminata dal comma 2 dell’articolo 2103 Cc, riguarda anche il contratto collettivo. Ciò del resto si desume in positivo dal dato normativo testuale dell’articolo 40 della cit. legge 300/70, che fa salve le condizioni dei contratti collettivi e degli accordi sindacali solo se più favorevoli ai lavoratori, nonché a contrario da altre disposizioni con cui eccezionalmente il legislatore ha autorizzato la contrattazione collettiva ad introdurre una disciplina in deroga al disposto del comma 1 dell’articolo 2103 Cc; quale l’articolo 4, comma 11, legge 223/91, che stabilisce che “gli accordi sindacali stipulati nel corso delle procedure di cui al presente articolo, che prevedano il riassorbimento totale o parziale dei lavoratori ritenuti eccedenti, possono stabilire, anche in deroga al comma 2 dell’articolo 2103 del Cc, la loro assegnazione a mansioni diverse da quelle svolte”.

In ragione della salvaguardia di questo patrimonio di professionalità, assicurata dall’art. 2103 Cc, il datore di lavoro non può assegnare al lavoratore mansioni diverse da quelle di assunzione ed, in caso di intervenuta mobilità verticale, diverse dalle ultime espletate che compromettano questa professionalità anche se le mansioni svolte e quelle di nuova assegnazione rientrino in ipotesi nella stessa qualifica contrattuale.

Ha più volte affermato la giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis Cassazione 425/06, 7453/05, 7351/05, 6326/05, 19836/04, 16183/04, 14666/04, 5651/04, 4790/04, 4773/04, 2649/04, 18984/03, 13372/03, 13000/03, 9408/03, 6030/03, 2328/03, 14150/02, 12821/02) che la equivalenza tra le nuove mansioni e quelle precedenti ‑ che legittima lo jus variandi del datore di lavoro ‑ deve essere intesa non solo nel senso di pari valore professionale delle mansioni, considerate nella loro oggettività, ma anche come attitudine delle nuove mansioni a consentire la piena utilizzazione o anche l’arricchimento del patrimonio professionale dal lavoratore acquisito nella pregressa fase del rapporto. Ed ha poi precisato la medesima giurisprudenza che il divieto di variazioni in pejus (demansionamento) opera anche quando al lavoratore, nella formale equivalenza delle precedenti e delle nuove mansioni, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori, sicché nell’indagine circa tale equivalenza non é sufficiente il riferimento in astratto al livello di categoria, ma é necessario accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente in modo tale da salvaguardarne il livello professionale acquisito e da garantire lo svolgimento e l’accrescimento delle sue capacità professionali, con le conseguenti possibilità di miglioramento professionale, in una prospettiva dinamica di valorizzazione delle capacità di arricchimento del proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze (cfr. in particolare Cassazione, Sezione lavoro, 14150/02, cit., che ha ribadito tale principio proprio con riferimento ad analoga fattispecie di mutamento di mansioni impiegatizie in mansioni di recapito di una dipendente della società Poste Italiane).

Ed ancora, con riferimento al rapporto di lavoro dei dipendenti della società Poste Italiane, Cassazione, Sezione lavoro, 12821/02 cit., superando il precedente contrario orientamento espresso da Cassazione, Sezione lavoro, 10048/01, ha affermato che “la contrattazione collettiva può prevedere una più dettagliata articolazione di qualifiche e stabilire anche un rapporto di equivalenza di mansioni distinte, ma riconducibili alla stessa qualifica”. Ed aggiunge: “il nuovo contratto collettivo può anche prevedere il reinquadramento in una nuova unica qualifica di lavoratori in precedenza inquadrati in qualifiche distinte, con la conseguente parificazione limitatamente a quella disciplina contrattuale (normativa ed economica) riferita alla nuova qualifica. Ma ciò non implica necessariamente anche che insorga un rapporto di equivalenza tra tutte le mansioni rientranti nella qualifica”.

Anche in passato, con riferimento ad una similare fattispecie di reinquadramento o riclassificazione, costituita dall’inquadramento unico di impiegati ed operai, introdotto dalla contrattazione collettiva dell’epoca, questa Corte (Cassazione, Sezione lavoro, 5098/85) ebbe a precisare che “il passaggio da impiegato ad operaio è in astratto configurabile purché non si trasformi in un mutamento peggiorativo”; ed aggiunse: “in concreto si tratta soltanto quindi di stabilire se la variazione di mansioni provochi un qualsiasi pregiudizio per il lavoratore, e quindi si traduca in un mutamento in pejus delle mansioni”.

L’inderogabilità della disciplina legale in esame si atteggia pertanto anche a limite per la contrattazione collettiva, sicché l’eventuale accorpamento, da parte della contrattazione collettiva, in un’unica categoria (o qualifica, o area) di plurime mansioni, anche di diversa professionalità e livello, rende si applicabile alle stesse la medesima disciplina collettiva che a tale categoria (o qualifica, o area) faccia riferimento (arg. ex articolo 1367 Cc), ma non è di ostacolo all’operatività della disciplina legale di carattere inderogabile, qual è il comma 1 dell’articolo 2103 Cc, che preclude l’ulteriore previsione di un’indiscriminata fungibilità di mansioni per solo fatto di tale accorpamento convenzionale.

Anche tra mansioni appartenenti alla medesima qualifica prevista dalla contrattazione collettiva opera la garanzia dell’articolo 2103 Cc e pertanto il lavoratore addetto a determinate mansioni (che il datore di lavoro è tenuto a comunicargli ex articolo 96 disp. att. Cc nell’esercizio del suo potere conformativo delle iniziali mansioni alla qualifica) non può essere assegnato a mansioni nuove e diverse che compromettano la professionalità raggiunta, ancorché rientranti nella medesima qualifica contrattuale.

7. Così segnato il perimetro della prescrizione del comma 1 dell’articolo 2103 Cc e venendo ora più specificamente alla portata del comma 2, che fa blocco con il primo, deve considerarsi che ‑ secondo la ricostruzione della Corte d’appello ‑ nella specie le parti sociali, nel rispetto dell’articolo 2103 Cc, dopo aver accorpato certe mansioni nell’area operativa (articolo 43 Ccnl del 1994), hanno dettato una speciale regola della mobilità orizzontale nella c.d. clausola di fungibilità, prevista dall’articolo 46 Ccnl in termini articolati, già sopra ricordati, e comunque condizionatamente alla sussistenza di “necessità di servizio”; sicché deve subito disattendersi il rilievo della difesa della ricorrente che deduce essere l’articolo 43 Ccnl cit. in rotta di collisione con l’articolo 2103 Cc per aver previsto una fungibilità indiscriminata all’interno dell’area operativa: se la fungibilità è specificamente disciplinata dall’art. 46, evidentemente la confluenza delle mansioni nell’area operativa dell’articolo 43 vale ad uniformare la disciplina contrattuale delle stesse ‑ ciò che le parti sociali possono legittimamente fare ‑ mentre la clausola di fungibilità risiede nell’articolo 46 cit..

Ed è in riferimento a tale menzionata clausola di fungibilità che occorre chiedersi se la contrattazione collettiva possa prevedere una qualche flessibilità all’interno della qualifica contrattuale compatibile con la rigidità della garanzia dell’articolo 2103 Cc.

Vengono allora in rilievo le sollecitazioni e gli spunti della citata ordinanza del Collegio rimettente che inducono a svolgere delle puntualizzazioni in chiave di adattabilità della garanzia dell’articolo 2103 Cc alle esigenze di maggiore flessibilità che derivano dalla sempre più penetrante integrazione dei sistemi produttivi; puntualizzazioni che però si sviluppano pur sempre in linea di continuità con la giurisprudenza di queste Su che, in una prospettiva allora individuale, ha già riconosciuto una fattispecie che si sottrae alla sanzione di nullità del comma 2 dell’articolo 2103 Cc, affermando che “il divieto di adibire il lavoratore a mansioni inferiori, posto dall’articolo 2103 Cc nell’interesse esclusivo del medesimo, non opera quando egli chieda o accetti il mutamento in peggio al fine di evitare il licenziamento, comunque giustificato” (Cassazione, Su, 7755/98).

Anche nella prospettiva collettiva può ora ritagliarsi una fattispecie che parimenti si sottrae a tale sanzione di nullità.

Da una parte può considerarsi che la dimensione individuale della garanzia dell’articolo 2103 Cc riguarda essenzialmente il rapporto datore di lavoro‑lavoratore ed è ispirato ad un favor lavoratoris, laddove la dimensione collettiva può vedere, in una prospettiva diversa e più generale, il bilanciamento della sommatoria di tali garanzie individuali con le esigenze dell’impresa. L’equilibrio che le parti sociali possono trovare può tradursi in una clausola di fungibilità compatibile con l’articolo 2103 Cc. In altre parole la contrattazione collettiva, nel collocare plurime e diverse mansioni nella stessa qualifica sicché il lavoratore inquadrato in quella qualifica è idoneo, e sa di poter essere chiamato a svolgere, mansioni diverse, in ipotesi anche di livello diverso, può disciplinare un meccanismo di fungibilità tra le mansioni di prima assegnazione e quelle successive che tenga conto delle esigenze aziendali in una necessaria prospettiva di temporaneità. È quindi legittima una clausola che per contingenti esigenze aziendali (il riferimento è alle “necessità di servizio” dell’articolo 46 Ccnl cit.) consenta al datore di lavoro l’esercizio dello jus variandi indirizzando il lavoratore verso altre mansioni contrattualmente equivalenti.

Parimenti, sempre considerando la dimensione collettiva, le parti sociali possono farsi carico di un’esigenza “collettiva” di estrinsecazione della professionalità dei lavoratori inquadrati nella medesima qualifica. La dimensione individuale della garanzia dell’articolo 2103 Cc crea degli steccati che certamente valgono a protezione del lavoratore nei confronti di un indiscriminato jus variandi del datore di lavoro; ma possono rappresentare anche un attrito di resistenza alla progressione professionale della collettività dei lavoratori inquadrati in quella stessa qualifica. Se ‑ per rimanere al caso di specie ‑ gli impiegati di sportello, pur essendo stati assunti anche per mansioni di recapito, hanno maturato un’esperienza professionale specifica ed intangibile, ben difficilmente i dipendenti con mansioni di recapito, pur essendo stati assunti (al pari dei primi) anche per mansioni di impiegati di sportello, potranno maturare l’esperienza professionale di queste mansioni. Ed allora, se ‑ come deve ritenersi ‑ rileva non solo quello che il lavoratore fa, ma anche quello che sa fare (ossia la professionalità potenziale), la contrattazione collettiva può legittimamente farsi carico di ciò prevedendo e disciplinando meccanismi di scambio o di avvicendamento o di rotazione (come il menzionato accordo integrativo del 20 marzo 1998) che non violano la garanzia dell’articolo 2103 Cc, ma che con quest’ultima sono compatibili.

Analogamente la contrattazione collettiva può prevedere percorsi formativi per creare questa professionalità potenziale e disciplinare il passaggio del prestatore, allorché tale professionalità abbia acquisito, verso queste nuove mansioni.

In tal modo può portarsi ad ulteriori sviluppi la giurisprudenza sulle mansioni promiscue e vicarie: come la contrattazione collettiva può prevedere che le mansioni corrispondenti alla qualifica di appartenenza siano costituite dallo svolgimento (promiscuo, appunto) di plurime attività diverse, talune anche con carattere di prevalenza rispetto ad altre (Cassazione, Sezione lavoro, 1987/04; 16461/03), ovvero che le mansioni assegnate comprendano eventualmente anche attività vicarie di diverso livello (Cassazione, Sezione lavoro, 9141/04; 14738/99), analogamente la stessa contrattazione collettiva può introdurre clausole di fungibilità che, verificandosi specifici presupposti di fatto, consentano una mobilità orizzontale tra le mansioni svolte e quelle, pur diverse, rispetto alle quali sussiste un’originaria idoneità del prestatore a svolgerle secondo un criterio di professionalità potenziale per ciò che il lavoratore sa fare, anche se attualmente non fa.

In sintesi, ed in conclusione, va affermato, come principio di diritto, che la contrattazione collettiva ‑ se da una parte deve muoversi all’interno, e quindi nel rispetto, della prescrizione posta dal comma 1 dell’articolo 2103 Cc che fa divieto di un’indiscriminata fungibilità di mansioni che esprimano in concreto una diversa professionalità, pur confluendo nella medesima declaratoria contrattuale e quindi pur essendo riconducibili alla matrice comune che connota la qualifica secondo la declaratoria contrattuale ‑ è però autorizzata a porre meccanismi convenzionali di mobilità orizzontale prevedendo, con apposita clausola, la fungibilità funzionale tra esse per sopperire a contingenti esigenze aziendali ovvero per consentire la valorizzazione della professionalità potenziale di tutti i lavoratori inquadrati in quella qualifica senza per questo incorrere nella sanzione di nullità del comma 2 della medesima disposizione.

Correttamente quindi la Corte d’appello ha ritenuto la legittimità della “clausola di fungibilità” espressa dall’articolo 46 Ccnl cit., che appunto prevede (anzi prevedeva) l’intercambiabialità delle mansioni, con esclusione delle mansioni tecniche, all’interno della stessa area operativa (e di quella di base) sul verificato presupposto della ricorrenza delle “necessità di servizio”, la cui sussistenza nella specie non risulta contestata, se non in termini assolutamente generici, dalla ricorrente.

Pertanto ‑ quanto alla prima questione posta sopra sub 2 ‑ devono ritenersi non fondate, per le ragioni finora argomentate, le doglianze della ricorrente che ha dedotto in radice l’illegittimità di tale clausola di fungibilità per violazione dell’articolo 2103 Cc.

8. Né può accogliersi la censura di vizio di motivazione dell’impugnata sentenza (è la seconda questione sopra posta sub 2); vizio che la difesa della ricorrente, dopo aver dedotto in generale la nullità della clausola di fungibilità, denuncia in particolare con una prospettiva calata nel caso di specie sostenendo ulteriormente che le mansioni di recapito non sarebbero equivalenti a quelle di sportello.

Deve infatti considerarsi che è si vero che la clausola di fungibilità prevista dalla contrattazione collettiva, di cui si è appena predicata la piena compatibilità con il disposto dell’articolo 2103 Cc, opera tra mansioni che possono esprimere una diversa professionalità, ma che sono pur sempre equivalenti, ossia ‑ come appena precisato ‑riconducibili alla matrice comune che connota la qualifica secondo la declaratoria contrattuale. Però deve rilevarsi nella specie che, anche se nella formale intestazione del motivo di ricorso è altresì denunciato il vizio di motivazione, in realtà non è dedotta, se non in termini generici, alcuna intrinseca contraddizione della pronuncia della Corte d’appello; la quale ha operato una valutazione in fatto pervenendo al convincimento che ‑ come si legge nella pronuncia impugnata – “la descrizione delle mansioni di sportello e di recapito contenuta negli scritti difensivi ( ... ) rende palese che sul piano dell’autonomia organizzativa ed operativa si tratta di mansioni equivalenti”. Quindi la Ca, con una motivazione sufficiente seppur sintetica, non si è sottratta alla verifica in concreto dell’equivalenza delle mansioni secondo un apprezzamento di fatto devoluto al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità ove immune da contraddittorietà o illogicità intrinseche.

Deve infatti ribadirsi (cfr. ex plurimis Cassazione, Sezione lavoro, 425/06) che, ai fini della verifica del legittimo esercizio dello ius variandi da parte del datore di lavoro, il giudice di merito ‑ con giudizio di fatto incensurabile con ricorso per cassazione ove adeguatamente motivato ‑ deve valutare la omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza in concreto rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal dipendente.

Del resto la Corte territoriale ‑ che ha ritenuto superfluo approfondire l’esame comparativo delle mansioni di sportellista e di addetto al recapito, “essendosi la lavoratrice obbligata con la conclusione del contratto a svolgerle entrambe promiscuamente o in via alternativa” come mansioni di assunzione nella vigenza del Ccnl del 1994 ‑ non ha mancato di rilevare che all’assunzione la ricorrente è stata addetta a mansioni di sportello e, dopo alcuni mesi, è stata avviata a un corso di formazione per l’espletamento sia delle mansioni di sportello che delle mansioni di recapito; ed ha poi considerato il successivo percorso formativo della Orazi (sopra descritto sub 2). Questa sequenza temporale indicata dalla Corte territoriale mostra un processo di progressivo ‑ ed iniziale ‑ addestramento diretto ad entrambe le mansioni dedotte nel contratto individuale di lavoro sicché l’alternatività delle stesse poteva considerarsi non ancora risolta nell’individuazione delle une piuttosto che delle altre e, in questa situazione contingente e particolare, le mansioni di riferimento per verificare l’osservanza dell’articolo 2103 Cc erano ancora quelle “iniziali”, ossia quelle alternativamente dedotte nel contratto di lavoro che in astratto il contratto collettivo inquadrava nella stessa area (quella operativa) e di cui in concreto la Corte territoriale ‑pur mediante il solo raffronto della loro descrizione contenuta negli scritti difensivi ‑ ha verificato l’equivalenza.

9. Il ricorso va quindi rigettato sotto entrambi i profili (della violazione di legge e del vizio di motivazione) in cui è articolato il suo unico motivo.

Sussistono giustificati motivi ‑ tra cui la novità di alcuni profili sopra trattati – per compensare tra le parti le spese di questo giudizio di cassazione.

 

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese di questo giudizio.

 

*******

 Nota

 

La clausola di fungibilità blocca il demansionamento

 

Più spazio alla contrattazione collettiva sulle mansioni del lavoratore. Affidargli compiti meno “nobili” non è demansionamento se, nell’ambito della stessa qualifica professionale, l’accordo sindacale ha previsto una clausola di fungibilità, con la possibilità di affidare al dipendente compiti diversi.

È quanto affermato dalle Sezioni unite civili della Cassazione che, con la sentenza 25033/06 del 24 novembre leggibile tra gli allegati, hanno deciso su una questione che la stessa sezione lavoro non ha esitato a definire «di massima importanza». Il rinvio al Collegio esteso è stato dunque giustificato non da un contrasto ma dalla delicatezza del problema. Ecco la soluzione secondo i giudici di legittimità. «La contrattazione collettiva», si legge nelle motivazioni, «se da una parte deve muoversi all’interno, e quindi nel rispetto, della prescrizione posta dal primo comma dell’articolo 2103 del Cc che fa divieto di un’indiscriminata fungibilità di mansioni che esprimano in concreto una diversa professionalità, pur confluendo nella medesima declaratoria contrattuale e quindi pur essendo riconducibili alla matrice comune che connota la qualifica secondo la declaratoria contrattuale – è però autorizzata a porre meccanismi convenzionali di mobilità orizzontale prevedendo, con apposita clausola, la fungibilità funzionale tra esse per sopperire a contingenti esigenze aziendali ovvero per consentire la valorizzazione della professionalità potenziale di tutti i lavoratori inquadrati in quella qualifica senza per questo incorrere nella sanzione di nullità del secondo comma della medesima disposizione».

Fondandosi su questo nuovo principio le Sezioni unite hanno respinto il ricorso di una lavoratrice che era stata assunta alle poste con le mansioni di sportello e poi era stata affidata a quelle di recapito. Secondo un accordo sindacale, precedentemente sottoscritto, le due funzioni appartenevano alla stessa qualifica e cioè all’area operativa. Ma la dipendente non è stata d’accordo e ha fatto ricorso al giudice del lavoro chiedendo di tornare allo sportello e, allo stesso tempo, il risarcimento del danno da demansionamento. Il primo giudice aveva parzialmente accolto la sua richiesta. La Corte d’appello, invece, aveva riformato la prima decisione rilevando che la donna «era stata assunta per lo svolgimento di mansioni rientranti nell’area operativa cui appartenevano sia quelle di sportello che quelle di recapito». Contro questa decisione la lavoratrice ha proposto ricorso in Cassazione. «È infondato», ha risposto il Collegio esteso. La Corte territoriale, insomma, ha fatto bene a ritenere legittima la clausola di fungibilità contenuta nel contratto collettivo. E infatti le parti sociali non hanno fatto altro che accorpare alcune mansioni dell’area operativa, sempre nel rispetto dell’articolo 2103 Cc che fa espresso divieto al datore di lavoro di demansionare un dipendente. Cioè, «hanno dettato una speciale regola della mobilità orizzontale nella cosiddetta clausola di fungibilità, in relazione a specifiche necessità di servizio».

 

(deb.alb.)

 

(D&G, quotidiano del 28/11/2006)

 

LA FUNGIBILITÀ DELLE MANSIONI ASSEGNATE AL LAVORATORE

 

Dalla formulazione dell'art. 2103 c. c., sappiamo che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto ovvero a quelle corrispondenti alla categoria professionale superiore che abbia successivamente acquisito o a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Ogni patto contrario a detta disposizione è da intendersi nullo. Sappiamo anche che il medesimo divieto opera anche in caso di assegnazione a mansioni formalmente ricomprese nel livello (o qualifica) di appartenenza del lavoratore, ma sostanzialmente inferiori, in quanto non confacenti alla specifica competenza del medesimo ovvero comportanti pregiudizi alla progressione gerarchica del lavoratore stesso.

Sulla scorta di quanto chiarito dalla dottrina, la disposizione contenuta nell'art. 2113 ce. è tesa a stabilire il ed. principio di contrattualità delle mansioni e della qualifica (entrambe determinatesi sulla scorta delle sottostanti intese raggiunte dalle parti); da qui, pertanto, l'impossibilità di una modifica unilaterale del rapporto di lavoro in precedenza stabilito dal datore di lavoro.

 

La ratio della norma codicistica

A ben vedere, quindi, la rigidità imposta dall'art. 2103 c.c. ha la propria ratio nella evidente scelta del legislatore di prevedere, a favore del lavoratore, la garanzia che il proprio datore di lavoro, nell'esercizio del suo potere di ius variandi, non possa unilateralmente decidere su una diversa assegnazione lavorativa. Previsione questa che, formalmente rigida, è per certi versi derogabile, specie in presenza di particolari situazioni che:

- in via soggettiva, possono riguardare il lavoratore;

- in via oggettiva, riguardano l'azienda.

Per ritenere pertanto lecita la variazione delle mansioni originariamente assegnate al lavoratore, è necessario rispettare l'elemento della professionalità, da intendersi la stessa quale correlazione alle  mansioni  alle quali  il prestatore  era  precedentemente adibito. La dequalificazione del lavoratore, specie se concordata con il medesimo (attraverso il ed. accordo di demansionamento),  potrebbe  invece essere ammessa in presenza di quelle situazioni che, in questi termini, consentono il mantenimento occupazionale.

 

Assegnazione a mansioni diverse ma fungibili

Con la Sent. 24 novembre 2006, n. 25033, le Sezioni unite della Suprema Corte, sono tornate ad affrontare il tema del'assegnazione del lavoratore a compiti diversi, ma pur sempre fungibili. All'origine del giudizio di legittimità in esame vi era un ricorso presentato da una lavoratrice che aveva convenuto in giudizio il proprio datore di lavoro (nella specie, le Poste Italiane S.p.A.) lamentando che:

- dopo essere stata assunta con contratto di formazione e lavoro, trasformato in un contratto a tempo indeterminato, con inquadramento nella ed. area operativa, aveva svolto, con continuità, mansioni di addetta allo sportello;

- era stata poi assegnata a mansioni di recapito, assegnazione questa che aveva costituito un demansionamento, ex art. 2103 c.c., rispetto alle mansioni precedentemente svolte.

Da qui pertanto la richiesta (al giudice del lavoro adito) di accertare l'illegittima assegnazione a diverse mansioni, con contestuale condanna alla reintegrazione nelle mansioni precedentemente svolte, nonché al risarcimento del danno da dequalificazione. Il giudice del lavoro di Brescia, nell'accogliere parzialmente il ricorso, dichiarava l'illegittimità dell'assegnazione alle seconde mansioni (addetta allo sportello), ed ordinava quindi la reintegrazione della lavoratrice interessata alle mansioni precedenti.

Veniva però rigettata la richiesta di risarcimento del danno da dequalificazione.

La società soccombente (nella specie le Poste Italiane S.p.A.), proponeva appello, dal cui giudizio otteneva l'integrale riforma della sentenza emessa dal giudice di prime cure.

La Corte d'appello di Brescia rilevava infatti che l'assunzione della lavoratrice di che trattasi era avvenuta per lo svolgimento di mansioni rientranti nella cd. area operativa, alla quale appartenevano tanto quelle di sportello quanto quelle di recapito. Peraltro, in relazione a dette mansioni, la contrattazione collettiva, con specifica clausola di fungibilità, prevedeva l'intercambiabilità delle stesse, sì da non potersi ritenere detta clausola contrastante con la previsione di cui all'art. 2103 c.c..

Il conseguente ricorso per cassazione da parte della lavoratrice, attesa la sottostante questione di massima di particolare importanza, è stato rimesso alle Sezioni Unite della Suprema Corte, ai sensi dell'art. 374, comma 2, cp.c.

Il ricorso per cassazione verteva su un unico motivo, nel quale veniva evidenziata l'invalidità della clausola contrattuale di fungibilità delle mansioni, atteso il carattere assolutamente inderogabile del precetto posto dall'art. 2103, comma 1, c. c.

Del resto, alla contrattazione collettiva in nessun caso sarebbe possibile prevedere, atteso il limite imposto dall'art. 2103 c.c., la mobilità tra mansioni che esprimano una professionalità diversa da quella acquisita dal lavoratore, ancorché rientranti nella medesima qualifica.

Sotto un profilo strettamente interpretativo, l'impugnata sentenza d'appello, sempre ad avviso della lavoratrice ricorrente, avrebbe errato nel non rilevare comunque la differenza esistente tra le mansioni di sportello e le mansioni di recapito successivamente assegnate e determinanti la denunciata dequalifìcazione. Con la Sent. n. 25033/2006, in modo ampiamente argomentato, la Corte di Cassazione ha però rigettato il ricorso, ritenendolo infondato. I giudici di legittimità premettono la pacificità del rapporto intercorso tra le parti in ordine ai due sottostati rapporti di lavoro e fanno preliminarmente rilevare come nel giudizio d'appello, con riguardo alle mansioni alla medesima nel tempo assegnate, avesse evidenziato come la lavoratrice si era obbligata a svolgere entrambe le mansioni in modo promiscuo o in via alternativa. Per il settore lavorativo che qui interessa, era stato peraltro sottoscritto un accordo sindacale territoriale che, per i nuovi assunti, prevedeva la fungibilità tra le mansioni di recapito e quelle di sportello, secondo un meccanismo di scambio automatico, o di avvicendamento o turnazione.

Tanto le mansioni di recapito che quelle di sportello rientravano nella medesima declaratoria contrattuale dell'area operativa, costituente quindi una qualifica di ampio respiro, destinata ad accorpare mansioni plurime.

Più in particolare, sul punto, la sentenza d'appello aveva fatto rilevare che il contratto di lavoro era stato stipulato per l'espletamento in via alternativa, secondo le necessità aziendali, di mansioni diverse e fungibili, appartenenti ad una medesima qualifica professionale. Il ricorso per cassazione ruotava su due questioni di diritto:

- la prima di carattere generale (violazione di legge);

- la seconda più specifica (vizio di motivazione).

La prima questione posta si riferiva alla compatibilità con l'art. 2103 c. c. delle clausole di fungibilità che la contrattazione collettiva (sia quella nazionale che quella integrativa territoriale) abbia eventualmente previsto per inserire elementi di flessibilità nella mobilità orizzontale in azienda.

Sul punto, la Corte d'appello di Brescia, muovendo dal rilievo che sia le mansioni di sportello che quelle di recapito fossero appartenenti come detto all'area operativa, ha ritenuto che la contrattazione collettiva all'epoca applicabile prevedeva la loro intercambiabilità per necessità di servizio, mettendo in risalto che la conclusione del contratto individuale di lavoro era stata finalizzata all'espletamento di entrambe le citate mansioni.

Dal punto di vista del diritto, a ben vedere, il problema di fondo era la compatibilità o meno della clausola di fungibilità con l'art. 2103 c. c. Secondo la sentenza in commento, la prima considerazione da farsi è che il perimetro di validità della clausola collettiva di fungibilità per quanto rileva la fattispecie dedotta in giudizio, è costituito dall'art. 2103, comma 1, c.c.

A ben vedere, infatti, oltre alle categorie legali contemplate dall'art. 2095 c. c., cui si raccordano discipline legali specifiche, e nel rispetto delle stesse, la contrattazione collettiva, nell'esercizio della sua autonomia, può prevedere il sistema di classificazione del personale, articolandolo in qualifiche plurime, secondo l'apprezzamento discrezionale delle parti sociali. Da qui, pertanto, la possibilità per il contratto collettivo di accorpare nella medesima qualifica mansioni diverse che esprimono distinte professionalità. Del resto, l'art. 96, comma 2, delle disposizioni attuative del Codice Civile (operante sul medesimo piano dell'art. 2103 c.c.), contempla espressamente la possibilità che le qualifiche del prestatore di lavoro, nell'ambito di ciascuna categoria legale, possano essere raggruppate per gradi secondo l'importanza e l'ordinamento dell'impresa; nulla esclude quindi che dette professionalità costituiscano lo sbocco di percorsi formativi distinti, in ipotesi anche di livello diverso. In buona sostanza, questa equivalenza contrattuale sta a significare che la disciplina collettiva che fa riferimento alla qualifica si applica di norma a tutte tali mansioni così accorpate, seppur espressione di diverse professionalità.

Una volta quindi assegnate le mansioni al lavoratore, quest'ultimo, nel loro espletamento, esprime una professionalità oramai individualizzata, destinata ad arricchirsi progressivamente con l'esperienza. Come a suo tempo chiarito dalla Corte Costituzionale con la Sent. 16 marzo 1989, n. 108, nella determinazione delle mansioni e dei conseguenti livelli retributivi, l'autonomia del datore di lavoro, cui spetta l'organizzazione dell'azienda, è fortemente limitata dal potere collettivo, ossia dai contratti collettivi e dai contratti aziendali.

A ben vedere, infatti, in quanto norma di protezione, l'art. 2103 c. c. è teso a regolamentare l'esercizio dello jus variandi da parte del datore di lavoro, intravedendo il lavoratore in una posizione di soggezione conseguente al carattere subordinato del rapporto di lavoro.

Da qui, conseguentemente, la necessità di bilanciare questo potere direttivo con l'approntamento di una garanzia finalizzata da ultimo alla tutela della dignità del lavoratore.

Con riguardo alle mansioni equivalenti, con la Sent. 7 agosto 1998, n. 7755, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, avevano precisato:

«Le mansioni equivalenti alte attuali (art 2103 cit.) sono quelle oggettivamente comprese nella stessa area professionale e salariale e che, soggettivamente, esse debbono armonizzarsi con la professionalità già acquisita dal lavoratore nel corso del rapporto, impedendone comunque la qualificazione o la mortificazione».

La sentenza in commento ribadisce detta posizione, comportando così l'individuazione del baricentro dell'art. 2103 c.c. nella protezione della professionalità acquisita dal prestatore di lavoro. Secondo il consolidato principio giurisprudenziale della Suprema Corte, la nullità dei patti contrari comminata dall'art. 2103, comma 2, c.c. riguarda anche il contratto collettivo (v., ex plurimis, Cass. 30 gennaio 2003, n. 1494 e Cass. 28 aprile 2003, n. 6614). Al fine di salvaguardare detto patrimonio di professionalità (salvaguardia assicurata proprio dall'art. 2103 c.c.), il datore di lavoro non può assegnare al lavoratore mansioni diverse da quelle di assunzione e, in caso di intervenuta mobilità verticale, diverse dalle ultime espletate, che compromettano questa professionalità, anche nel caso che le mansioni svolte e quelle di nuova assegnazione rientrino in ipotesi nella stessa qualifica contrattuale.

La medesima giurisprudenza di legittimità ha inoltre più volte affermato che la equivalenza tra le nuove mansioni e quelle precedenti, che legittima appunto lo jus variandi del datore di lavoro, deve essere intesa non solamente nel senso di pari valore professionale delle mansioni, considerate nella loro oggettività, ma anche come attitudine delle nuove mansioni a consentire la piena utilizzazione o anche l'arricchimento del patrimonio professionale del lavoratore acquisito nella pregressa fase del rapporto (v., ex plurimis, Cass. 13 gennaio 2006, n. 425 e Cass. 12 aprile 2005, n. 7453).

Più nello specifico è stato precisato che il divieto di variazioni in pejus (il demansionamento, appunto) opera anche quando al lavoratore, nella formale equivalenza delle precedenti e delle nuove mansioni, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori. Nell'indagine su tale equivalenza:

- non è quindi sufficiente il riferimento in astratto al livello di categoria,

- ma è necessario accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del lavoratore,

e ciò in modo da salvaguardarne il livello professionale acquisito dal lavoratore e garantire cosi lo svolgimento e l'accrescimento delle sue capacità professionali, con le conseguenti possibilità di miglioramento professionale, in una prospettiva dinamica di valorizzazione della capacità di arricchimento del proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze.

Sempre con riguardo al rapporto di lavoro dei dipendenti delle Poste Italiane, la Sezione lavoro della Suprema Corte, con la Sent. 3 settembre 2002, n. 12821, aveva affermato che la contrattazione collettiva può:

- prevedere una più dettagliata articolazione di qualifiche e

- stabilire anche un rapporto di equivalenza di mansioni distinte, ma riconducibili alla stessa qualifica.

Anche se con decisioni più datate (v. Sent. 16 ottobre 1985, n. 5098), la medesima Sezione lavoro, con riferimento ad una fattispecie di reinquadramento o riclassificazione, costituita dall'inquadramento unico di impiegati ed operai (introdotto dalla contrattazione collettiva all'epoca vigente), ebbe a precisare che il passaggio da impiegato ad operaio è in astratto configurabile, purché non si trasformi in un mutamento peggiorativo, aggiungendo inoltre che, in concreto, si tratta solamente di stabilire se la variazione di mansioni provochi un qualsiasi pregiudizio per il lavoratore e si traduca pertanto in un mutamento in pejus delle mansioni.

Secondo la sentenza in commento, l'inderogabilità della disciplina legale in esame si atteggia anche quale limite per la contrattazione collettiva. Conseguentemente, l'eventuale accorpamento, da parte di quest'ultima, in un'unica categoria (o qualifica, o area) di mansioni plurime, anche di diversa professionalità e livello, rende sì applicabile alle stesse la medesima disciplina collettiva che a tale categoria (o qualifica, o area) faccia riferimento (ex art. 1367 c.c.), ma non è di ostacolo all'operatività della disciplina legale di carattere inderogabile qual è l'art. 2103, comma 1, c.c. che, come visto, preclude l'ulteriore previsione di una indiscriminata fungibilità di mansioni per il solo fatto di tale accorpamento convenzionale.

Del resto, anche tra mansioni appartenenti alla medesima qualifica prevista dalla contrattazione collettiva trova attuazione la garanzia contenuta nell'art. 2103 c. c.

Conseguentemente, il lavoratore addetto a determinate mansioni non può essere assegnato a mansioni nuove e diverse che compromettano la professionalità raggiunta, sebbene rientrino nella medesima qualifica contrattuale.

Una volta così delineato il perimetro della disposizione contenuta nell'art. 2103, comma 1, c. c., la Sent. n. 25033/2006 passa poi ad affrontare la portata del secondo comma dell'art. 2103 c. c. che, com'è noto, è il continuum del comma che lo precede. Nella fattispecie dedotta in giudizio, secondo la ricostruzione fatta dalla Corte d'appello di Brescia, va considerato che le parti sociali, nel rispetto dell'art. 2103 c.c., dopo aver accorpato determinate mansioni nella cd. area operativa, hanno dettato una speciale regola della mobilità orizzontale nella cd. clausola di fungibilità, in ogni caso condizionatamente alla sussistenza di necessità di servizio.

È infatti in riferimento a tale menzionata clausola (di fungibilità) che occorre domandarsi se la contrattazione collettiva possa prevedere una qualche flessibilità all'interno della qualifica contrattuale compatibile con la rigidità della garanzia offerta dall'art. 2103 c. c.

Sul punto vengono in rilievo (le sollecitazioni e) gli spunti contenuti nell'ordinanza con la quale la Sezione lavoro ha rimesso la questione alle Sezioni Unite.

Si tratta di aspetti che inducono necessariamente a svolgere delle puntualizzazioni in chiave di adattabilità della garanzia dell'art. 2103 c.c. alle esigenze di maggiore flessibilità derivanti dalla sempre più penetrante integrazione dei sistemi produttivi. Queste puntualizzazioni si sviluppano però pur sempre in una linea di continuità con la giurisprudenza delle Sezioni Unite che, in un'ottica (allora) individuale, ha già riconosciuto una fattispecie che si sottrae alla sanzione di nullità contenuta nell'art. 2103, comma 2, c.c., affermando, con la Sent. 7 agosto 1998, n. 7755:

«Il divieto di adibire il lavoratore a mansioni inferiori, posto dall'art 2103 c.c. nell'interesse esclusivo del medesimo, non opera quando egli chieda o accetti il mutamento in peggio al fine di evitare il licenziamento, comunque giustificato».

Una fattispecie questa che può parimenti sottrarsi a detta sanzione di nullità, può ritagliarsi anche nella prospettiva collettiva. Del resto, da una parte può considerarsi che:

  - la dimensione individuale della garanzia offerta dall'art. 2103 c. c. riguarda essenzialmente il rapporto datore di lavoro/lavoratore ed è ispirata al favor lavoratoris,

- laddove la dimensione collettiva può vedere, in una prospettiva diversa e più generale, il bilanciamento della sommatoria di dette garanzie individuali con le esigenze dell'impresa.

L'equilibrio che le parti sociali possono trovare può tradursi quindi tranquillamente in una clausola di fungibilità, compatibile con l'art. 2103 c. c. In altre parole, la contrattazione collettiva, nel collocare plurime e diverse mansioni nella medesima qualifica, può disciplinare un meccanismo di fungibilità tra le mansioni di prima assegnazione e quelle successive che tenga conto delle esigenze aziendali in una necessaria prospettiva di temporaneità.

Da qui, pertanto, la legittimità di una clausola che, per contingenti esigenze aziendali, consenta al datore di lavoro l'esercizio dello jus varìandi, indirizzando il lavoratore verso altre mansioni contrattualmente equivalenti.

Sempre nella considerazione della dimensione collettiva, le parti possono parimenti farsi carico di una esigenza collettiva di estrinsecazione della professionalità dei lavoratori inquadrati nella medesima qualifica. Sul punto, la Sent. n. 25033/2006 rileva che: «La dimensione individuale della garanzia dell'art 2103 c. c. crea degli steccati che certamente valgono a protezione del lavoratore nei confronti di un indiscriminato jus variandi del datore di lavoro; ma possono rappresentare anche un attrito di resistenza alla progressione professionale della collettività dei lavoratori inquadrati in quella stessa qualifica. (...) Ed allora, se - come deve ritenersi - rileva non solo quello che il lavoratore fa, ma anche quello che sa fare (ossia la professionalità potenziale), la contrattazione collettiva può legittimamente farsi carico di ciò prevedendo e disciplinando meccanismi di scambio o di avvicendamento o di rotazione (....) che non violano la garanzia dell'art 2103 c.c., ma che con quest'ultima sono compatibili».

Analogamente, la medesima contrattazione collettiva o anche prevedere percorsi formativi tesi a creare detta professionalità potenziale e disciplinare il passaggio del prestatore, allorché tale professionalità abbia acquisito, verso queste nuove mansioni.

Sotto questo profilo, la giurisprudenza sulle mansioni promiscue e vicarie può essere portata ad ulteriori sviluppi.

Infatti, come la contrattazione collettiva può prevedere e le mansioni corrispondenti alla qualifica di appartenenza siano costituite dallo svolgimento (appunto promiscuo) di attività plurime diverse, talune anche con carattere di prevalenza rispetto ad altre (v. Cass. 3 febbraio 2004, n. 1987; Cass. 3 novembre 2003, n. 16461), la stessa contrattazione può analogamente introdurre clausole di fungibilità che, verificandosi specifici presupposti di fatto, consentano una mobilità orizzontale tra le mansioni svolte e quelle, pur diverse, rispetto alle quali sussiste una originaria idoneità del prestatore a svolgerle secondo un criterio di professionalità potenziale per ciò che il lavoratore sa fare, anche se attualmente non lo fa. La Sent. n. 25033/2006 arriva quindi al seguente principio di diritto:

«... la contrattazione collettiva - se da una parte deve muoversi all'interno, e quindi nel rispetto, della prescrizione posta dal primo comma dell'art 2103 c. c. che fa divieto di un'indiscriminata fungibilità di mansioni che esprimano in concreto una diversa professionalità, pur confluendo nella medesima declaratoria contrattuale e quindi pur essendo riconducibili alla matrice comune che connota la qualifica secondo la declaratoria contrattuale - è però autorizzata a porre meccanismi convenzionali di mobilità orizzontale prevedendo, con apposita clausola, la fungibilità funzionale tra esse per sopperire a contingenti esigenze aziendali ovvero per consentire la valorizzazione della professionalità potenziale di tutti i lavoratori inquadrati in quella qualifica senza per questo incorrere nella sanzione di nullità del secondo comma della medesima disposizione».

Sulla scorta di questa lettura giuridica, la Corte d'appello di Brescia aveva quindi correttamente ritenuto legittima la clausola di fungibilità espressa dal contratto collettivo di lavoro applicato che prevedeva appunto l'intercambiabilità delle mansioni, con esclusione delle mansioni tecniche, all'interno della medesima area operativa (e di quella di base) sul verificato presupposto della ricorrenza della necessità di servizio. La sussistenza di quest'ultima non è risultata peraltro contestata in giudizio dalla lavoratrice ricorrente, se non in termini assolutamente generici. La sentenza in commento, sul punto, ritiene che la clausola di fungibilità, pienamente compatibile con il disposto dell'art, 2103 c. c., opera tra mansioni che possono esprimere una diversa professionalità, ma che sono pur sempre equivalenti, ossia riconducibili alla matrice comune che connota la qualifica secondo la declaratoria contrattuale. Dalla pronuncia della Corte d'appello di Brescia non traspare nessuna intrinseca contraddizione. Il collegio di merito ha infatti operato una valutazione in fatto, pervenendo al convincimento che, nella fattispecie portata alla propria attenzione, la descrizione delle mansioni di sportello e di recapito rende palese che sul piano dell'autonomia organizzativa ed operativa si tratta di mansioni equivalenti.

Così ragionando, la Corte territoriale lombarda non si è minimamente sottratta alla verifica in concreto dell'equivalenza delle mansioni secondo un apprezzamento, di fatto devoluto al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità, com'è noto, qualora immune da contraddittorietà o illogicità intrinseche. A ben vedere, infatti, ai fini della verifica del legittimo esercizio dello jus variandi da parte del datore di lavoro, il giudice di merito è chiamato a valutare l'omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza in concreto rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal dipendente (v. Cass. n. 425/2006). La sequenza temporale che ha visto interessata la lavoratrice ricorrente e successivamente indicata nella impugnata sentenza d'appello ha mostrato un processo di progressivo ed iniziale addestramento diretto ad entrambe le mansioni dedotte dal contratto di lavoro, sì che l'alternatività delle stesse poteva ritenersi non ancora risolta nell'individuazione delle une piuttosto che delle altre. In questa situazione contingente e particolare, le mansioni di riferimento per verificare l'osservanza dell'art. 2103 c. c. erano quindi ancora quelle iniziali, ossia quelle alternativamente dedotte nel contratto di lavoro che, in astratto, il contratto collettivo inquadrava nella medesima area (quella cd. operativa) e di cui, in concreto, il giudice di merito d'appello ha verificato l'equivalenza.

 

Roberto Franchi - Consulente aziendale in Firenze

(fonte: Consulenza, n.5/2007– Buffetti ed., 64)

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