Obbligo di motivazione (e conseguente diritto di difesa ex art. 7 Stat. lav.) per la risoluzione del rapporto ontologicamente disciplinare con qualunque tipologia di dirigente (apicale, medio, minore)

 

Cass. Sez. un. civ., 30 marzo 2007, n. 7880 - Pres. Carbone – Rel. Vidiri- Pm Iannelli (conf.) - Ricorrente Mari – Controricorrente Acquedotto pugliese Spa

 

Dirigenti  (apicali, medi e minori) – Applicabilità, ai fini del recesso sia per fatto colpevole sia per cd. vulnerazione fiduciaria, dell’art. 7, 2 e 3 co., Statuto dei lavoratori, cioè del diritto di motivazione degli addebiti e di difesa – Rispondente al principio di civiltà giuridica “audiatur et altera pars“-  Dall’inosservanza conseguono, non già l’invalidità del licenziamento ma le conseguenze stabilite dal ccnl per l’ingiustificatezza del medesimo (preavviso e indennità supplementare) – Ai cd. "pseudo dirigenti" (dirigenti di nomen e per trattamento economico, ma privi delle funzioni caratterizzanti e quindi sostanzialmente "impiegati", con o senza funzioni direttive) si estende invece anche il regime della reintegrazione ex art. 18 Stat. lav.

 

Le garanzie procedimentali dettate dall’articolo 7, commi 2 e 3, della legge 300/70 devono trovare applicazione nell’ipotesi di licenziamento di un dirigente (sia apicale, sia medio, sia minore) -  a prescindere dalla specifica collocazione che lo stesso assume nell’impresa ‑ sia se il datore di lavoro addebiti al dirigente stesso un comportamento negligente (o in senso lato colpevole) sia se a base del detto recesso ponga, comunque, condotte suscettibili di farne venir meno la fiducia. Dalla violazione di dette garanzie, che si traduce in una non valutabilità delle condotte causative del recesso, ne scaturisce l’applicazione delle conseguenze fissate dalla contrattazione collettiva di categoria per il licenziamento privo di giustificazione, non potendosi per motivi, oltre che giuridici, logico sistematici assegnare all’inosservanza delle garanzie procedimentali effetti differenti da quelli che la stessa contrattazione fa scaturire dall’accertamento della sussistenza dell’illecito disciplinare o di fatti in altro modo giustificativi del recesso.

Il necessitato accrescimento, di fatto, della categoria dei dirigenti non può però spingersi sino al punto di includere in essa i c.d. pseudodirigenti, cioè quei lavoratori che seppure hanno di fatto il nome ed il trattamento dei dirigenti, per non rivestire nell’organizzazione aziendale un ruolo di incisività e rilevanza analogo a quelli dei c.d. dirigenti convenzionali (dirigenti apicali, medi o minori), non sono classificabili come tali dalla contrattazione collettiva ‑ e tanto meno da un contratto individuale ‑ non essendo praticabile uno  scambio tra pattuizione di benefici economici (e di più favorevole trattamento) e la tutela garantistica ad essi assicurata, al momento del recesso datoriale, dalle leggi 604/66 e 300/70.

 

Svolgimento del processo

 

Con ricorso depositato in data 10 maggio 2001, Marco Mari conveniva in giudizio davanti al giudice del lavoro di Bari la Spa Acquedotto Pugliese e, premesso di avere lavorato alle dipendenze di quest’ultima dal 1973, dapprima come consulente professionale e, successivamente, come coordinatore del servizio studi e programmi sino al 1997, aveva in seguito ‑ all’atto della trasformazione dell’ente in società per azioni nel maggio 1999 ‑ avuto affidato l’incarico di «responsabile dell’unità di staff dell’ amministratore unico». Dal 1 gennaio 2000 gli era stata conferita la qualifica di dirigente. Con lettera del 5 dicembre 2000 l’Acquedotto Pugliese gli aveva comunicato l’immediata risoluzione del rapporto di lavoro, ai sensi dell’articolo 34 del vigente contratto collettivo della categoria, ma tale licenziamento era illegittimo, perchè disposto in totale violazione della procedura prevista dall’articolo 7 dello statuto dei lavoratori in quanto non preceduto dalla preventiva contestazione degli addebiti e senza essere sentito a difesa. In ogni caso il recesso doveva considerarsi ingiustificato in quanto gli addebiti erano privi di attendibilità stante, peraltro, i riconoscimenti che nel corso degli anni esso ricorrente aveva avuto dalla stessa società convenuta. Tutto ciò premesso, chiedeva che venisse dichiarata la nullità del licenziamento e che la suddetta società venisse condannata  al ripristino del rapporto di lavoro ed, in via subordinata, che venisse dichiarata l’ingiustificatezza ‑  del licenziamento, sempre con condanna dell’indennità di preavviso pari a venti mensilità nonchè al pagamento di una somma, da determinarsi in via equitativa, a titolo di risarcimento dei danni per lesione all’immagine e dignità professionale.

Dopo la costituzione della convenuta, che contestava la fondatezza della domanda attrice, e dopo che detta domanda era stata rigettata dal primo giudice, a seguito di gravame del Mari, la Corte d’appello di Bari, con sentenza del 10 novembre 2003, rigettava l’appello e condannava l’appellante alle spese del secondo grado.

Nel pervenire a tale conclusione la Corte territoriale ‑ dopo avere preliminarmente evidenziato che lo stesso Mari aveva affermato che aveva rivestito la qualifica di dirigente e che mancava ogni prova con riferimento ad una attribuzione fraudolenta di tale qualifica al solo fine di privare il lavoratore delle garanzie dell’articolo 18 stat. lav.- evidenziava come la più recente giurisprudenza, pur ritenendo applicabile l’articolo 7 dello statuto a tutti i dirigenti, compresi quelli apicali, avesse negato che la violazione di detta norma potesse comportare una causa di invalidità del recesso datoriale perchè da esso derivava unicamente la mera non valutabilità dei fatti non ritualmente contestati con le conseguenze legali e nel caso, appunto, del licenziamento del dirigente, anche di  quelle contrattuali (consistenti nell’obbligo di versare l’indennità sostitutiva del preavviso e di quella supplementare, da riconoscersi nel caso di recesso non assistito da giustificatezza).

Quanto al merito della controversia i giudici d’appello riconoscevano la legittimità del recesso in considerazione del fatto che era rimasto accertato che il Mari, nei giorni in cui era in missione nel Salento, era stato ospite presso l’hotel Costa Brada di Gallipoli nei giorni dal 23 al 24 agosto 2000 e dal 28 agosto 2000 al 3 settembre 2000 a spese dell’impresa Erroi Bruni, titolare di contratti di appalto con l’Acquedotto, nel cui ambito il dirigente svolgeva mansioni di controllo. A fronte di tali fatti il Mari si era limitato a proporre questioni di carattere soltanto formale, ponendo l’accento unicamente sulla circostanza che la ditta Erroi non era sottoposta al suo controllo e, comunque, sul fatto che la sua condotta non aveva favorito la suddetta ditta nè aveva arrecato alcun danno all’ente. La giustificatezza del provvedimento adottato ‑ scaturente, comunque, dalla lesione che l’immagine dell’Acqueddotto aveva irrimediabilmente subito per la condotta di un suo dirigente - assorbiva la questione relativa alla pretesa indennità supplementare, non dovuta proprio in considerazione del motivo di recesso.

Avverso tale sentenza Marco Mari propone ricorso per cassazione, affidato ad un duplice motivo.

Resiste con controricorso la Spa Acquedotto Pugliese.

Ambedue le parti hanno depositato memorie ex articolo 378 Cpc.

 

Motivi della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso Marco Mari deduce violazione di legge per errata e falsa applicazione dell’articolo 10 della legge 604/66, dell’articolo 7 della legge 300/70 e dell’articolo 2697 Cc nonchè dell’articolo 416 Cpc in relazione all’articolo 360, primo comma, n. 3 e 4 Cpc, nonchè omissione e contraddittorietà della motivazione, in relazione all’articolo 360, primo comma n. 5, Cpc. In particolare sostiene il ricorrente che, in assenza di una mancata contestazione da parte della società ex articolo 416 Cpc, alla sua iniziale affermazione di non essere un dirigente apicale dell’Aquedotto Pugliese, il giudice d’appello avrebbe dovuto reputare provato il carattere non apicale delle mansioni da esso spiegate, dovendo la prova contraria in ogni caso fare carico sul datore di lavoro. Conseguentemente lo stesso giudice avrebbe dovuto tenere presente che la regola della licenziabilità ad nutum  è applicabile solo al dirigente in posizione verticistica, le cui mansioni nell’ambito della azienda sono caratterizzate dall’ampiezza del potere gestorio tanto da  potere essere definito un vero e proprio “alter ego dell’imprenditore”, in quanto preposto all’intera azienda o ad un ramo di particolare importanza in posizione di sostanziale autonomia‑ in altri termini dalla non provata natura di dirigente non apicale di esso Mari conseguiva, da un lato, l’applicabilità dell’articolo 7 dello statuto dei lavoratori al recesso intimatogli e, dall’altro, l’inapplicabilità del recesso ad nutum ex articolo 10 della legge 604/66; istituto questo contemplato solo per i dirigenti posti in posizione verticistica.

Con il secondo motivo il ricorrente denunzia violazione di legge per errata e falsa applicazione della legge 300/70 e dell’articolo 2 della legge 604/66 (articolo 360, primo comma, n. 3 Cpc) nonché omissione e contraddittorietà della motivazione(articolo 360, primo comma, n. 5 Cpc). In particolare rileva che la decisione impugnata è affetta da motivazione contraddittoria perché dopo avere premesso che la società ha errato nel non applicare nel caso di specie il disposto dell’articolo 7 dello statuto dei lavoratori, è poi caduta in evidente logica contraddizione dal momento che, nel definire privo di giustificazione il recesso datoriale, ha finito per porre a base della sua decisione i fatti che andavano contestati, ed ha conseguentemente finito anche per disconoscere il suo diritto all’indennità supplementare, da esso ricorrente rivendicato nel corso del  giudizio.

Precisa altresì che in ogni caso andava rispettato, come per il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il principio della tempestività della contestazione.

2. La controversia è stata rimessa alle Su a seguito di ordinanza del 9 febbraio 2006 della Sezione lavoro di questa Corte, che ha trasmesso gli atti al primo Presidente, oltre che per la massima importanza della sollevata questione, per l’esistenza di un contrasto sull’ambito di applicabilità dell’articolo 7 dello statuto dei lavoratori, con riferimento alla categoria dei dirigenti, nonché sulle diverse conseguenze scaturenti dal ritenere applicabile o meno al recesso dal rapporto lavorativo degli appartenenti alla suddetta categoria la citata norma statutaria.

3. La questione che, pertanto, deve essere risolta ripropone la problematica dell’applicabilità (o meno) al licenziamento dei dirigenti d’azienda delle garanzie procedimentali previste dall’articolo 7 della legge 300/70.

3.1. Come è stato ricordato nella suddetta ordinanza articolato si presenta il panorama giurisprudenziale in materia.

3.2 Con sentenza 6041/95, queste Su  ‑ invertendo una tendenza volta ad estendere le garanzie procedimentali dei commi 2 e 3 dell’articolo 7 stat. lav. anche all’area delle libera recedibilità del rapporto di lavoro (pure con riferimento al periodo successivo alla legge 108/90) e, quindi, anche al licenziamento dei dirigenti rientrante nella stessa area ex articolo 2 legge 604/66 (cfr. per tutte: Cassazione 1641/95) ‑ hanno ritenuto inapplicabile ai dirigenti le garanzie previste dalla norma statutaria “in ragione della natura spiccatamente fiduciaria del rapporto che esclude la stessa configurabilità del potere disciplinare del datore di lavoro”. A tale riguardo i giudici di legittimità hanno evidenziato che il dirigente di aziende industriali è “quel prestatore di lavoro che, collocato al vertice dell’organizzazione aziendale, svolge mansioni tali da caratterizzare la vita dell’azienda con scelte di respiro globale, e si pone in un rapporto di collaborazione fiduciaria con il datore di lavoro dal quale si limita a ricevere direttive di carattere generale per la cui realizzazione si avvale di ampia autonomia, ed anzi esercita i poteri dell’imprenditore (del quale è un alter ego) assumendone, anche se non sempre. la rappresentanza esterna (per cui la suddetta esclusione non si estende anche al cosiddetto pseudodirigente o dirigente meramente convenzionale, relativamente al quale le mansioni concretamente attribuite ed esercitate non hanno le caratteristiche tipiche del rapporto propriamente dirigenziale)”.

Alla stregua di tali considerazioni, gli stessi giudici hanno poi affermato che ove il contratto collettivo applicabile ai dirigenti “non preveda procedimento e sanzioni disciplinari ma richieda la motivazione del recesso soltanto ai fini del procedimento arbitrale” devono applicarsi al licenziamento, oltre che le norme contrattuali, anche le disposizioni di cui agli articoli 2118 e 2119 Cc rilevando, sempre per quanto riguarda i dirigenti, che il concetto stesso di “mancanza” è arduo da ricostruire, specificamente con riferimento alla giusta causa, stante l’ampiezza e delicatezza delle loro mansioni e rimarcando ancora una volta sul piano sistematico generale la “specificità e diversità del lavoro del dirigente”, che si proietta “in una tutela specifica, non solo nella formazione del contratto, ma nel corso del rapporto, sul piano individuale e collettivo, anche in sede di recesso e, poi, negli aspetti sindacali e previdenziali”.

3.3. Sul quadro sviluppatosi a seguito della suddetta decisione, ed arricchitosi da numerosi pronunziati che ne hanno condiviso i principi (cfr. ex plurimis e tra le più recenti: Cassazione, 19903/05;10058/05; 6606/03; 9950/01 e 2192/00, che hanno puntualizzato sul versante processuale che “il giudizio circa l’applicabilità o meno al dirigente d’azienda delle garanzie procedimentali di cui all’articolo 7 stat. lav., in caso di suo licenziamento per motivi disciplinari, involge apprezzamenti di fatto, diretti a stabilire se l’interessato appartiene al novero dei dirigenti di vertice dell’azienda, ai quali non sono applicabili dette garanzie, sicché la questione non può essere dedotta per la prima volta in cassazione ove nel giudizio di merito non sia stato compiuto lo specifico, necessario, accertamento di fatto”, si è inserita la sentenza 5213/03 della Sezione lavoro di questa Corte, che rifacendosi all’indirizzo prevalente anteriormente al revirement delle Su, ne ha precisato i contorni.

3.4. Tale pronunzia, seguita poi anche da Cassazione 4614/06, ha stabilito il principio secondo cui “le garanzie procedimentali dettate dall’articolo 7, commi secondo e terzo, della legge 300/70 ai fini dell’irrogazione di sanzioni disciplinari sono applicabili anche in caso di licenziamento di un dirigente di azienda, a prescindere dalla specifica posizione dello stesso nell’ambito della organizzazione aziendale, se il datore di lavoro addebita al dirigente un comportamento negligente o, in senso lato, colpevole, al fine di escludere il diritto del medesimo al preavviso, oppure all’indennità c.d. supplementare eventualmente prevista dalla contrattazione collettiva in ipotesi di licenziamento ingiustificato”; ed ha fatto scaturire dall’enunciato principio la conseguenza che “la violazione di dette garanzie comporta non la nullità del licenziamento stesso ma  l’impossibilità di tenere conto dei comportamenti irritualmente posti a base del licenziamento ai fini dell’esclusione del diritto al preavviso e all’indennità supplementare”.

La suddetta pronunzia si pone, quindi, in contrasto con il prevalente indirizzo, non solo per avere ritenuto applicabile le garanzie procedurali ex articolo 7 stat. lav. a tutti dirigenti, ma anche per avere rifiutato, nel pervenire a tale conclusione, una frammentazione della categoria dei dirigenti tra dirigenti di vertice da una parte e dirigenti medi o minori dall’altra, la cui differenza anche per momenti qualificanti del rapporto lavorativo configura passaggio motivazionale caratterizzante tutte le decisioni del contrario orientamento.

4. Gli approdi giurisprudenziali facenti capo alla ricordata decisione delle Su e segnatamente questa pronunzia sono stati in dottrina sottoposti a critiche sotto molteplici versanti.

4.1. Ed infatti si è al riguardo osservato, con riferimento alla corrispondenza ai valori costituzionali, che essa si pone in insanabile contrasto con gli interventi del giudice delle leggi (ed in specie: Corte Costituzionale 309/92), perché riesuma una vecchia ed ormai logora nozione di dirigente, inteso quale alter ego dell’imprenditore, aprendo di fatto le porte per un contenzioso ancora più consistente e difficilmente gestibile in sede giudiziaria, in ordine alla reale portata applicativa del “nuovo” principio giurisprudenziale, e si è aggiunto che le riserve sulla disposizione interpretata dalle Su sono rafforzate soprattutto dall’ampiezza dell’estensione che nella giurisprudenza costituzionale ha il principio “audiatur et altera pars”, come indefettibile garanzia di ogni prestatore di lavoro incolpato di un addebito prima che il datore di lavoro determini, con un suo atto unilaterale, conseguenze negative nella sua sfera soggettiva; estensione che anzi ha travalicato lo stesso ambito del lavoro subordinato toccando la contigua area del lavoro professionale autonomo.

4.2. In una critica a largo raggio è stato poi rilevato che i dirigenti di azienda rientrano espressamente nella catalogazione delle categorie legali dei prestatori di lavoro (articolo 2095 Cc) e, come tali, partecipano alla disciplina del rapporto di lavoro dettata dal codice civile e dalle leggi speciali per il prestatore di lavoro subordinato in generale; ed è stato osservato che, quando invece il legislatore ha inteso porre delle deroghe alla disciplina comune, ha dettato speciali disposizioni per tale categoria o per quella più ampia dei personale direttivo, aggiungendosi anche che non sembra che il plesso normativo di disposizioni derogatorie (richiamato anche dalle Su) possa arricchirsi di altre deroghe in ragione della mera peculiarità delle posizioni in azienda del dirigente.

4.3. E nella stessa ottica, volta a ridurre gli spazi di specialità del rapporto dirigenziale al fine di renderlo compatibile anche sul piano logico con la regolamentazione di cui all’articolo 7 stat. lav. , è stato precisato che, quando il venir meno della fiducia è conseguenza di una condotta del dirigente ritenuta manchevole, il recesso, accanto alla tipica funzione risolutoria del rapporto, contiene anche una causa ulteriore costituita dalla funzione dell’atto di irrogare una pena privata, realizzandosi tale effetto sanzionatorio nella perdita del diritto all’indennità supplementare prevista dai contratti collettivi della categoria e, in casi di particolare gravità, del diritto al preavviso ed alla corrispondente indennità. E, sempre nella stessa direzione, è stato osservato che sia la parzialità del modello socialtipico dell’alter ego dell’imprenditore sia l’accentuata fiduciarietà del rapporto può comportare l’allargamento dell’area dei comportamenti fedeli ma non l’esclusione della rilevanza disciplinare delle condotte inadempienti, atteso che nel codice civile non v’è traccia testuale di deroga, quanto ai dirigenti, dell’applicabilità dell’articolo 2106 Cc, il tutto senza trascurare di dire che alla luce della impostazione ontologica il potere disciplinare resta tale, e merita la procedimentalizzazione di cui si discute, anche se i particolari connotati del rapporto, che nessuno vuole negare, fanno si che esso venga esercitato se non con la sanzione espulsiva.

5. Queste Su, ritengono che una interpretazione del dato normativo costituzionalmente orientata, che voglia rispondere anche a criteri logico - sistematici, induca a condividere la tesi favorevole ad estendere a tutti coloro che rivestono la qualifica di dirigenti in ragione della rilevanza dei compiti assegnati dal datore di lavoro ‑ e, quindi, senza distinzione alcuna tra dirigenti top manager ed altri (cd. dirigenti “medi” o “minori”) appartenenti alla stessa categoria - l’iter procedurale previsto dall’articolo 7 stat. lav.

5.1. Il giudice delle leggi, in occasione della soluzione di numerose questioni costituzionali sollevate sotto vari profili in ordine all’ambito di applicabilità della suddetta norma statutaria ha proceduto ‑ per quanto attiene alla individuazione della ratio di tale disposizione ‑ ad alcune precisazioni di sicura rilevanza nel caso di specie perché capaci di orientare la soluzione della problematica in oggetto.

5.2. Ed invero la Corte Costituzionale al riguardo ha evidenziato: che devono essere assicurate tutte le garanzie procedurali dell’articolo 7 stat. lav. nel caso di lavoratore investito dalla più grave delle sanzioni disciplinari ed indipendentemente dal numero dei dipendenti del datore di lavoro “perchè non vi è dubbio che il licenziamento per motivi disciplinari, senza l’osservanza delle garanzie suddette, può incidere sulla sfera morale e professionale del lavoratore e crea ostacoli o addirittura impedimenti alle nuove occasioni di lavoro che il licenziato deve poi necessariamente trovare” (Corte Costituzionale, sentenza 427/89); che l’articolo 7, commi secondo e terzo, stat. lav. raccoglie poi il ben noto sviluppo ‑ ad un tempo sociopolitico e giuridico formale ‑ che ha indotto ad esigere come essenziale presupposto delle sanzioni disciplinari lo svolgersi di un procedimento, di quella forma cioè di produzione dell’atto, che rinviene il suo marchio distintivo nel rispetto della regola del contraddittorio: audiatur et altera pars; rispetto che tanto più è dovuto per quanto competente ad irrogare la sanzione è (non già ‑ come avviene nel processo giurisdizionale ‑ il giudice, per tradizione e legge, super partes, ma) una pars (Corte Costituzionale sentenza 204/82); che nell’esercizio di un potere disciplinare ‑ riferito allo svolgimento di qualsiasi rapporto di lavoro subordinato (di diritto privato o di pubblico impiego) ovvero di lavoro autonomo e professionale ‑ al principio di proporzione deve coniugarsi la regola del contraddittorio, “secondo cui la valutazione dell’addebito, necessariamente prodromica all’esercizio del potere disciplinare, non è un mero processo interiore ed interno a chi tale potere esercita, ma implica il coinvolgimento di chi versa nella situazione di soggezione, il quale ‑ avendo conosciuto l’addebito per essergli stato previamente contestato ‑ deve poter addurre, in tempi ragionevoli, giustificazioni a sua difesa, sicché ‑sotto questo secondo profilo ‑ è necessario il previo espletamento di un procedimento disciplinare che, seppur variamente articolabile, sia rispettoso della regola audiatur et altera pars” (cfr. Corte Costituzionale sentenza 220/95).

5.3. Orbene gli enunciati principi mostrano con palmare chiarezza come la giurisprudenza dei giudici costituzionali si sia caratterizzata ‑ come si evince peraltro dalla ritenuta applicabilità dell’articolo 7 stat. lav. anche al rapporto di lavoro domestico sul cui recesso ad nutum non si è mai dubitato (cfr. sul punto la combinata lettura delle sentenze 193/95 e 427/89 della Corte Costituzionale già citate, nonché Cassazione  5213/03, pure citata) ‑ per una generalizzata estensione delle procedure di contestazione dei fatti posti a base del recesso, che trova la sua effettiva ratio non nelle caratteristiche intrinseche del rapporto di lavoro (cfr al riguardo per l’imprescindibilità e la compatibilità delle garanzie procedurali con posizioni lavorative pur aventi caratteri peculiari, Corte Costituzionale 96/1981 per i naviganti marittimi, e Corte Costituzionale 41/1991 per i naviganti aerei e, sotto altro versante, anche Corte Costituzionale 193/95 cit. per il lavoro domestico), ma nella capacità dei suddetti fatti di incidere direttamente, al di là dell’aspetto economico, sulla stessa “persona del lavoratore”, ledendone talvolta, con il decoro e la dignità, anche la sua stessa immagine in modo irreversibile. E la capacità espansiva della normativa scrutinata, in ragione dei motivi ora esposti, ha trovato riscontro espresso ancora in una decisione della Corte Costituzionale che, seppure di carattere interpretativo ‑ e come tale non vincolante ‑ ha, proprio con riferimento al dirigente, evidenziato come lo stesso goda di una stabilità relativa (prevista dal contratto collettivo di categoria e variabile da impresa ad impresa), nonché della tutela da riconoscere ex lege contro fatti suscettibili di ledere la sua dignità di uomo e di lavoratore (per esempio, licenziamento intimato senza l’atto scritto; licenziamenti discriminatori; licenziamenti disciplinari senza osservanza di norme che richiedano il riconoscimento di garanzie procedimentali) (cfr. in tali sensi: Corte Costituzionale 309/92).

5.4. Orbene, se il tratto caratterizzante dell’articolo 7 stat. lav. va individuato, come emerge, dunque, dai ricordati interventi della Corte Costituzionale, nell’esigenza di garantire ad ogni lavoratore ‑ nel momento in cui gli si addebitano condotte  con finalità sanzionatorie ‑ il diritto di difesa, e se non è, come si è visto, di certo estranea alla ratio della norma in esame l’intento di tutelare la “persona” del lavoratore nella professionalità, nel decoro e nella sua stessa immagine, tutto ciò attesta che non risponde a consequenzialità logica una lettura restrittiva del dato normativo che finisca per penalizzare i dirigenti, i quali ‑ specialmente se con posizioni di vertice e se dotati di più incisiva autonomia funzionale ‑ possono subire danni, con conseguenze irreversibili per la loro futura collocazione nel mercato del lavoro, da un licenziamento, che non consentendo loro una efficace e tempestiva difesa, può lasciare ingiuste aree di dubbio sulla trasparenza del comportamento tenuto e sulla capacità di assolvere a quei compiti di responsabilità correlati alla natura collaborativa e fiduciaria caratterizzante il rapporto lavorativo.

5.5. Ma oltre le considerazioni svolte, l’attuale assetto normativo delle relazioni industriali e ragioni logico‑sistematiche ostano a che in relazione all’obbligo di contestazione degli addebiti possa procedersi ad una frammentazione della categoria dirigenziale, al fine di esimere il datore di lavoro dall’osservare tale obbligo nei confronti dei soli dirigenti c.d. apicali.

5.6. Come è stato rilevato l’atto di nascita della figura del dirigente, come qualifica dotata di propria autonomia rispetto a quella impiegatizia, risale al periodo corporativo, e precisamente al Rd 1130/26  (“Norme per l’attuazione della legge 563/26 sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro”) che, all’articolo  6 - riprendendo l’elencazione degli impiegati con funzioni direttive contenuta nel Rd 1825/1924 - imponeva a tutti “i direttori tecnici e amministrativi e gli altri capi di ufficio, di servizi con funzioni analoghe, gli institori in generale e gli impiegati muniti di procura” di far parte di associazioni sindacali a sè stanti rispetto a quelle degli altri lavoratori “intellettuali e manuali”; ed all’articolo 34 richiedeva altresi che le associazioni della categoria, cosi individuata, aderissero alle federazioni delle associazioni di datori di lavoro.

5.7. L’unicità della definizione legislativa della categoria, unitamente alla sua formulazione dai limiti non agevolmente identificabili, hanno favorito durante il periodo corporativo una elaborazione giurisprudenziale, cui si è ritenuto che abbia fatto riferimento il legislatore del 1942 nell’individuare “i dirigenti” tra le categorie dei lavoratori di cui al comma 1 dell’articolo 2095 Cc.

Il superamento del sistema giuridico, nell’ambito del quale si era, come visto, collocata la disciplina dell’unitaria categoria dei dirigenti, e la perdurante mancanza di una più completa, se non esaustiva determinazione normativa della categoria, hanno nel tempo determinato notevoli incertezze essendosi seguita ‑ come è dimostrato dal panorama giurisprudenziale di cui si sono in precedenza indicati i passaggi più significativi ‑ sia la soluzione di equiparare in una ottica unitaria ‑ segnatamente per quanto attiene all’assoggettamento al potere disciplinare ed a quello datoriale di recesso ‑ gli alti dirigenti (top manager) ai c.d. dirigenti convenzionali (dirigenti medi o minori), sia quella opposta di differenziare nettamente la posizione dei dirigenti apicali dai restanti dirigenti, garantendo ai primi una tutela differenziata rispetto a quella dei secondi, cui vengono riconosciute tutte le generali tutele lavoristiche.

5.8. Il tentativo da parte della dottrina di recuperare margini di maggiore certezza nella individuazione della categoria dirigenziale si è concretizzata nell’enunciazione del principio, seguito anche in giurisprudenza (cfr. al riguardo tra le altre: Cassazione 15351/03; 13193/03), secondo cui la qualifica di dirigente spetta ‑ come si è visto e come si deve nuovamente ricordare ‑ a colui che, nell’ambito dell’azienda, abbia un ruolo caratterizzato dall’ampiezza del potere gestorio, tanto da poter essere definito un vero e proprio “alter ego” dell’imprenditore, in quanto preposto all’intera azienda o ad un ramo o servizio di particolare rilevanza, in sostanziale autonomia, posizione di tale da influenzare l’andamento e le scelte dell’attività aziendale, sia al suo interno che nei rapporti con i terzi.

6. Il perdurare di opinioni differenziate sollecita attraverso i compiti di nomofilachia di queste Su ‑ rafforzati dal recente D.Lgs 40/2006  ‑ soluzioni capaci di assicurare maggiori certezze in una materia di particolare rilevanza per le sue ricadute non limitate alla loro dimensione economica.

7. Alcune delle esposte ragioni che fanno propendere per l’estensibilità del disposto dell’articolo 7 stat. lav. a tutti i dirigenti (al di là di qualsiasi differenza riscontrabile sul piano dei poteri riconosciuti loro dal datore di lavoro) per porsi ciascuno di essi sempre in una posizione ben distinta dal datore di lavoro ‑ come emerge anche nella dirigenza pubblica (caratterizzata, ai sensi dell’articolo 5, comma 2, D.Lgs 165/01, per la drastica separazione tra funzioni di indirizzo, spettanti agli organi politici, e “funzioni amministrative gestionali” di competenza, invece, dei dirigenti) ‑ mostrano la loro utilità anche per la soluzione dell’altra problematica  che questa Corte è chiamata ad affrontare, quella cioè riguardante le conseguenze scaturenti dalla mancata (o non corretta) applicazione della disposizione statuaria.

7.1. È stato da più parti affermato che il giudice non può sovrapporre una nozione ontologica della categoria dirigenziale a quella emergente dalla contrattazione collettiva, che può qualificare come dirigenti anche lavoratori che occupino posizioni in parte diverse da quelle di più elevato spessore contenutistico proprie del c.d. alter ego dell’imprenditore. In una visione più generale è stato anche denunziato un superamento dei tradizionali criteri definitori della qualifica di dirigente, dovendosi prendere atto che l’articolazione della moderna organizzazione del lavoro ha portato con sé anche una evoluzione della prassi aziendale e della contrattazione collettiva, che ha cosi compreso nella figura dirigenziale dipendenti che, seppure privi dei poteri degli alti dirigenti, assumono tuttavia ampie responsabilità gestionali per l’alta qualificazione sul piano tecnico, scientifico e professionale che li colloca ugualmente in una posizione di vertice nel mercato del lavoro. E sempre nella stessa direzione, volta ad assegnare la dovuta rilevanza alle complesse e numerose strutture in cui si dividono sovente i vari rami dell’impresa ‑ e che necessitano di una costante collaborazione tra i preposti - è stato poi precisato che sono veri e propri dirigenti anche quelli c.d. minori, sempre che però rientrino nella previsione e definizione della contrattazione collettiva, che ne può differenziare ‑  nell’ambito dell’autonomia negoziale propria delle organizzazioni sindacali ‑ pure la disciplina attraverso una modulazione delle tutele rescissorie sulla base del grado di rappresentatività, di autonomia e di responsabilità in concreto riconosciuto.

7.2. A tale riguardo la giurisprudenza di legittimità ha statuito sin da tempo risalente che l’articolo 2095 Cc, pur prevedendo le categorie fondamentali di inquadramento dei lavoratori subordinati, consente alle associazioni di determinare contrattualmente le mansioni specifiche comprese nell’una o nell’altra categoria e, nell’ambito della stessa categoria, di porre una differenziazione per gradi e qualifiche ai sensi dell’articolo 96 disp. att. Cc, secondo l’importanza dell’impresa, sicché al fine di stabilire la qualifica spettante al prestatore di lavoro, in relazione alle mansioni svolte, è necessario fare riferimento in primo luogo al contratto collettivo, dovendo ritenersi che le indicazioni nel medesimo contenute, in quanto esprimono la volontà delle associazioni stipulanti e la loro specifica esperienza nel settore produttivo e nella relativa organizzazione aziendale “assumono valore vincolante e decisivo anche per quanto riguarda la classificazione di determinate mansioni specifiche nell’una o nell’altra categoria”(così: Cassazione 47/1983 e, più di recente, Cassazione  6448/02 che, a proposito di  un comandante di nave, ha considerato dirigente chi è qualificato tale dal contratto collettivo).

7.3. La stessa giurisprudenza ha rimarcato poi ‑ sempre con espresso e diretto riferimento alla categoria dei dirigenti ‑ che in ragione della specifica esperienza delle associazioni sindacali per quanto concerne i settori produttivi e la relativa organizzazione aziendale ed in conformità al disposto degli articoli 2095 e 2071, secondo comma, Cc, la determinazione delle qualifiche e delle mansioni dei lavoratori costituisce attribuzione primaria della contrattazione collettiva, con la conseguenza che, nel caso di licenziamento di un dipendente inquadrato come dirigente secondo la disciplina collettiva, è da escludere l’applicabilità delle norme della legge 604/66, in quanto l’articolo 10 della stessa legge limita l’operatività delle proprie disposizioni ai prestatori di lavoro che rivestano la qualifica di impiegato e di operaio ai sensi dell’articolo 2095 Cc, e quest’ultimo espressamente richiama la fonte tipica costituita dalla contrattazione collettiva (cfr: Cassazione 2637/81, nonché Cassazione 1836/92 e per riferimenti all’articolo 2095 Cc anche Cassazione 14738/99; Cassazione  3056/98); ed ha espressamente rilevato infine ‑ per quanto riguarda la delimitazione della categoria dirigenziale ‑ che nelle organizzazioni aziendali complesse può sussistere una pluralità di dirigenti di diversi livelli, con una graduazione dei loro compiti (ferma restando l’esistenza di una particolare qualità, autonomia e discrezionalità delle loro mansioni), sicché non può ritenersi perfettamente adeguata in tutte le situazioni la formula riassuntiva di alter ego dell’imprenditore a connotare la figura del dirigente (cfr Cassazione 5213/03 cit.; Cassazione 12860/98; 1899/94).

8. La diffusa consapevolezza che la specialità della funzione dirigenziale trova, come è stato efficacemente osservato forme di estrinsecazioni molteplici e non sempre riassumibili a priori in termini compiuti, ed ancora la estrema labilità dei confini tra la figura di dirigente e quella professionale di impiegato con funzioni direttive e quadro di livello più elevato (tra i quali è stabilito generalmente che vengano inquadrati i lavoratori che “siano preposti ad attività di coordinamento di servizi, uffici, enti produttivi, fondamentali dell’azienda o che svolgono attività di alta specializzazione ed importanza ai fini dello sviluppo e della realizzazione e degli obiettivi aziendali”) inducono a ritenere che la categoria dei dirigenti debba essere identificata alla stregua di quanto stabilito dalla contrattazione collettiva, non solo ‑ come detto ‑ per quanto stabilito dall’articolo 2095 Cc ma anche per ben comprensibili ragioni logico­sistematiche.

8.1. Ed invero, non può negarsi che attraverso le scelte classificatorie delle organizzazioni sindacali si pervenga all’utile risultato, in ragione della specificità delle diverse imprese e della loro spesso variegata articolazione in settori produttivi differenziati, di determinare l’attribuzione della qualifica dirigenziale a quanti ad essi vengono preposti e, nello stesso tempo, si rende possibile modulare, pur nella unitarietà della categoria, le tutele a seconda del grado di autonomia, indipendenza e responsabilità in concreto ricollegabile a ciascun tipo di preposizione.

9. Per concludere sul punto mentre la diversità contenutistica tra posizioni dirigenziali non legittima alcuna differenza di disciplina in ordine alla doverosa e generale assoggettabilità dei fatti causativi del recesso alla procedura ex articolo 7 stat.lav., a livelli di disciplina contrattuale nulla osta, di contro, a che si introduca ‑ con il consenso delle organizzazioni sindacali ‑ in luogo dell’uniformità di disciplina una divaricazione nelle tutele a secondo del diverso grado di rilevanza dei poteri a ciascun dirigente demandati.

10. La proliferazione nei sensi esposti della categoria dirigenziale ‑ in buona misura correlata, come è giusto ribadire, all’attuale assetto delle imprese (caratterizzato sovente, soprattutto per le imprese di grandi dimensioni e con diffusa ramificazione nel territorio e nel mercato, da una molteplicità di centri decisionali dotati di propria autonomia gestionale) nonché al processo tecnologico ed alle continue innovazioni (richiedenti un personale particolarmente qualificato, talora decisivo per le stesse sorti dell’impresa) – si configura come l’esito finale dell’evoluzione della figura del dirigente indotta, come è stato perspicuamente evidenziato, proprio dalla contrattazione collettiva e dalla prassi sindacale, che hanno portato al riconoscimento della qualifica dirigenziale a lavoratori in possesso di elevate conoscenze scientifiche e tecniche o, comunque, dotati di tale professionalità da collocarsi nel mercato del lavoro in condizioni di particolare forza pur non essendo investiti di quei poteri di direzione in mancanza dei quali non appare appropriato il richiamo alla nozione di alter ego dell’imprenditore.

11. Il necessitato accrescimento della categoria scrutinata non può però spingersi sino al punto di includere in essa i c.d. pseudodirigenti, cioè quei lavoratori che seppure hanno di fatto il nome ed il trattamento dei dirigenti, per non rivestire nell’organizzazione aziendale un ruolo di incisività e rilevanza analogo a quelli dei c.d. dirigenti convenzionali (dirigenti apicali, medi o minori), non sono classificabili come tali dalla contrattazione collettiva ‑ e tanto meno da un contratto individuale ‑ non essendo praticabile uno  scambio tra pattuizione di benefici economici (e di più favorevole trattamento) e la tutela garantistica ad essi assicurata, al momento del recesso datoriale, dalle leggi 604/66 e 300/70.

12. All’esito dell’iter argomentativo sviluppato può fissarsi, dunque, il seguente principio di diritto:”Le garanzie procedimentali dettate dall’articolo 7, commi 2 e 3, della legge 300/70 devono trovare applicazione nell’ipotesi di licenziamento di un dirigente -  a prescindere dalla specifica collocazione che lo stesso assume nell’impresa ‑ sia se il datore di lavoro addebiti al dirigente stesso un comportamento negligente (o in senso lato colpevole) sia se a base del detto recesso ponga, comunque, condotte suscettibili di farne venir meno la fiducia. Dalla violazione di dette garanzie, che si traduce in una non valutabilità delle condotte causative del recesso, ne scaturisce l’applicazione delle conseguenze fissate dalla contrattazione collettiva di categoria per il licenziamento privo di giustificazione, non potendosi per motivi, oltre che giuridici, logico sistematici assegnare all’inosservanza delle garanzie procedimentali effetti differenti da quelli che la stessa contrattazione fa scaturire dall’accertamento della sussistenza dell’illecito disciplinare o di fatti in altro modo giustificativi del recesso”.

12.1. E che queste debbano essere le ricadute di un recesso che, per non essere rispettoso dell’iter procedurale di cui all’articolo 7 stat. lav. , importi la non valutabilità dei fatti non ritualmente contestati, è stato, di recente, ribadito da questa Corte di cassazione con la già citata sentenza 5213/03. Questa decisione, infatti, dopo avere al riguardo affermato testualmente come il giudice delle leggi “con la sentenza 398/94 (interpretativa di rigetto di una puntuale questione di costituzionalità) ha rilevato che le conclusioni cui era pervenuta la giurisprudenza ordinaria, oltre che coerente con le decisioni della Corte Costituzionale, doveva ritenersi adeguatrice ai precetti costituzionali”, ha poi rilevato come il pronunziato dei giudici costituzionali facesse, “riferimento, evidentemente, al rilievo secondo cui sarebbe illogico attribuire all’inosservanza delle garanzie procedimentali conseguenze diverse e più gravi di quelle derivanti dall’accertamento della sussistenza dell’illecito disciplinare”(cosi in motivazione sempre: Cassazione 5213/03 cit.).

13. Le argomentazioni svolte offrono le coordinate per la soluzione della controversia sottoposta all’esame di queste Su.

13.1 E invero l’applicabilità da un lato dell’articolo 7 stat. lav. ad ogni dirigente e l’identità sul piano degli effetti di  un licenziamento non preceduto dalla procedura contestativa a quello privo di “giustificatezza” -  (cfr. per la non equiparabilità del licenziamento privo di giustificato motivo ex articolo 3 della legge 604/66 al licenziamento privo di “giustificatezza”, per il quale può rilevare qualsiasi motivo di licenziamento, purché apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore di lavoro, nel cui ambito rientra l’ampiezza dei poteri attribuiti al dirigente cfr. per tutte: Cassazione 17039/05 cui adde Cassazione 13719/06; 10113/02;  14974/00) inducono ad accogliere ‑ in un ottica decisoria volta ad esaminare congiuntamente i due motivi del ricorso in ragione della loro connessione ed interdipendenza sul piano logico‑giuridico che ne impone una trattazione unitaria ‑ il ricorso del Mari, essendo, da un lato, non controverso tra le parti che il recesso datoriale non è stato preceduto dalla contestazione degli addebiti allo stesso Mari, e non potendosi dubitare, dall’altro, che quest’ultimo ricoprisse, per i compiti assegnatigli e per l’elevata funzione svolta (di “dirigente responsabile dell’unità di staff dell’Amministratore Unico dell’Acquedotto Pugliese”) , una posizione che ‑come ha precisato l’impugnata sentenza ‑ lo poneva in stretto e diretto contatto con il titolare dei poteri gestori del suddetto Ente, del quale era il primo collaboratore e del quale non poteva non godere di totale fiducia.

13.2. In tale contesto fattuale ‑ del quale in questa sede di legittimità non è consentita alcuna rivisitazione ‑ meritano accoglimento le censure del ricorrente. Con dette censure, infatti, con le quali ‑ deducendosi un vizio di motivazione e contestualmente una violazione di legge (in relazione alla portata ed alle ricadute scaturenti da una non corretta applicazione dell’articolo 7 stat. lav.) - viene addebitata alla sentenza impugnata di avere, dopo il riconoscimento dell’applicabilità dell’articolo 7 stat. lav. al Mari, quale dirigente dell’Acquedotto, tenuto ugualmente conto, con una contraddittorietà logico-giuridica, dei fatti posti a base del recesso, al fine di negare al suddetto Mari il trattamento economico previsto dalla contrattazione collettiva nel caso di ingiustificato recesso, finendo in tal modo per considerare e valutare, come accertati e sanzionabili, addebiti in relazione ai quali non si è avuto alcun contraddittorio (per la statuizione che nell’ipotesi di licenziamento di dirigente senza il rispetto delle garanzie procedurali di cui all’articolo 7 stat. lav. siano dovuti oltre che l’indennità di mancato preavviso anche le indennità aggiuntive previste per le ipotesi di licenziamento ingiustificato cfr: Cassazione 12902/97, che evidenzia l’equiparabilità della mancanza di giusta causa alla mancata contestazione dei fatti che avrebbero potuto integrarla atteso che, diversamente opinando, per sottrarsi alla erogazione delle suddette indennità aggiuntive sarebbe sufficiente intimare il licenziamento al dirigente senza contestargli alcun addebito).

14. Per concludere il ricorso va accolto nel sensi e nei limiti sopra precisati e la impugnata sentenza va cassata.

Ai sensi dell’articolo 384 Cpc essendo necessari nuovi accertamenti di fatto, per quanto attiene all’esame delle pretese economiche avanzate in giudizio dal Mari, la causa va rimessa in sede di gravame ad un diverso giudice, che si designa nella Corte d’appello di Lecce, che nel prosieguo della presente controversia dovrà attenersi agli enunciati principi.

15. Al giudice di rinvio va rimessa anche la statuizione sulle spese del presente giudizio di cassazione.

 

PQM

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Lecce anche per le spese del presente giudizio di cassazione.

******

Per un commento, vedi il nostro articolo "Ricondotta ad unitarietà la disciplina del licenziamento dei dirigenti".

 

Il licenziamento ontologicamente disciplinare del dirigente deve essere preceduto dalla contestazione scritta dell’addebito, in base all’art. 7 Stat. lav.

 

Cass. sez. lav., 3 aprile 2003, n. 5213 - Pres. Ciciretti - Rel. Toffoli – Pm Fuzio (conf.) S. Alessandro (avv. Marziale) c. ISTITUTO DI VIGILANZA PARTENOPEA COMBATTENTI E REDUCI S.R.L. (avv. Castellano)

 

Dirigenti – Licenziamento ontologicamente disciplinare – Applicabilità dell’art.7, 2 e 3 comma, Stat. lav., implicante il contraddittorio – All’inosservanza consegue, non già nullità dell'atto, ma le conseguenze contrattualmente previste per il licenziamento non assistito da “giustificatezza” (indennità sostitutiva del preavviso e indennità supplementare).

 

Le garanzie procedimentali dettate dall'art. 7, 2° e 3° comma, della legge 20 maggio 1970 n. 300 ai fini dell'irrogazione di sanzioni disciplinari sono applicabili anche in caso di licenziamento di un dirigente d'azienda, a prescindere dalla specifica posizione dello stesso nell'ambito dell'organizzazione aziendale, se il datore di lavoro addebita al dirigente un comportamento negligente o, in senso lato, colpevole, al fine di escludere il diritto del medesimo al preavviso, oppure all'indennità c.d. supplementare eventualmente prevista dalla contrattazione collettiva in ipotesi di licenziamento ingiustificato; la violazione di dette garanzie comporta la non valutabilità dei comportamenti irritualmente posti a base del licenziamento ai fini dell'esclusione del diritto al preavviso e all'indennità supplementare.

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso al Pretore di Napoli, Alessandro S., premesso di avere lavorato alle dipendenze dell'Istituto di Vigilanza Partenopea Combattenti e Reduci s.r.l. in qualità di dirigente e con mansioni inerenti alla gestione del personale, impugnava il licenziamento intimatogli in data 25.6.1996, con cui - a suo dire - gli erano state genericamente contestate alcune mancanze disciplinari, consistite in un atteggiamento assenteista. Deduceva la violazione della procedura di contestazione di cui all'art. 7 L. n. 300/1970 e conseguentemente chiedeva la declaratoria della continuità del rapporto, con la condanna della datrice di lavoro al pagamento delle retribuzioni maturate; in subordine chiedeva l'accertamento della ingiustificatezza del recesso ai sensi del c.c.n.l. per i dirigenti delle imprese industriali, con la conseguente condanna della società al pagamento dell'indennità supplementare, nonché dell'indennità di mancato preavviso e del t.f.r. Chiedeva inoltre il pagamento della somma di L. 21.958.806, a titolo di retribuzione di giugno 1996, rateo di tredicesima e rateo di ferie.

La società convenuta, costituendosi in giudizio chiedeva il rigetto della domanda, in particolare deducendo che al licenziamento del dirigente non era applicabile l'art. 7 della L. n. 300/1970 e che il recesso aveva comunque a suo fondamento una giusta causa.

Il Pretore dichiarava la nullità del recesso, ritenuta l' applicabilità delle garanzie di cui all'art. 7 dello statuto dei lavoratori all'intera categoria dei dirigenti e rilevato che, comunque, nella specie tale applicabilità doveva ritenersi anche in base ai criteri indicati da Cass. S. U. n. 6041/1995, dato che Alessandro S. non aveva rivestito funzioni di top manager o alter ego dell'imprenditore e non poteva ritenersi sottratto a concreti poteri di disciplina da parte del datore di lavoro. In conseguenza dell'inapplicabilità dell'art. 18 L. n. 300/1970, dichiarava la giuridica continuità del rapporto di lavoro in applicazione dei principi generali in materia di nullità e condannava la convenuta al pagamento delle retribuzioni nel frattempo maturate.

La sentenza era appellata dalla datrice di lavoro. Alessandro S. resisteva a tale appello e proponeva appello incidentale condizionato al fine di riproporre le domande proposte in via subordinata in primo grado. Peraltro proponeva anche appello autonomo al fine di lamentare l'omessa pronuncia riguardo alla domanda diretta ad ottenere il pagamento della retribuzione del giugno 1996 e dei ratei di tredicesima e di ferie.

Il Tribunale di Napoli, dichiarata l'ammissibilità di entrambi gli appelli di Alessandro S., osservava, con. riferimento all'appello dell'Istituto di Vigilanza, che, diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice, non sussisteva la nullità del licenziamento per il mancato svolgimento del procedimento di contestazione degli addebiti a norma dell'art. 7 L. n. 300/1970. Infatti, in linea di diritto, doveva ritenersi tale garanzia procedimentale inapplicabile ai dirigenti, anche con riferimento alla media o bassa dirigenza, semprechè le mansioni concretamente svolte siano effettivamente proprie della qualifica dirigenziale e sia quindi applicabile il regime legale proprio del rapporto dirigenziale. D'altra parte, in linea di fatto, era stato accertato in primo grado che Alessandro S. apparteneva effettivamente alla categoria dei dirigenti (tanto che era stata esclusa l'applicabilità dell'art. 18 L. n. 300/1970, nonostante la presenza dei relativi requisiti dimensionali), anche se con funzioni da dirigente medio o addirittura minore e al riguardo si era formato il giudicato interno. Passando all'esame delle ulteriori questioni, il giudice di secondo grado escludeva che sussistesse una giusta causa di recesso, ma riteneva esistente a giustificazione del medesimo ragioni adeguate per escludere il diritto all'indennità supplementare prevista dalla contrattazione collettiva.

Al riguardo, premesso che le funzioni di Alessandro S. non riguardavano solo gli aspetti amministrativi relativi ai rapporti di lavoro, ma anche i profili inerenti alla gestione del personale, compresa per esempio l'irrogazione delle sanzioni disciplinari, il Tribunale riteneva provato che, in occasione di trattative sindacali nel corso delle procedure di mobilità, Alessandro S. si era più volte assentato o a titolo di ferie, o adducendo ragioni personali poco plausibili, quali un trasloco per cambio di abitazione, sì da costringere la società a rivolgersi a un consulente esterno.

Sul piano valutativo il Tribunale escludeva la configurabilità di una causa ostativa della prosecuzione anche provvisoria del rapporto, a norma dell'art. 2119 c.c.. Ne derivava il diritto del ricorrente all'indennità sostitutiva del preavviso.

Quanto alla disciplina contrattuale collettiva, preliminarmente osservava che la relativa nozione di "giustificatezza" del licenziamento, non coincidente con quelle legali di giusta causa e di giustificato motivo, implicava la rilevanza, in connessione con il particolare vincolo fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro, di qualunque motivo, purché "giustificato", ossia costituente la base di una decisione coerente e razionale, sorretta da un motivo apprezzabile. Ne derivava l'esclusione solo dei licenziamenti arbitrari, pretestuosi, irrazionali, capricciosi; in altri termini, sia dei licenziamenti privi qualsiasi base logica, ossia di qualunque riferimento a fatti oggettivi, suscettibili di sindacato giurisdizionale, sia di quelli basati su fatti talmente irrilevanti da condurre ictu oculi ad una valutazione di pretestuosità. Poiché nella specie nessuna di queste due ipotesi era configurabile, il licenziamento doveva ritenersi assistito da "giustificatezza".

Infine il Tribunale accoglieva le domande relative alla retribuzione di giugno 1996 e ai ratei di tredicesima e ferie.

Contro questa sentenza Alessandro S. propone ricorso per cassazione articolato in due motivi di censura.

La società intimata resiste con controricorso e contestualmente propone ricorso incidentale, con un atto contenente due motivi di censura.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso principale e quello incidentale devono essere riuniti, in quanto aventi ad oggetto la stessa sentenza.

Con il primo motivo il ricorrente in via principale denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 e 2095 c.c., dell'art. 7 L. 20 maggio 1970 n. 300 e dell'art. 2118 c.c., unitamente a carenza e contraddittorietà di motivazione. Sostiene che sussiste anche nei confronti dei dirigenti il potere disciplinare del datore di lavoro, in ragione della appartenenza degli stessi alla categoria dei lavoratori subordinati, e che, in ogni caso, deve ritenersi configurabile l'esercizio del potere disciplinare - con la conseguente applicabilità delle garanzie di cui all'art. 7, 2° e 3° comma, L. n. 300/1970, anche in caso di licenziamento disciplinare - al personale della media e bassa dirigenza, il quale non è effettivamente riconducibile alla nozione legale di dirigente, in quanto non munito della relativa ampiezza di potere gestorio e del ruolo di alter ego dell'imprenditore.

Con il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1375, 1453, 1455, 2118 c.c., nonché dell'art. 1367 c.c., in relazione agli artt. 19 e 22 del c.c.n.l. per i dirigenti di aziende industriali 3.10.1989, come modificato dagli accordi del 18.2.1992, nonché degli artt. 115 e 116 c.p.c., unitamente a carenza e contraddittorietà di motivazione. Lamenta che il giudice di merito abbia desunto dalla normativa contrattuale una nozione di giustificatezza del licenziamento non coincidente con quella indicata dalla giurisprudenza di legittimità, per l'assenza di ogni riferimento al principio della gravità dell'inadempimento (art. 1455 c.c.), e al principio di buona fede nell'esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.). Il medesimo giudice, solo incorrendo in vizio di motivazione e violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale era potuto pervenire a conclusioni in contrasto con la normativa collettiva (dal ricorrente testualmente richiamata), la quale, nell'introdurre il limite della motivazione e, di conseguenza, della giustificatezza nell'esercizio del potere di recesso, ha obbligato il datore di lavoro a non risolvere il rapporto (a parte le ipotesi di ragioni inerenti all'organizzazione produttiva) se non a fronte di un comportamento colpevole del dirigente che vanifichi l'interesse del creditore a ricevere la prestazione. Sotto altri profili lamenta il contrasto con le risultanze istruttorie degli accertamenti compiuti dal giudice di merito relativamente alle sue mansioni.

Con il primo motivo del ricorso incidentale l'Istituto di Vigilanza Partenopea Combattenti e Reduci denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 329 c.p.c. e carenza di motivazione. Osserva che non poteva ritenersi formato il giudicato interno circa la qualificabilità di Alessandro S. come dirigente medio o addirittura "mini", in quanto la parte aveva appellato integralmente la sentenza impugnata, e la statuizione pretorile secondo cui il lavoratore non era un top manager non costituiva una parte autonoma della sentenza, afferente una questione non investita dal gravame. D'altra parte, mentre il giudice d'appello non aveva fornito alcuna motivazione in ordine alla ritenuta formazione del giudicato sul punto in questione, in realtà la società datrice di lavoro aveva lamentato che l'avere considerato Alessandro S. non un top manager era il risultato di un'interpretazione volutamente forzata delle risultanze istruttorie. Con il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2118 e 2119 c.c., unitamente a carenza e contraddittorietà di motivazione. Lamenta la mancanza di motivazione circa la ritenuta insussistenza di una giusta causa, nonostante l'accertamento di fatti integranti una grave violazione del rapporto fiduciario, e la violazione dell'art. 2119 c.c., che in relazione ai dirigenti richiede una verifica penetrante circa la sussistenza della giusta causa, per la delicatezza e l'ampiezza delle loro mansioni e la particolare natura del vincolo fiduciario.

Il primo motivo del ricorso principale ripropone la problematica dell'applicabilità o meno al licenziamento dei dirigenti d'azienda delle garanzie procedimentali previste dall'art. 7 della legge 20 maggio 1970 n. 300.

Come è noto, a seguito della sentenza della Corte costituzionale 25 luglio 1989 n. 427, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del 2° e 3° comma dell'art. 7 dello statuto dei lavoratori, "nella parte in cui è esclusa la loro applicabilità al licenziamento per motivi disciplinari irrogato da imprenditore che abbia meno di sedici dipendenti", e in riferimento al principio, sancito da Cass., Sez. Un., 1° giugno 1987 n. 4823, secondo cui dette garanzie procedimentali si applicano a qualsiasi licenziamento "ontologicamente" disciplinare (in quanto motivato da un determinato comportamento del lavoratore, a lui addebitabile a titolo di colpa, intesa in senso generico), si era cominciato a formare un orientamento di questa Sezione lavoro nel senso dell'applicabilità delle medesime garanzie anche a favore dei dirigenti. Si era ritenuto, infatti, che la citata sentenza della Corte costituzionale contenesse, in ragione della sua motivazione, l'affermazione di un principio di carattere generale, applicabile a qualsiasi licenziamento disciplinare: in particolare la pronuncia evidenziava una vis expansiva dell' art. 7, che imponeva di interpretare la norma in modo da meglio adeguarla ai principi costituzionali e quindi di ritenerla applicabile anche al licenziamento disciplinare dei dirigenti (cfr. Cass. 28 novembre 1991 n. 12758, 5 dicembre 1991 n. 13097, 6 luglio 1992 n. 8205, 13 novembre 1992 n. 12223, 17 marzo 1993 n. 3146, 15 febbraio 1995 n. 1641). Tuttavia la questione venne rimessa all'esame delle Sezioni unite a seguito di un'ordinanza della Sezione lavoro, con la quale si rilevava che la specifica questione interpretativa coinvolgeva una questione di principio di particolare importanza circa gli effetti delle pronunce della Corte costituzionale: in sostanza si prospettava il problema della compatibilità del procedimento interpretativo appena ricordato con i principi relativi all'efficacia delle pronunce della Corte costituzionale, e, in particolare, con quello secondo cui il giudice ordinario non può estendere gli effetti di una pronuncia di incostituzionalità a norme diverse da quelle dichiarate incostituzionali.

Le Sezioni unite, con la sentenza 29 maggio 1995 n. 6041, sono pervenute a una conclusione opposta a quella delle citate pronunce della Sezione lavoro, attribuendo il massimo rilievo ai caratteri di specificità del rapporto di lavoro dei dirigenti e, in particolare, rilevando che allo stesso non è "connaturale" il rapporto disciplinare, a causa della scarsa compatibilità con le sue caratteristiche della relazione potere disciplinare-responsabilità disciplinare e dello svolgimento di un procedimento disciplinare; ne consegue (in assenza di particolari discipline contrattuali collettive prevedenti sanzioni disciplinari o un procedimento disciplinare, oppure l'applicabilità della stessa normativa legale limitativa dei licenziamenti) la non qualificabilità in termini disciplinari del licenziamento per giusta causa o con preavviso del dirigente, ancorché fornito di una motivazione in ottemperanza alla prescrizione in tal senso della disciplina contrattuale collettiva, anche perché sarebbe incongruo un sistema disciplinare in cui l'unica sanzione è rappresentata dal licenziamento. Con riferimento al particolare profilo che aveva dato occasione alla loro investitura, le Sezioni unite hanno, poi, osservato che occorre guardare al dispositivo delle sentenze della Corte costituzionale per identificare i loro effetti sul tessuto normativo e stabilire quale sia la norma vigente, mentre la loro motivazione esaurisce la sua funzione nel fornire la ragione socio-giuridica della decisione (e quindi, da questo punto di vista, è assimilabile ai lavori preparatori di una legge).

Considerato anche il rilievo che successivamente le è stato attribuito, deve poi ricordarsi la puntualizzazione, contenuta nella sentenza in esame, che le sue analisi e le sue conclusioni riguardavano la figura del dirigente propriamente detto e non il c.d. pseudo-dirigente, o dirigente meramente convenzionale, nel quale le mansioni concretamente attribuite e svolte non hanno le caratteristiche del rapporto propriamente dirigenziale, cioè del rapporto di lavoro di colui che appartiene alla categoria collocata al vertice della organizzazione aziendale, che svolge mansioni tali da improntare la vita dell'azienda, con scelte di respiro globale, in relazione ad una collaborazione fiduciaria con il datore di lavoro, del quale è un alter ego e dal quale riceve direttive di carattere generale che attua con ampia autonomia, esercitando i poteri propri dell'imprenditore.

Nella successiva giurisprudenza della Sezione lavoro il principio della non configurabilità di una responsabilità disciplinare nei confronti dei dirigenti d'azienda è stato talvolta richiamato nell'ambito delle argomentazioni poste a sostegno della tesi della non omogeneità tra la nozione legale di giustificativo motivo di licenziamento e quella di "giustificatezza" (in base agli accordi contrattuali collettivi in materia) del licenziamento dei dirigenti (Cass. 12 ottobre 1996 n. 8934), ma il medesimo principio, e quello - per le Sezioni unite - correlato della (normale) non configurabilità di un licenziamento disciplinare dei dirigenti, non appaiono essersi affermati in maniera chiara e incondizionata con riferimento alla specifica materia dei licenziamenti potenzialmente qualificabili come ontologicamente disciplinari e alla complessiva categoria dei dirigenti. Infatti nelle successive, sia pur non numerose, pronunce si è dato particolare rilievo ai passi della motivazione della sentenza delle S.U. relative all'applicabilità dei principi ivi enunciati ai soli dirigenti veri e propri posti al vertice dell' organizzazione aziendale, e si è così in sostanza presupposta la non applicabilità dei principi enunciati dalle S.U. alla media e bassa dirigenza (Cass. 27 novembre 1997 n. 12001, 11 febbraio 1998 n. 1434; cfr. anche Cass. 26 febbraio 2000 n. 2192 e 21 luglio 2001 n. 9950). In questa maniera ai fini in esame si è intaccata l'unitarietà della categoria dei dirigenti, perché tratti caratterizzanti della stessa - come risulta dall'ampia giurisprudenza di questa stessa Corte formatasi soprattutto, ma non solo, in relazione alle controversie in materia di inquadramento - trovano specificazione anche nelle previsioni della contrattazione collettiva dei vari settori produttivi (ove in concreto applicabile ai singoli rapporti), stante anche il riferimento alla contrattazione collettiva contenuto nell'art. 2095 c.c. (cfr. Cass. 10 settembre 1988 n. 5154, 8 marzo 1990 n. 1877, 9 giugno 1990 n. 5608, Cass. 3 aprile 1992 n. 4103, 25 febbraio 1994 n. 1899, 23 marzo 1998 n. 3056, 30 dicembre 1999 n. 14738; cfr. anche Cass. 29 aprile 1981 n. 2637 e 15 febbraio 1992 n. 1836, che riguardano la rilevanza della appartenenza alla categoria di dirigente ai fini dell'inapplicabilitità della normativa legale limitativa dei licenziamenti) e, d'altra parte, detti tratti caratterizzanti non appaiono esaurientemente delineati se non si tiene presente che nelle organizzazioni aziendali complesse può sussistere una pluralità di dirigenti di diversi livelli, con graduazione dei loro compiti (ferma restando l'esigenza di una particolare qualità, autonomia e discrezionalità delle loro mansioni), sì che non può ritenersi perfettamente adeguata in tutte le situazioni la formula riassuntiva di alter ego dell'imprenditore a connotare la figura del dirigente (Cass. 3 aprile 1992 n. 4103, cit., 25 febbraio 1994 n. 1899, 28 dicembre 1998 n. 12860; cfr., anche Cass. 21 marzo 1980 n. 1922 e Cass. 15 febbraio 1992 n. 1836 cit., a proposito del licenziamento dei dirigenti minori). A integrazione dell'esposto quadro giurisprudenziale, deve peraltro ricordarsi che una recente sentenza (Cass. 12 novembre 1999 n. 12571), richiamandosi ai principi di cui a S.U. n. 6041/1995, ha ritenuto l'inapplicabilità in genere della disciplina limitativa dei licenziamenti ai dirigenti non di vertice, mentre per un'altra ancora più recente sentenza (Cass. 12 settembre 2002 n. 13326) il riconoscimento della qualifica di dirigente in difetto della corrispondenza della stessa alle mansioni effettivamente svolte non può ritenersi in contrasto con norme imperative o l'ordine pubblico, pur se presenta anche aspetti sfavorevoli per il lavoratore, nel caso in cui la relativa pattuizione risponda ad un apprezzabile interesse delle parti e non abbia finalità elusive di norme imperative (nella specie è stata ritenuta valida l'apposizione di un termine al rapporto).

In realtà l'interpretazione che la Sezione lavoro tende a dare della sentenza delle Sezioni unite introduce (oppure fa venire alla luce) un elemento di (potenziale) debolezza nel procedimento argomentativo di tale sentenza, poiché la categoria legale dei dirigenti, alla luce degli orientamenti interpretativi sopra ricordati, non si esaurisce nei soli dirigenti di vertice. Può comunque rilevarsi che rimangono aspetti di incertezza circa l'effettiva portata della demarcazione compiuta dalle Sezioni unite e dalla successiva giurisprudenza tra dirigenti in senso proprio e pseudo-dirigenti o dirigenti convenzionali. Non può escludersi, infatti, che le Sezioni unite, pur presupponendo una nozione piuttosto rigorosa e restrittiva della categoria dirigenziale, di fatto abbiano inteso riferirsi a tutti i dirigenti, con esclusione solamente dei soggetti per i quali l'attribuzione della qualifica avvenga, sulla base di una convenzione individuale, in deroga ai principi di legge e alla normativa contrattuale collettiva che concorre con la legge a delineare i confini della categoria (così come in seguito ritenuto da Cass. 23 marzo 1998 n. 3056, cit., ai fini dell' applicabilità della disciplina legale limitativa dei licenziamenti). Infatti le S.U., lungi dall'invitare il giudice di rinvio a compiere gli accertamenti necessari al fine di stabilire i precisi caratteri dello specifico rapporto dirigenziale ai fini dell'applicazione del principio di diritto enunciato - che fa generico riferimento al "rapporto di lavoro dei dirigenti industriali" -, si sono limitate a rilevare che non era controverso che il resistente fosse un "dirigente propriamente detto". Invece Cass. n. 1434/1998, cit., nel cassare la sentenza impugnata che aveva ritenuto applicabile l'art. 7 al licenziamento di un dirigente, ha sottolineato come la pronuncia di merito avesse omesso ogni accertamento in ordine alla qualità di dirigente propriamente detto o meno del lavoratore e, nell' enunciato principio di diritto, ha affermato che l'inapplicabilità dell'art. 7 riguarda solo il rapporto di lavoro dei dirigenti che si trovano in posizione apicale.

In definitiva, l'esposto quadro giurisprudenziale giustifica un riesame della questione. Questo collegio ritiene di dover fare riferimento, al riguardo, alla complessiva categoria dirigenziale, la quale, in linea di massima, rileva nella sua unitarietà non solo ai fini dell'applicazione delle discipline contrattuali ma anche ai fini dell'applicazione delle norme di legge che fanno riferimento alla relativa qualifica. Non è peraltro necessario approfondire in questa sede la problematica della rilevanza della qualifica dirigenziale riconosciuta senza l'attribuzione di funzioni adeguate di per sé a dar luogo al relativo diritto, poiché il ricorrente non ha posto a base della sua domanda la contestazione dell'appartenenza alla categoria dirigenziale e comunque non è stata impugnata la statuizione sul punto del giudice di appello, essendo si limitato il ricorrente a dedurre l'applicabilità, comunque, dell'art. 7 L. n. 300/1970 ai dirigenti non di vertice e l'azienda a censurare la statuizione del giudice di appello nella sola parte in cui ha ritenuto già formato il giudicato sulla non appartenenza di Alessandro S. al novero dei top manager.

E' opportuno prendere preliminarmente in considerazione i dubbi circa la possibilità di affrontare la questione in termini di interpretazione dell' art. 7 e dei principi al riguardo enunciati dalla Corte costituzionale.

In realtà dubbi di tal genere non sembrano fondati. E' certamente incontestabile che l'esistenza di una pronuncia della Corte costituzionale dichiarativa della illegittimità costituzionale di una determinata disposizione di legge non autorizza, in linea di principio, l'autorità giudiziaria a disapplicare una diversa disposizione di legge, ancorché possa essere evidente la sua illegittimità costituzionale per la ricorrenza delle stesse ragioni alla base della sentenza della Corte costituzionale. Tale conclusione, peraltro, riguarda il caso di norme poste da disposizioni di legge distinte e, in ogni caso, presuppone che non sia possibile pervenire, sul piano interpretativo, a una lettura della disposizione di legge conforme ai principi costituzionali, perché in tale ultimo caso, deve invece farsi applicazione del diverso principio, ripetutamente enunciato dalla Corte costituzionale e recepito anche da questa Corte, secondo cui i principi costituzionali costituiscono un basilare criterio di interpretazione della legge e il giudice, ogni volta che ciò sia possibile, deve procedere ad una interpretazione coerente con gli stessi, piuttosto che proporre la questione di illegittimità costituzionale davanti al giudice delle leggi.

Nel caso in esame sia il tenore dell'art. 7, sia il tenore del complessivo dibattito dottrinale e giurisprudenziale, sia il modo di affrontare la questione da parte della Corte costituzionale e il tenore delle sue pronunce, dimostrano che la questione della applicabilità delle garanzie procedimentali di cui ai commi secondo e terzo dell'art. 7 L. 300/1970 ai licenziamenti c.d. ontologicamente disciplinari, cioè fondati sull'addebito al lavoratore di comportamenti in contrasto con i suoi doveri, è senza forzature qualificabile come questione risolvibile sul piano meramente interpretativo. In particolare, può ricordarsi che la Corte costituzionale con la sentenza 30 novembre 1982 n. 204 ha manifestato chiaramente il convincimento che la questione sottopostale dell'applicabilità delle garanzie di cui a primi tre commi dell'art. 7 ai licenziamenti disciplinari, per i quali la normativa legislativa o contrattuale non richiami dette disposizioni, fosse risolvibile sul piano interpretativo, visto che - peraltro in coerenza con il tenore della motivazione - ha emesso una pronuncia interpretativa di accoglimento ("dichiara l'illegittimità costituzionale dei comma 1°, 2° e 3° dell' art. 7 …. interpretati nel senso che .…", in connessione con la poco precedente pronuncia di segno contrario Cass., Sez. Un., 28 marzo 1981 n. 1781. Un pieno riconoscimento della natura interpretativa delle questioni dibattute è contenuto nella pronuncia delle Sezioni unite l° giugno 1987 n. 4823 sulla rilevanza al fini in questione dei c.d. licenziamenti ontologicamente disciplinari. Al riguardo è sufficiente ricordare che le Sezioni unite dichiaratamente attribuirono a detta sentenza della Corte costituzionale una portata sostanziale maggiore di quella risultante dal suo dispositivo (di tenore correlato ai termini in cui storicamente si era verificato un contrasto tra le pronunce della Cassazione e a quelli della loro composizione da parte delle sezioni unite), al fine di dare attuazione alle più profonde ragioni alla base della pronuncia della stessa, in applicazione del canone ermeneutico secondo cui le leggi devono essere interpretate in conformità ai principi costituzionali. Può anche ricordarsi che la Corte costituzionale nella sentenza 26 maggio 1995 n. 193 ha dato per scontato che la sentenza n. 427 del 1989 potesse rilevare anche in relazione a rapporti di lavoro domestico, i quali sono (tuttora) regolati dal principio del licenziamento ad nutum, ma certo non sono rapporti di lavoro con imprese aventi meno di sedici dipendenti.

Circa il merito della questione si osserva quanto segue.

Il principio della rilevanza "ontologicamente disciplinare" di un licenziamento motivato da un comportamento negligente o colpevole del lavoratore, affermato da Cass. S.U. 4823/1987 (ai fini dell'applicabilità delle norme sull'attuazione del contraddittorio prima della intimazione del recesso), sulla scorta dei principi enunciati - anzi, si potrebbe dire, ritenuti palesi e incontestabili - dalla sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 1982, ha indubbiamente trovato una conferma e un rafforzamento nelle sue basi fondative nella sentenza di quest'ultima Corte n. 427 del 1989, poiché è stato così riconosciuto che la qualificabilità come sanzione del licenziamento è correlata "alle ragioni del licenziamento e ai motivi che lo determinano" e non "alle conseguenze che derivano dall'eventuale declaratoria di illegittimità del licenziamento", in contrapposizione alla tesi precedentemente enunciata da Cass., Sez. Un., 5 novembre 1987 n. 8189 (sentenza che, rappresentando il c.d. diritto vivente, giustificava l'adozione da parte della Corte costituzionale di una pronuncia di accoglimento, la quale peraltro ha avuto ad oggetto non già parti del testo della disposizione ma norme dal medesimo desumibili). Contrapposizione tra principi costituzionali e diritto vivente evidenziata dal fatto che, secondo detta ultima sentenza, in caso di recedibilità ad nutum del rapporto di lavoro, essendo irrilevante il motivo del licenziamento, salvo il caso della sua illiceità, il licenziamento, anche in caso di enunciazione del motivo, è soggetto alla (sola) disciplina di cui agli artt. 2118 e 2119 c.c., con l'eventuale diritto del lavoratore all'indennità sostitutiva del preavviso in caso di insussistenza della contestata giusta causa, restando esclusa invece l'applicabilità dell'obbligo di previa contestazione dell'addebito a norma dell'art. 7 L. n. 300/1970.

La tesi che il carattere intrinsecamente sanzionatorio del licenziamento con addebito possa dipendere appunto anche da un'incidenza dell'addebito stesso diversa e minore rispetto a quella della validità ed efficacia del licenziamento, già implicita nelle argomentazioni di Corte Cost. n. 427/1989, ha trovato conferma nel principio enunciato dalle Sezioni unite con la sentenza 18 maggio 1994 n. 4844 (e altre sostanzialmente coeve) e nelle successive pronunce della Sezione lavoro (Cass. 22 aprile 1997 n. 3450, 23 marzo 1998 n. 3045, 3 ottobre 1998 n. 9835, 26 giugno 1999 n. 6646, 23 ottobre 2000 n. 13959), secondo cui la violazione delle regole procedimentali sulla contestazione dell'addebito determinano non la nullità del licenziamento ma un tipo di illegittimità dell'atto comportante conseguenze correlate al grado di stabilità del rapporto di lavoro e inerenti alla non rilevanza, quanto agli effetti dell'atto risolutivo, degli eventuali inadempimenti del lavoratore non debitamente contestati. Appare importante anche il rilievo di Corte Cost. n. 427/1989, secondo cui il licenziamento per motivi disciplinari "può incidere sulla sfera morale e professionale del lavoratore e crea ostacoli o addirittura impedimenti alle nuove occasioni di lavoro che il licenziato deve poi necessariamente trovare". Appare indubbio, infatti, che si tratta di considerazioni pertinenti anche con riferimento al rapporto di lavoro dirigenziale.

In questo quadro, appare indubitabile che l'applicabilità della garanzia del previo contraddittorio al licenziamento con addebiti si ricolleghi alla natura e ai potenziali effetti dello stesso, piuttosto che all'effettivo inquadrarsi del licenziamento con addebito in un quadro di complessive sanzioni disciplinari anche conservative concretamente previste dalla contrattazione collettiva e dal codice disciplinare predisposto dal datore di lavoro. Del resto, le stesse Sezioni unite con la sentenza del n. 4823 del 1987 sui licenziamenti ontologicamente disciplinari rilevarono come il potere del datore di lavoro di intimare un licenziamento in tronco o un licenziamento per giustificato motivo trova il suo fondamento innanzitutto nelle relative disposizioni di legge, sì che la mancata osservanza della norma di cui al primo comma dell'art. 7 sulla pubblicità del codice disciplinare in linea di massima non incide sul potere del datore di lavoro di procedere ad un licenziamento per mancanze.

Si ritiene, quindi, che, nell'esaminare l'ammissibilità della nozione di licenziamento c.d. ontologicamente disciplinare in riferimento al rapporto di lavoro dei dirigenti d'azienda, non assuma valore dirimente accertare se il potere esercitato in sede di licenziamento dal datore di lavoro, che abbia esteriorizzato e attribuito rilevanza giuridica ad un addebito nei confronti del prestatore di lavoro, si inquadri in un più ampio quadro di poteri disciplinari da lui esercitabili nei confronti dei dirigenti, tanto più che, in definitiva, neanche le Sezioni unite con la sentenza in materia del 1995 hanno ritenuto l'esistenza di un'assoluta incompatibilità tra rapporto dirigenziale e la previsione in via convenzionale di un sistema di sanzioni disciplinari o dell'assoggettamento del licenziamento a vincoli analoghi a quelli previsti per le altre categorie di personale.

Non si ritengono quindi effettivamente sussistenti ragioni che giustifichino la non applicabilità ai dirigenti delle garanzie di cui ai commi secondo e terzo dell'art. 7 L. n. 300/1970, in caso di licenziamento qualificabile come "ontologicamente disciplinare". Al riguardo non appare rilevante neanche la circostanza che per tale categoria di personale possa essere configurabile un maggior numero di ipotesi di giusta causa che prescindano da profili di colpa, perché pur tuttavia di norma la giusta causa di licenziamento presuppone un comportamento colpevole del lavoratore. Anche in caso di licenziamento motivato dal datore di lavoro in relazione alle previsioni in tal senso degli accordi collettivi per i dirigenti industriali o di altri settori produttivi, alfine di sottrarsi al pagamento della indennità supplementare prevista da tali accordi in caso di licenziamento ingiustificato, il tipo di motivazione può essere idoneo a imprimere al licenziamento una connotazione sanzionatoria o ontologicamente disciplinare, senza che, neanche in questa ipotesi, possano rilevare in senso contrario le specificità del rapporto di lavoro del dirigente e la correlativa possibile rilevanza di una più ampia gamma di motivazioni del recesso (in raffronto alla disciplina legale sul giustificato motivo). E' indubbio, infatti, che tale circostanza non fa venire meno la specifica rilevanza della contestazione di inadempimenti o altri comportamenti colpevoli, anche extra lavorativi, incidenti in maniera particolare sul rapporto fiduciario proprio per tale loro connotazione soggettiva. In realtà sussiste in molte situazioni l'interesse, per il datore di lavoro che intenda esimersi dal pagamento dell'indennità supplementare, se non addirittura dal preavviso di licenziamento, di far valere proprio i profili di contrasto tra il comportamento tenuto dal dirigente e quello che sarebbe stato per lui doveroso.

Correlativamente deve ritenersi applicabile in tali situazioni, a tutela del dirigente, il principio di civiltà giuridica di previa contestazione dell'addebito (audiatur et altera pars), a cui più volte si è richiamata la Corte costituzionale, che lo ha ribadito anche nella motivazione della sentenza l° giugno 1995 n. 220, in cui si è rilevato come "in generale, l'esercizio di un potere disciplinare riferito allo svolgimento di qualsiasi rapporto di lavoro subordinato (di diritto privato o di pubblico impiego) ovvero di lavoro autonomo e professionale - potere che implica un rapporto di supremazia per cui un soggetto (normalmente, ma non necessariamente, il datore di lavoro) può, con un suo atto unilaterale, determinare conseguenze in senso lato negative (quali quelle insite nelle sanzioni disciplinari) nella sfera soggettiva di un altro soggetto (il prestatore di lavoro) in ragione di un comportamento negligente o colpevole di quest'ultimo - deve rispondere al principio di proporzione e alla regola del contraddittorio".

Può anche ricordarsi che la possibile specifica rilevanza del tipo di giustificazione addotta dal datore di lavoro nel motivare il licenziamento di un dirigente, in riferimento alla c.d. stabilità obbligatoria dei relativi rapporti disciplinata dalla contrattazione collettiva, risulta confermata da una delle più recenti pronunce di questa Corte in materia di c.d. giustificatezza del licenziamento del dirigente, là dove, sia pure con il richiamo di disposizioni di carattere generale del codice civile sui rapporti contrattuali, si è osservato che, nei casi in cui ci si trovi di fronte a condotte di inesatto o parziale adempimento, è necessario valutare la fattispecie in base alla gravità dell'inadempimento, secondo il criterio della proporzionalità e della incidenza del comportamento sull'affidamento circa l'ulteriore corretta esecuzione del contratto (Cass. 12 febbraio 2000 n. 1591).

Deve ribadirsi invece il principio secondo cui la violazione delle prescrizioni di cui all'art. 7, commi 2° e 3°, L. n. 300/1970 non determina la nullità dell'atto di recesso, ma le conseguenze derivanti, a seconda della disciplina legale o contrattuale applicabile nel singolo caso, dalla non valutabilità dei fatti non ritualmente contestati. Del resto la Corte costituzionale, con la sentenza 23 novembre 1994 n. 398 (interpretativa di rigetto di una puntuale questione di costituzionalità), ha rilevato che le conclusioni cui era pervenuta la giurisprudenza ordinaria, oltre che coerente con le decisioni della Corte costituzionale, doveva ritenersi adeguatrice ai precetti costituzionale (si fa riferimento, evidentemente, al rilievo secondo cui sarebbe illogico attribuire all'inosservanza delle garanzie procedimentali conseguenze diverse e più gravi di quelle derivanti dall'accertamento della sussistenza dell' illecito disciplinare).

In conclusione, può formularsi il seguente principio di diritto: "le garanzie procedimentali dettate dall'art. 7, 2° e 3° comma, della legge 20 maggio 1970 n. 300 ai fini dell'irrogazione di sanzioni disciplinari sono applicabili anche in caso di licenziamento di un dirigente d'azienda, a prescindere dalla specifica posizione dello stesso nell'ambito dell'organizzazione aziendale, se il datore di lavoro addebita al  dirigente un comportamento negligente o, in senso lato, colpevole, al fine di escludere il diritto del medesimo al preavviso, oppure all'indennità c.d. supplementare eventualmente prevista dalla contrattazione collettiva in ipotesi di licenziamento ingiustificato; la violazione di dette garanzie comporta la non valutabilità dei comportamenti irritualmente posti a base del licenziamento ai fini dell'esclusione del diritto al preavviso e all'indennità supplementare".

Deve ritenersi fondata la censura di cui al primo motivo del ricorso principale, perché il giudice di appello, in contrasto con il principio sopra enunciato, ha escluso l'applicabilità nei confronti dei dirigenti delle garanzie procedimentali previste dai commi 2° e 3° del citato art. 7. D'altra parte, lo stesso giudice ha accertato che nella specie il dirigente è stato licenziato con la motivazione di avere tenuto comportamenti in contrasto con i suoi doveri professionali e questo accertamento di fatto non è stato censurato in questa sede (al contrario, nel controricorso-ricorso incidentale è ribadito che il licenziamento era basato sulla contestazione di comportamenti in contrasto con i doveri del dipendente e incidenti sul rapporto fiduciario). Che, poi, non vi sia stata previa contestazione dell' addebito - oltre che pacifico - è stato accertato già dal giudice di primo grado e non più posto in discussione. Ne consegue, quanto alla condanna al pagamento dell'indennità di mancato preavviso, la mera correzione della motivazione della sentenza impugnata, visto che la spettanza del relativo diritto deve essere riconosciuta in base alla violazione del secondo comma dell'art. 7 L. n. 300/1970, la quale ha rilievo preliminare e assorbente. Ne deriva, invece, la cassazione della sentenza impugnata quanto al rigetto della domanda avente ad oggetto l'indennità supplementare.

Rimangono assorbiti il secondo motivo del ricorso principale e i due motivi del ricorso incidentale.

Il giudice di rinvio, specificato in dispositivo, farà applicazione, per quanto di ragione, del principio di diritto già indicato e provvederà anche in merito alle spese di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi, accoglie il primo motivo del ricorso principale, assorbito l'altro motivo del ricorso principale e il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa anche per le spese alla Corte d'Appello di Salerno.

Così deciso in Roma il 13 novembre 2002 (depositato il 3 aprile 2003)

(Torna alla Sezione Mobbing)