Una lettura costituzionalmente disorientata del danno non patrimoniale

(commento a Cass. sez. un. n. 6572 del 24.3.2006)

 

L’Autore commenta e critica la sentenza n. 6572 del 2006 delle Sezioni Unite della Cassazione sul danno da demansionamento ed onere della prova; le affermazioni della sentenza, in particolare sull’onere della prova della lesione e del danno esistenziale, rischiano di rendere troppo difficile l’esercizio del diritto, mentre valori come la dignità o l’identità personale non possono essere valutati quali elementi di produzione del reddito o della ricchezza. L’Autore considera la sentenza un arretramento rispetto alle letture costituzionali delle norme che riguardano l’uomo, fatto non solo di patrimonio, mentre può essere opportuno ma non sufficiente l’uso delle presunzioni.

 

Con ordinanza 4 agosto 2004 [1] la sezione lavoro della Corte di Cassazione aveva rimesso alle sezioni riunite la questione relativa alla sussistenza del danno in caso demansionamento ed alla necessità della prova o meno sul punto.

Nella materia, come bene è stato osservato[2] coesistevano due diverse opinioni una di chiave prettamente civilistica che poneva rigorosamente l’accento sul principio generale dell’onere della prova a carico di chi agisce in risarcimento e l’altra, di stampo giuslavoristico, che in nome della peculiarità del rapporto di lavoro considerava ex se risarcibile la lesione del diritto costituzionale all’esplicazione della personalità nel posto di lavoro.

La questione ovviamente superava i limiti della tematica del demansionamento perché in ogni situazione relativa ad un rapporto di lavoro comprendete diritti fondamentali di dignità del lavoratore (quindi in casi di mobbing, di molestie sessuali in luoghi di lavoro, di licenziamento ingiurioso e comunque di atti illeciti con contenuto discriminatorio) la questione dell’onere della prova appariva identica e con due possibili soluzioni.

Le sezioni unite della Corte di Cassazione sono intervenute con la sentenza n. 6572 del 24 marzo 2006.

Il punto che interessa della richiamata sentenza è quello relativo al quarto motivo del ricorso principale, quello riguardante appunto i danni derivanti da demansionamento aderendo con la stessa i giudici delle sezioni unite al primo degli orientamenti ricordati.

Ritiene chi scrive che la chiave di lettura fondamentale della decisione sia rinvenibile nel seguente passaggio: «L’ampia locuzione usata dall’art. 2087 c.c. assicura il diretto accesso alla tutela di tutti i danni non patrimoniali e quindi non è necessario, per superare le limitazioni poste dall’art. 2059 c.c. verificare se l’interesse leso dalla condotta datoriale sia meritevole di tutela in quanto protetto a livello costituzionale perché la protezione è già chiaramente accordata da una disposizione del c.c.».

Questa impostazione non tiene conto del fondamentale principio della gerarchia delle fonti che deve costituire un richiamo interpretativo di ordine generale sempre presente: per verificare se, di fronte ad un possibile spazio di tutela di danni non patrimoniali non soggetti alla regola dell’atipicità dell’illecito, come nel caso di danni patrimoniali ex art. 2043[3], ci sia il richiamo normativo richiesto dalla lettera dell’art. 2059 c.c. il primo e doveroso parametro da considerare sarà quello della Costituzione e, solo successivamente, delle altre fonti normative, compreso ovviamente il codice civile.

Il fatto che la dignità del lavoratore sia un valore fondante del nostro sistema costituzionale (come si ricava agevolmente dalla lettura combinata degli articoli 1, 4, 35 e 41 secondo comma vuole inevitabilmente dire che - indipendentemente dalla lettura dell’art. 2087 c.c. in chiave contrattuale con evidenti connotati patrimoniali - il lavoratore vedrà salvaguardata la propria dignità ogni volta che la stessa non sia rispettata e, conseguentemente, tale lettura comporterà che il mancato rispetto di tale dignità determinerà una lesione per il nostro sistema e per il singolo lavoratore che la subisce.

Dalle parole della sentenza in esame emerge chiaramente come si dia al problema una impostazione contrattualistica del danno: «dall’inadempimento datoriale non deriva però automaticamente l’esistenza del danno…l’inadempimento infatti è già sanzionato con l’obbligo di corresponsione della retribuzione». Ma nel caso di danno alla dignità del lavoratore non siamo in un contesto di responsabilità contrattuale, nel quale poter parlare di inadempimento, ma certamente in un contesto di responsabilità extracontrattuale e la natura del danno è chiaramente non patrimoniale e, di conseguenza, non si potrà parlare di risarcimento ma di indennizzo per il danno subito.

Proseguendo nell’esame della sentenza in esame si comprende agevolmente la ragione della lettura restrittiva accolta dalla Corte:«mirando il risarcimento del danno alla reintegrazione del pregiudizio che determini una effettiva diminuzione del patrimonio del danneggiato… ove diminuzione non vi sia stata il diritto al risarcimento non è configurabile. In altri termini la forma rimediale del risarcimento del danno opera solo in funzione di neutralizzare la perdita sofferta, concretamente, dalla vittima, mentre l’attribuzione ad essa di una somma di denaro in considerazione del mero accertamento della lesione finirebbe con il configurarsi come somma-castigo, come una sanzione civile punitiva, inflitta sulla base del solo inadempimento, ma questo istituto non ha vigenza nel nostro ordinamento».

Il panico che determina la prospettiva dei punitive damages comporta atteggiamenti di chiusura nei confronti di qualsiasi interpretazione che possa essere avvertita come potenziale apertura alla categoria tanto temuta. I fatti dimostrano che i giudici di merito sono assolutamente lontani da una cultura del danno inteso come castigo perché, al contrario, dalla giurisprudenza si ricava un atteggiamento opposto, sin troppo timido nella liquidazione dei danni esistenziali o, comunque, non patrimoniali differenti dai danni biologici che, in quanto tabellari, non costituiscono più un problema.

Seguendo la costruzione della sentenza si osserva che la stessa affronta il tema della potenziale plurioffensività della condotta datoriale con osservazioni assolutamente condivisibili: «proprio a causa delle molteplici forme che può assumere il danno da dequalificazione si rende indispensabile una specifica allegazione in tal senso da parte del lavoratore che deve in primo luogo precisare quali di essa ritenga in concreto di aver subito, fornendo tutti gli elementi, le modalità e le peculiarità della situazione in fatto».

Troppo spesso si legge nei ricorsi la richiesta di condanna a tutti i danni rinvenibili nella fattispecie in esame e con tale formula bon a tout faire non si aiuta il giudice e non si rende un buon servizio alla giustizia.

Siamo in un momento estremamente dinamico nel sistema del danno e quindi risulta comprensibile un certo imbarazzo in termini di definizione dei profili dello stesso che vengono richiesti nei casi particolari ma questa situazione di incertezza non può trasferirsi in formule generiche che rendono ancora più difficile il compito dell’interprete. La qualificazione e la quantificazione dei danni devono essere operazioni puntuali e attente perché, in caso contrario, rischiano di portare risultati negativi oltre misura. Dimostrare di avere ben presente il quadro della situazione che si è venuta a creare a seguito della condotta dannosa che si intende provare in giudizio vuole dire comunicare a chi deve giudicare che non ci troviamo di fronte ad una nebulosa quanto, piuttosto, ad un insieme di figure i cui contorni con attenzione e precisione possono essere ben rimarcati.

Nell’ambito dei danni patrimoniali, sicuramente di possibile origine contrattuale ma anche ipoteticamente di origine extracontrattuale, devono ricomprendersi tutti quegli aspetti suscettibili di una valutazione economica diretta come conseguenza lesiva. Bene osserva la sentenza in esame che in questa categoria possono essere richiamati i danni professionali di natura patrimoniale, ad esempio derivanti dall’impoverimento della capacità professionale acquisita e, conseguentemente, della minore forza contrattuale sul mercato del lavoro, così come la perdita di chance, cioè ulteriori potenzialità occupazionali e correlate ulteriori possibilità di guadagno.

Per tali categorie di danni patrimoniali deve necessariamente essere fornita la prova del danno subito perché risulta evidente che una valutazione del danno patrimoniale, per quanto con liquidazione presumibilmente equitativa, presuppone la prova che il patrimonio in termini prettamente economici del ricorrente è stato ridotto (danno emergente) o non si è accresciuto come avrebbe dovuto (lucro cessante): è la regola generale relativa al risarcimento del danno dell’art. 1223 c.c. che non può essere elusa neppure nel caso in cui ci troviamo di fronte ad una ipotesi di danno patrimoniale di natura extracontrattuale.

Il discorso è completamente diverso nel caso di danni non patrimoniali per i quali non di risarcimento si tratta quanto di indennizzo derivante dal danno subito. Se accogliamo la definizione di risarcimento in termini di ripristino della situazione economica anteriore al danno subito allora nel caso di danni non patrimoniali si richiede non un ripristino ma qualcosa che in qualche modo ci ristori del danno subito.

Il danno biologico, ad esempio, viene parametrato alla quantità di sofferenza subita e, considerando la durata della vita della persona, a quanto la stessa durerà ancora con il deterioramento prodotto dal danno biologico.

Il danno morale, da intendersi quale danno morale soggettivo ai sensi dell’art. 185 c.p., presuppone la realizzazione di un reato e l’esigenza di alleviare la sofferenza derivata dall’aver subito un reato parametrandola ad una percentuale del danno biologico o degli altri danni complessivamente considerati o valutandola con riferimento ad una ragionevole correlazione tra gravità del danno ed ammontare dell’indennizzo, attraverso concreti elementi che possono concorrere al processo di formazione della decisione del giudice sulla liquidazione del danno da effettuare sempre in termini equitativi.

«Quanto al danno non patrimoniale all’identità professionale sul luogo di lavoro, all’immagine o alla vita di relazione o comunque alla lesione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli articoli 1 e 2 della Costituzione (cosiddetto danno esistenziale) è in relazione a questo caso che si appunta maggiormente il contrasto tra l’orientamento che propugna la configurabilità del danno in re ipsa e quello che ne richiede la prova in concreto», così recita la sentenza in esame e su questo non ci sono dubbi di sorta. La sentenza però prosegue distinguendo tra danno morale che ha una natura emotiva ed interiore ed il danno esistenziale inteso come pregiudizio oggettivamente accertabile attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso. In tal modo si richiama il concetto classico del danno esistenziale come danno che incide sulla qualità della vita della persona che lo ha subito e certamente questa è una accezione. Ma non l’unica poiché è vero che per poter parlare di danno non patrimoniale si deve fare riferimento a tutti i valori costituzionalmente protetti: «l’art. 2043 c.c., in quanto norma atipica, tutela qualsiasi interesse giuridicamente rilevante da qualunque fonte esso emani sempre che meriti protezione risarcitoria. L’art. 2059 c.c., viceversa, tolti i casi in cui il legislatore riconosce espressamente i danni non patrimoniali, consente di proteggere solo i diritti inviolabili della persona…il sistema dei diritti inviolabili è, dunque, in costante evoluzione ma contiene in sé medesimo la logica di un self-restraint all’insegna di uno sviluppo del sistema che non neghi se stesso, contraddicendo i risultati democratici già conseguiti» [4].

Di fronte al danno che deriva da una condotta di demansionamento e che incide sulla dignità del lavoratore che la subisce appare quantomeno problematico prospettare quale tipo di prova del danno sia da richiedere per poter liquidare un indennizzo consequenziale. Sarebbe come se in caso di danno morale oltre alla prova del reato si dovesse dimostrare il patimento per il fatto subito, oppure in caso di danno biologico oltre alla malattia ed al nesso causale con la condotta che l’ha generata occorresse provare che il soggetto che si è ammalato ha effettivamente sofferto (ma allora nel caso di un soggetto con tendenze masochistiche come si dovrebbe liquidare il danno morale e biologico a seguito di un reato di lesioni personali?). È evidente che la sofferenza cioè il dato di patimento che deriva da condotte che determinano attacchi alla sfera morale, biologica ed esistenziale non deve essere provata bastando la prova della realizzazione dell’offesa a tali aspetti dell’essere umano.

La sentenza in esame prosegue: «il danno esistenziale essendo indissolubilmente legato alla persona e quindi non essendo passibile di determinazione secondo il sistema tabellare necessita imprescindibilmente di precise indicazioni che solo il soggetto danneggiato può dare, indicando le circostanze comprovanti l’alterazione delle sue abitudini di vita», denotando oltre ad una lettura assolutamente restrittiva del concetto di danno esistenziale già evidenziata la necessità al fine del criterio di liquidazione del danno di conoscere di quanto la persona abbia peggiorato la propria qualità della vita richiamando il principio espresso dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 372 del 1994 «la Consulta ha provveduto a ripudiare la logica del danno evento. In quella sede i giudici costituzionali hanno precisato che là dove la sentenza del 1986 qualifica come presunto il danno biologico, identificandolo con il fatto illecito lesivo della salute essa intende dire che la prova della lesione è, in re ipsa, prova dell’esistenza del danno, non già che questa prova sia sufficiente ai fini del risarcimento. È sempre necessaria la prova ulteriore dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quella indicata dall’art. 1223 c.c. costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente) commisurato» [5].

Ma la sentenza richiamata è del 1994 e da allora il sentire sociale, spinto dalla ineludibile forza espansiva dei valori della Costituzione, ne ha fatta di strada, basta leggere la sentenza della Corte Costituzionale n. 233/2003 sul danno non patrimoniale.

In realtà, a parte gli sforzi compiuti per una possibilità di tabellarizzazione anche del danno esistenziale [6] per la liquidazione del danno esistenziale non appare assolutamente necessario né richiamare dati patrimoniali del soggetto che subisce, in quanto valori come la dignità o come l’identità personale si prestano ancor meno della salute ad essere valutati diversamente ed in ragione del reddito o della ricchezza posseduti [7], né quantificare il patimento in quanto appare assolutamente idoneo il parametro della valutazione della condotta che ha determinato il danno, liquidando maggiormente le modalità più odiose ed offensive e quelle che sono durate maggiormente nel tempo. Questo non vuol dire che la qualità della vita non possa o non debba essere presa in considerazione in altre situazioni ma nel caso di un lavoratore che sia stato offeso nella sua dignità dalla condotta subita nel lavoro dire che: «non può escludersi che la lesione degli interessi relazionali, connessi al rapporto di lavoro, resti sostanzialmente priva di effetti, non provochi, cioè conseguenze pregiudizievoli nella sfera soggettiva del lavoratore, essendo garantito l’interesse prettamente patrimoniale alla prestazione retributiva» come recita la sentenza in commento vuole dire avere una concezione materialistica del diritto del lavoro che non corrisponde affatto alla lettura che la nostra Costituzione offre del lavoro e di chi lavora.

Tutta la storia dell’evoluzione del danno dal dopoguerra ad oggi[8] dimostra come ci sia stato un cammino lento, difficile e pieno di controspinte teso a dimostrare che l’uomo, ed in particolare quello che lavora, non è fatto di solo patrimonio ma anche di sangue e muscoli e, dopo, di vita e dignità fino ad arrivare ad una sistemazione del danno non patrimoniale finalmente in sintonia con il dettato della Costituzione, e ci sono voluti cinquantacinque anni per arrivare a questo. Leggere oggi che può considerarsi sufficiente garantire l’interesse prettamente patrimoniale con molta franchezza, pur non arrivando all’amarezza e sconforto dei primi commentatori [9], pare un arretramento rispetto alle letture costituzionalmente orientate sul tema.

La sentenza in esame sembra al termine della motivazione accorgersi del cammino a ritroso da un punto di vista interpretativo ed allora ecco l’apertura relativamente ai mezzi di prova: «mentre il danno biologico non può prescindere dall’accertamento medico legale quello esistenziale può essere verificato mediante la prova testimoniale, documentale o presuntiva. Ed infatti se è vero che la stessa categoria del danno esistenziale si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore ma oggettivamente accertabile del pregiudizio esistenziale… all’onere probatorio può assolversi attraverso tutti i mezzi che l’ordinamento processuale pone a disposizione…Considerato che il pregiudizio attiene ad un bene immateriale precipuo rilievo assume rispetto a questo tipo di danno la prova per presunzioni».

Il tema delle presunzioni richiama alla mente una recente normativa in tema di discriminazioni. Si tratta del D.Lgs. 216 del 2003 in tema di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. In tale testo all’art. 4, quarto comma, è scritto: «il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno, può dedurre in giudizio, anche sulla base di dati statistici, elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti che il giudice valuta ai sensi dell’art. 2729 c.c. (le presunzioni semplici)».

Questa tecnica normativa appare raccordabile con la nuova legislazione in materia della Francia (legge 2003/73 lotta contro le molestie morali in tema di modernizzazione sociale) nella quale all’art. 122-5 2 si legge: «è sufficiente che il lavoratore dipendente interessato adduca elementi di fatti che lascino supporre l’esistenza di una molestia. A partire da tali elementi, incombe alla parte convenuta di provare che il proprio comportamento non è costitutivo di molestia morale e che le proprie decisioni sono giustificate da ragioni obiettive, estranee a qualsiasi forma di vessazione».

Torna alla mente la differenza tra danno evento e danno conseguenza, nata con la famosa sentenza della Corte Costituzionale n. 184/1986, ma già sul punto si è osservato che la differenza tra le due impostazioni risulta all’atto pratico assolutamente teorica [10].

In conclusione la sentenza in oggetto rischia di costituire una chiusura per l’interprete in ordine alla liquidazione del danno esistenziale in tutti quei settori, quali il demansionamento ed altro, nei quali molto complesso appare riuscire ad assolvere ad un onere probatorio di effettività della lesione e del danno ed allora lo spiraglio offerto dalla prova presuntiva può costituire una strada percorribile per evitare revirement troppo bruschi.

Sarà la pratica a dire se il giudice di merito nelle cause del lavoro avrà saputo utilizzare, come spesso è accaduto, la sua professionalità in tema di formazione e valutazione della prova che portano la giustizia del lavoro ad essere sempre moderna ed attenta alla nuova realtà sociale, economica e giuridica. Il viaggio della tutela della dignità di chi lavora, del resto, come è stato osservato è tutto contromano nella veloce autostrada della new economy [11].

Carlo Sorgi

Magistrato nel Tribunale di Forlì

 

(fonte: Lav. giur.,  n.7/2006, 668 e segg.)


Sul tema, si veda anche in questo sito:
Esigenze di uniformità in tema di prova del danno alla professionalità (note critiche a Cass. sez. un. n. 6572/2006); La prova del danno da demansionamento: un epilogo apparente .


[1] In Lav. giur., 2005, n. 4, 335.

[2] F.M. Gallo, Commento all’ordinanza 4 agosto 2004, in Lav. Giur., 2005, n. 4, 337.

[3] Cfr. in questo senso l’interessantissima sentenza n. 15022 del 2005 della Terza Sezione della Cassazione.

[4] E. Navarretta Danni non patrimoniali: il dogma infranto ed il nuovo diritto vivente, in Foro it., 2003, I, 2277.

[5] P. Ziviz, I nuovi danno secondo la Cassazione, in Resp. civ. prev., 2001, 205.

[6] Sul punto v. Ege, La valutazione peritale del danno da mobbing, Milano, 2002; nonché P. Ziviz, La valutazione del danno esistenziale, in Trattato Breve dei nuovi danni, Padova, 2001, 2796.

[7] L. de Angelis, Interrogativi in tema di danno alla persona del lavoratore, in Foro it., 2000, I, 1562.

[8] Sia permesso richiamare C. Sorgi, Le violazioni dei diritti dei lavoratori, in Il danno alla Persona a cura di Cendon e Baldassari, Bologna, 2006, 111 e segg.

[9] M. Meucci, Amarezza e sconforto (dopo Cass. Sez. un. n. 6572/06), in http://www.cgil.it/giuridico/Politica%20giudiziaria/Archivio/Miscellanea/Note%20a%20sentenza/amarezza_e_sconforto.htm

[10] C. Sorgi, op. cit., 1153.

[11] F. Nisticò, Mob, Mobber e Mobbing, in Inf. prev., 2002, n. 4, 710.

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