Tutela reale per il
dirigente pubblico demansionato e poi licenziato - Danno all'immagine,
morale, esistenziale - Precisazioni
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Cass., SS.UU. civili, 16
febbraio 2009, n. 3677 - Pres. Prestipino - Rel. La Terza -
Comune di Limbiate (avv. Valentini, Pepe) c. D'Amato D. e Ficarra P.
(avv. Fontana, Moshi)
Riforma della pianta organica del
Comune - Illegittimità giurisdizionale - Atto presupposto e atto di gestione del
rapporto di lavoro - Reintegro nell'incarico dirigenziale pubblicistico -
Risarcimento danno all'immagine - E' di carattere oggettivo, conseguente alla
descrizione e valutazione giudiziale delle vicende del rapporto, e spetta senza
prove - Danno morale e danno esistenziale, invece, non spettano in carenza di
allegazione del relativo pregiudizio e non sono cumulabili.
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In caso di
illegittimità, per contrarietà alla legge, del provvedimento di riforma
della pianta organica di un comune, con soppressione delle posizioni
dirigenziali, questo deve essere disapplicato dal giudice ordinario, con
conseguente perdita di effetti dei successivi atti di gestione del
rapporto di lavoro, costituiti dalla revoca dell'incarico dirigenziale,
non sussistendo la giusta causa per il recesso ante tempus dal contratto
a tempo determinato che sorge a seguito del relativo conferimento, con
diritto del dirigente alla riassegnazione di tale incarico
precedentemente revocato, per il tempo residuo di durata, detratto il
periodo di illegittima revoca.
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Il danno all'immagine è
risarcibile senza necessità di prove, in quanto non si tratta di un
pregiudizio di carattere soggettivo, che, come dagli ultimi arresti
giurisprudenziali, ha necessariamente bisogno di allegazione e prova, ma
di pregiudizio discendente oggettivamente dalla vicenda giudiziaria
connessa al rapporto posta all'esame giudiziale. Il danno c.d.
esistenziale, non costituendo una categoria autonoma di pregiudizio, ma
rientrando nel danno morale, non può essere liquidato separatamente solo
perché diversamente denominato, e non è quindi cumulabile col danno
morale. Il diritto al risarcimento del danno morale, in tutti i casi in
cui è ritenuto risarcibile, non può prescindere dalla allegazione da
parte del richiedente, degli elementi di fatto dai quali desumere
l'esistenza e l'entità del pregiudizio, fermo restando che
per quanto attiene alla prova del danno,
le SS.UU. hanno ammesso che essa possa fornirsi anche per presunzioni
semplici.
Svolgimento del processo
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Il Comune di Limbiate
impugnava davanti alla Corte d'appello di Milano la statuizione emessa dal
locale Tribunale, con cui erano state accolte la maggior parte delle domande
proposte da D. D. e F. P., rispettivamente dirigente amministrativo e
dirigente dei servizi alla persona presso il predetto Comune, i quali
avevano lamentato la illegittimità del provvedimento di sospensione
cautelare e poi di revoca dell'incarico dirigenziale, adottato dal Sindaco,
nonché la illegittimità della delibera della Giunta comunale, prima di
dichiarazione di eccedenza e poi di collocamento in disponibilità
dall'agosto 2002.
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I dirigenti avevano eccepito
la mancata individuazione dei motivi della revoca dell'incarico ed il
mancato rispetto della relativa procedura; avevano lamentato altresì: a) la
sospensione dell'incarico protrattasi per oltre due mesi; b) la
dequalificazione a seguito dell'incarico dirigenziale a staff, non
avendo mai svolto alcuna attività; c) la nullità della procedura di modifica
della dotazione organica dei dirigenti e della connessa procedura di
mobilità, cui erano stati sottoposti, per la mancata osservanza dell'iter
previsto sia dalla legge, sia dalla contrattazione collettiva, sia
dall'accordo integrativo decentrato del Comune di Limbiate, anche perché la
nuova dotazione organica aveva previsto la creazione di due posizioni di
staff poi eliminate a distanza di soli due mesi; d) che detti atti
amministrativi di organizzazione essendo illegittimi, avrebbero potuto
essere disapplicati dall'AGO, con conseguente venir meno degli atti di
esecuzione e cioè della dichiarazione di eccedenza e della successiva
collocazione in disponibilità; e) la illegittimità della procedura di
disponibilità di cui all'art. 33 del TU 165/2001; f) il carattere comunque
discriminatorio dei provvedimenti presi nei loro confronti, dovuti alla loro
diversa collocazione politica rispetto alla nuova giunta; chiedevano quindi
dichiararsi la illegittimità dei suddetti atti di gestione del rapporto,
previa disapplicazione degli atti amministrativi presupposti; la reintegra
nel posto di lavoro ed il risarcimento dei danni patrimoniali, e alla
lesione della loro professionalità, dei danni esistenziali, dei danni
all'immagine e del danno morale.
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La Corte d'appello, con la
sentenza in epigrafe indicata, confermava la illegittimità della revoca
degli incarichi dirigenziali, nonché la illegittimità del collocamento in
disponibilità, confermava la misura del danno patrimoniale e del danno
all'immagine come liquidato dal primo Giudice, riduceva il danno alla
professionalità al 50% di quanto determinato dal Tribunale per il D. ed
all'80% per il F., rigettava la domanda di risarcimento dei danni morali,
mentre, disattendendo l'appello incidentale dei dirigenti, rigettava la
domanda di reintegrazione o riammissione in servizio nelle precedenti
mansioni dirigenziali.
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La Corte territoriale
respingeva preliminarmente l'eccezione di difetto di giurisdizione sollevata
dal Comune, sul rilievo che la revoca dell'incarico dirigenziale rientra
nella giurisdizione dell'AGO ai sensi della previsione espressa dell'art. 63
del d.lgs. 165/2001, mentre, quanto agli atti amministrativi presupposti,
cd. di macro organizzazione, come quelli relativi alla approvazione della
nuova dotazione organica dell'ufficio, i dirigenti ne avevano chiesto solo
la disapplicazione ai fini della declaratoria di illegittimità del
provvedimento in disponibilità.
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Quanto alla legittimità della
sospensione prima e della revoca poi dell'incarico dirigenziale, la Corte
adita negava la esistenza degli addebiti posti a fondamento del
provvedimento, e ne affermava il carattere discriminatorio per motivi
politici e sindacali. Rilevato poi che non era stata impugnata la sentenza
di primo grado sulla esistenza del demansionamento seguito ai provvedimenti
di sospensione e revoca dell'incarico dirigenziale e di successiva
collocazione a staff, la Corte territoriale passava all'esame dei
provvedimenti di messa in disponibilità, di cui il Comune sosteneva la
legittimità. La Corte - esaminati gli atti che avevano dato luogo alla messa
in disponibilità, e precisamente le delibere n. 91 e n. 119 del 2002 di
modificazione della dotazione organica, con i quali era stata decisa la
eliminazione della posizione di staff in cui il D. ed il F. erano
stati collocati da ultimo, e quindi la riduzione delle posizioni
dirigenziali ad una sola, e cioè a quella preposta al settore tecnico - ne
affermava la illegittimità per vari profili: sia perché posta in essere in
violazione dell'art. 6 comma 14 legge 127/97, che impone la rilevazione dei
carichi di lavoro come presupposto indispensabile per la rideterminazione
delle dotazioni organiche (disposizione non abrogata dall'art. 274 del TU),
sia perché detta variazione non era stata disposta in coerenza con la
programmazione triennale del fabbisogno di personale, come prescritto
dall'art. 39 della legge 449/97, sia perché non vi era stata una specifica
concertazione con i rappresentanti sindacali della dirigenza pubblica ai
sensi dell'art. 4 del CCDI, mentre non era sufficiente la prova, fornita dal
Comune, di avere effettuato una comunicazione alle OO.SS. territoriali
confederali e di avere sottoscritto con le RSU e le OO.SS., in data 20
maggio 2002, un verbale sindacale in cui si dava atto di una concertazione
positiva sul nuovo regolamento comunale. La illegittimità degli atti
presupposti si riverberava sui conseguenti provvedimenti di eliminazione
delle posizioni dirigenziali a staff, in cui il D. ed il F. erano
stati collocati e della successiva collocazione in disponibilità. Questi
atti riguardanti i due dirigenti erano quindi illegittimi, ma non nulli, non
essendo stati posti in essere per motivi discriminatori, avendo l'operazione
di riorganizzazione interessato una serie di posizioni ed essendo riservata
alla discrezionalità amministrativa, il che impediva l'accoglimento della
domanda di riammissione nelle precedenti mansioni, non tanto perché vige un
generale divieto di applicazione dell'art. 2103 cod. civ., ma perché il
periodo di messa in disponibilità era ormai praticamente concluso alla data
della decisione di primo grado, scadendo il termine di 24 mesi il 10 agosto
2004, con la conseguenza che l'inadempimento contrattuale era ormai
suscettibile solo di tutela risarcitoria. Tuttavia all'epoca di
presentazione del ricorso il rapporto di lavoro non era ancora cessato,
essendo la cessazione avvenuta per il F. solo alla scadenza dei 24 mesi di
collocazione in disponibilità, per cui solo da tale data avrebbe potuto
sorgere l'interesse dei due dirigenti ad impugnare il recesso ed a chiedere
la condanna ripristinatoria.
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Quanto al risarcimento dei
danni, confermato il diritto alle differenze retributive tra quanto
spettante nella precedente posizione dirigenziale e quanto percepito, sia
per il periodo di collocazione a staff dal primo aprile al 31 luglio
2002, sia per tutto il periodo di 24 mesi di messa in disponibilità, la
Corte, in parziale accoglimento dell'appello del Comune, rigettava le
domande di risarcimento del danno morale e, ritenuta eccessiva la
determinazione del danno alla professionalità, la riduceva al 50% delle
retribuzioni di fatto per il D. e all'80% per il F., sul rilievo che il
primo, nel 2004, aveva trovato altra collocazione dirigenziale e che aveva
svolto un'altra collaborazione per l'intero anno 2003, mentre il secondo
aveva svolto per minor tempo un'attività lavorativa limitata.
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Avverso detta sentenza il
Comune di Limbiate propone ricorso con tre motivi nei confronti del D. che a
sua volta ha proposto ricorso incidentale con cinque motivi illustrati da
memoria, cui il Comune ha risposto con controricorso.
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Il F. ha proposto ricorso
avverso la medesima sentenza con otto motivi, ed il Comune di Limbiate ha
resistito con controricorso e ricorso incidentale con cinque motivi
illustrati da memoria, cui il F. ha risposto con controricorso. Il Comune ha
presentato anche memoria.
Motivi della decisione
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Va preliminarmente disposta la
riunione dei quattro ricorsi ex art. 335 cod. proc. civ..
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Con il primo motivo del
ricorso principale proposto dal Comune di Limbiate nei confronti del D. si
denunzia la carenza di giurisdizione dell'AGO in relazione agli atti
amministrativi di adozione di una nuova dotazione organica e di approvazione
del nuovo regolamento comunale degli uffici di cui alle delibere 91 e 119
del 2002, nell'esercizio del potere conferito dall'art. 2 del TU 165/2001,
in applicazione dell'art. 63 primo comma dello stesso testo normativo.
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Sostiene il Comune ricorrente
che, essendo stato impugnato l'atto di determinazione del nuovo organico del
personale, in applicazione della normativa sopra indicata, dovrebbe essere
dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo anche in relazione
agli effetti riflessi ed indiretti del medesimo atto (la eliminazione della
dirigenza a staff e della messa in disponibilità).
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Il motivo attinente alla
giurisdizione non è fondato.
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1. L'art. 63 del TU 30
marzo 2001 n. 165 devolve al giudice ordinario in funzione del giudice del
lavoro “tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze
della P.A. ... ancorché vengano in questione atti amministrativi
presupposti. Quando questi ultimi siano rilevanti ai fini della decisione,
il giudice li disapplica se illegittimi”.
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Ne consegue, com'è stato già
affermato (tra le tante Cass. 13169 del 5 giugno 2006) proprio in tema di
variazione della pianta organica di un ente pubblico, che, in materia di
lavoro pubblico privatizzato, dal sistema di riparto di giurisdizione
delineato dall'art. 63, comma primo, d.lgs. n. 165 del 2001, risulta che non
è consentito al titolare del diritto soggettivo, che risente degli effetti
di un atto amministrativo, di scegliere, per la tutela del diritto, di
rivolgersi al giudice amministrativo per l'annullamento dell'atto, oppure al
giudice ordinario per la tutela del rapporto di lavoro previa
disapplicazione dell'atto presupposto, atteso che, in tutti i casi nei quali
vengano in considerazione atti amministrativi presupposti, ove si agisca a
tutela delle posizioni di diritto soggettivo in materia di lavoro pubblico,
è consentita esclusivamente l'instaurazione del giudizio davanti al giudice
ordinario, nel quale la tutela è pienamente assicurata dalla disapplicazione
dell'atto e dagli ampi poteri riconosciuti a quest'ultimo dal secondo comma
del menzionato art. 63.
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Non si dubita che in forza del
rapporto di lavoro “privatizzato” intercorso con il Comune la posizione
fatta valere dal D. e dal F. abbia la consistenza del diritto soggettivo e
che tutte le controversie relative agli atti di gestione del rapporto
rientrino nella giurisdizione dell'AGO. Nella specie i due dirigenti si
dolgono direttamente degli atti di gestione del rapporto - e cioè della
revoca degli incarichi dirigenziali e poi, a seguito della soppressione, di
tutte le posizioni dirigenziali, della dichiarazione di eccedenza e della
successiva messa in mobilità - rispetto ai quali il provvedimento di
variazione della pianta organica del Comune era evidentemente l'atto
presupposto degli atti di gestione medesimi. I dirigenti chiedono quindi,
non già l'annullamento, ma la disapplicazione, sostenendone la
illegittimità, di questo atto presupposto, al limitato fine di sottrarre
fondamento ai successivi atti di gestione del rapporto di lavoro.
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1.2. Il Comune invoca
invero alcune pronunzie di questa Corte con cui, in relazione alle
variazioni della pianta organica dell'ente pubblico, o comunque in relazione
ad atti organizzativi di carattere generale, è stata affermata la
giurisdizione del giudice amministrativo. In quei casi, però, contrariamente
a quanto si verifica nella specie, gli atti organizzativi non incidevano
direttamente su atti di gestione del rapporto di lavoro, perché, pur
pregiudicando in qualche modo la posizione dei lavoratori, avevano sui
singoli rapporti solo efficacia riflessa.
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Ed infatti con l'ordinanza n.
21592 dell'8 novembre 2005 si è affermata la giurisdizione del giudice
amministrativo in relazione ad un ricorso proposto dalle associazioni
sindacali che avevano impugnato un regolamento della Regione Lazio, in
materia di inquadramento del personale, il quale aveva consentito il
conferimento della qualifica dirigenziale a numerosi dipendenti. È evidente
che in tal caso, in primo luogo, la posizione delle OO.SS. non era di
diritto soggettivo, ed inoltre il regolamento non aveva direttamente inciso
sui singoli rapporti di lavoro, ma spiegava su di essi solo una incidenza
riflessa, di talché nei confronti del medesimo regolamento erano
configurabili solo situazioni di interesse legittimo.
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Nello stesso senso, con
l'ordinanza n. 15904 del 13 luglio 2006, è stata affermata la giurisdizione
amministrativa in un caso in cui alcuni dipendenti del Ministero
dell'Istruzione, inquadrati nei profili professionali di assistente
amministrativo, avevano impugnato l'organico provinciale dell'ATA per l'anno
scolastico 2003-2004, e ne avevano chiesto l'annullamento, asserendo che gli
stessi erano inficiati nella parte in cui avevano disposto una riduzione di
fatto degli organici, in misura rilevante e non prevedibile, così ledendo le
loro legittime aspettative alla chiesta mobilità presso altri Istituti
scolastici della Provincia. Anche in questo caso, dunque, il provvedimento
organizzativo di carattere generale non incideva direttamente sui rapporti
di lavoro, essendo dedotta solo una lesione di “aspettative”.
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Ed ancora, nel caso di cui
all'ordinanza n. 8363/2007, è stata dichiarata la giurisdizione del giudice
amministrativo in una fattispecie in cui veniva contestato un atto
organizzatorio consistente nella delibera della Giunta comunale di modifica
del regolamento del personale, con la previsione della possibilità di
procedere alla copertura di un posto vacante di dirigente mediante stipula
di un contratto di lavoro a tempo determinato.
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In tutti questi casi dunque il
provvedimento amministrativo non veniva in considerazione quale atto
presupposto della gestione del rapporto di lavoro, perché il nuovo modulo
organizzativo così introdotto non incideva direttamente sulla posizione del
singolo dipendente, ma su queste aveva solo una efficacia indiretta e,
d'altra parte, il pregiudizio di cui astrattamente avrebbero potuto
risentire poteva essere eliminato, nelle fattispecie sopra ricordate, non
già dalla disapplicazione, ma dall'annullamento vero e proprio del
provvedimento amministrativo.
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In osservanza alla nuova
formulazione dell'art. 384 cod. proc. civ. va dunque affermato il principio
di diritto per cui “Le controversie concernenti gli atti di
organizzazione dell'amministrazione rientrano nella giurisdizione del
giudice ordinario, e sono passibili di disapplicazione, in tutti i casi in
cui costituiscano provvedimenti presupposti di atti di gestione del rapporto
di lavoro del pubblico dipendente”.
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2. Con il secondo motivo si
denunzia la violazione degli artt. 4 CCDI settore dirigenti e dell'art. 25,
commi 3, 4, e 5, dell'art. 26 comma 3, 7 e 11 del CCNL comparto regioni enti
locali settore dirigenti. Si sostiene che l'art. 4 del CCDI prevede come
oggetto di concertazione le variazioni della dotazione organica della
dirigenza, nel caso di cui agli artt. 25, commi 3, 4, e 5 e 26, in
particolare del comma 3 del CCNL. Tuttavia, né l'art. 25, né l'art. 26
riguarderebbero il caso di specie; inoltre l'art. 26 prende in
considerazione la dotazione organica e la riorganizzazione per
l'accrescimento dei livelli qualitativi e quantitativi dei servizi esistenti
con ampliamento delle competenze, mentre, nella specie, la nuova dotazione
organica aveva condotto ad un decremento del numero dei dirigenti, di talché
non verrebbero in applicazione le ipotesi in cui è prevista la
concertazione, ma quelle in cui è prescritta solo la preventiva
informazione, che era stata data il giorno 27 marzo 2003. Inoltre, le
rappresentanze sindacali erano state convocate per la concertazione che si
era tenuta all'esito del rinvio del precedente incontro del 20 maggio 2002;
ed ancora, per le eccedenze di personale inferiori alle 10 unità non sarebbe
necessaria la concertazione, ma solo la informativa (art. 33 comma I d.lgs
165/2001 e art. 7 CCNL dirigenti).
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Neppure questo motivo merita
accoglimento dal momento che la contrarietà alla legge della delibera di
variazione della dotazione organica dei dirigenti adottata dal Comune era
stata ravvisata, dalla sentenza impugnata, in forza di una pluralità di
argomentazioni, e quindi sulla base di molteplici rationes decidendi,
su alcune delle quali non sono state svolte censure. Ed infatti non è stata
censurata la contrarietà della delibera né all'art. 6 comma 14 della legge
127/97 (che prescrive, per i comuni con più di quindicimila abitanti, la
rilevazione dei carichi di lavoro quale presupposto indispensabile per la
rideterminazione delle dotazioni organiche), né la contrarietà all'art. 39
comma I della legge 449/97 (che obbliga gli organi di vertice delle
amministrazioni alla programmazione triennale del fabbisogno di personale).
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Ne consegue che la statuizione
sulla illegittimità del provvedimento trova conferma sulla base dei punti
non impugnati.
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Dal rigetto di tale secondo
motivo discende quindi la irrevocabilità della dichiarazione di contrarietà
alla legge delle delibere di variazione dell'organico dei dirigenti nn. 91 e
119 del 2002.
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3. Con il terzo mezzo
si censura la sentenza per violazione dell'art. 2697 e 1223 cod. civ., per
mancata prova sulla esistenza del danno esistenziale e quindi la erroneità
della statuizione sul riconoscimento del danno all'immagine ravvisato dalla
Corte di Milano, in quanto derivante in re ipsa dalla dequalificazione,
senza allegazione, né prove della sua esistenza da parte del richiedente che
ne sarebbe onerato.
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Neppure questo motivo è
fondato.
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Va premesso che, riguardo alla
posizione del D., il Comune ricorrente non ha censurato la sentenza nella
parte in cui ha affermato la illegittimità dei provvedimenti di sospensione
prima e di revoca poi dell'incarico dirigenziale: rimane quindi
irretrattabile la statuizione che ha negato l'inadempimento del dirigente e
quindi la invalidità della collocazione a staff e dei successivi atti
di dichiarazione di eccedenza e di messa in disponibilità.
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In questo contesto la Corte
territoriale ha riconosciuto un solo risarcimento del danno non
patrimoniale, ossia il danno all'immagine, fondando la statuizione su
dati certi, costituiti dalla vicenda di cui il D. era stato oggetto: prima
la sospensione cautelare per due mesi dall'incarico dirigenziale e
successivamente la revoca, con collocazione a staff (dove nessuna
funzione gli era stata affidata, circostanza non contestata dal Comune) e
quindi la dichiarazione di eccedenza e la collocazione in disponibilità. Non
si tratta quindi di pregiudizio di carattere soggettivo, che, come dagli
ultimi arresti giurisprudenziali, ha necessariamente bisogno di allegazione
e prova, ma di pregiudizio discendente oggettivamente dalla vicenda
giudiziaria posta all'esame della Corte territoriale.
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Il ricorso principale proposto
dal Comune nei confronti del D. va quindi integralmente respinto.
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4. Va esaminato a
questo punto il ricorso incidentale proposto dal Comune nei confronti del
F., essendo preliminare sotto il profilo logico.
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Con il primo motivo il Comune
eccepisce la carenza di giurisdizione dell'AGO, motivo che va respinto per
le considerazioni già svolte al punto 1.
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Parimenti va rigettato il
secondo motivo (violazione dell'art. 4 CCDI dirigenti e dell'art. 25 commi
3, 4 e 5, dell'art. 26 comma 3, dell'art. 7 e 11 del CCNL comparto regioni
enti locali e difetto di motivazione) in quanto analogo a quello già dedotto
con il ricorso principale nei confronti del D..
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Con il terzo mezzo si lamenta
difetto di motivazione, per avere la Corte territoriale ritenuto acclarata
la discriminazione a danno del F., perché le prove testimoniali
dimostrerebbero che costui non aveva partecipato ad alcune riunioni e che il
direttore generale aveva avuto contatti diretti con il personale, mentre,
sostiene il Comune, la mancata precisazione dei tempi starebbe a dimostrare
che ciò si era verificato nel periodo di sospensione e in quello
immediatamente successivo di revoca dell'incarico dirigenziale.
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Neppure questo motivo merita
accoglimento, in quanto tendente non già ad evidenziare incoerenze e mancata
considerazione di circostanze decisive da parte della sentenza impugnata, ma
a sollecitare un diversa riconsiderazione dei fatti, dal momento che la
dedotta mancanza di motivazione sulle date, non vale a smentire le
circostanze poste a base della statuizione: sospensione per due mesi
dall'incarico dirigenziale, successiva revoca e collocazione a staff
senza assegnazione di alcuna funzione, abolizione delle posizioni di
staff, dichiarazione di eccedenza e di collocazione in disponibilità,
tutto ciò in mancanza di prova, che il Comune avrebbe dovuto fornire, di
inadempimenti, da parte del dirigente, tali da giustificare dette iniziative
non essendo invece stata proposta censura avverso le affermazioni della
sentenza impugnata sulla insussistenza degli addebiti mossi.
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Il quarto motivo, relativo al
riconoscimento del risarcimento del danno all'immagine, va parimenti
rigettato, per le ragioni già esposte in relazione al terzo motivo del
ricorso principale proposto dal Comune nei confronti del D..
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Con il quinto mezzo si
denunzia difetto di motivazione, perché, da un lato, la Corte territoriale
avrebbe ritenuto legittimo il provvedimento di messa in disponibilità, e
poi, contraddittoriamente lo avrebbe ritenuto risarcibile.
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Il motivo è infondato, giacché
la Corte territoriale non ha affermato la legittimità della collocazione in
disponibilità, avendo testualmente rilevato che la illegittimità dell'atto
presupposto, ossia il provvedimento di definizione della nuova pianta
organica, si riverberava sugli atti esecutivi posti in essere, e cioè sulla
revoca degli incarichi dirigenziali di staff e sulla successiva
procedura di messa in disponibilità di cui all'art. 33 del d.lgs. n. 165 del
2001. La Corte di Milano, pur escludendo la nullità della stessa delibera di
determinazione della pianta organica, avendo negato che fosse stata posta in
essere per motivi discriminatori, e cioè al solo fine di liberarsi dei
dirigenti, ne ha però sancito la illegittimità (derivata) e tanto è
sufficiente a sorreggere la statuizione risarcitoria.
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Conclusivamente il ricorso
incidentale proposto dal Comune nei confronti del F. va integralmente
rigettato.
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5. Con il primo motivo
del ricorso principale il F. lamenta la violazione degli artt. 1418, 1419,
1453 e 2058 cod. civ. in ordine alla mancata reintegrazione nelle funzioni
di dirigente del settore, perché la Corte territoriale, pur avendo affermato
la natura discriminatoria della revoca dell'incarico dirigenziale, non lo
aveva reintegrato nelle funzioni, mentre sarebbe irrilevante la circostanza
ravvisata dalla sentenza impugnata per cui il periodo di disponibilità era
spirato alla data di presentazione del ricorso, attenendo detta circostanza,
tutt'al più, alla fase dell'esecuzione. Con il secondo motivo del ricorso
principale del F., che corrisponde al primo motivo del ricorso incidentale
del D., si denunzia difetto di motivazione, per non avere la Corte di Milano
riconosciuto che la delibera di attuazione del regolamento - nella parte in
cui definiva la nuova dotazione organica con la soppressione delle posizioni
dirigenziali prima esistenti, nonché i successivi atti di revoca
dell'incarico di staff, la dichiarazione di eccedenza e la messa in
mobilità - fosse nulla o inefficace perché adottata per motivi
discriminatori. Si assume che la Corte non avrebbe valutato le circostanze
precedenti alla modifica della dotazione organica, della cui necessità il
Comune non aveva mai neppure allegato prova.
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Il F., con il terzo mezzo, che
corrisponde al secondo motivo del D., si duole della parte della sentenza
già oggetto della censura precedente, per violazione dell'art. 416 cod.
proc. civ. e dell'art. 2697 cod. civ., perché il Comune non avrebbe mai
chiesto di provare l'esistenza di motivi organizzativi ed economici sottesi
al provvedimento adottato sulla nuova dotazione organica.
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Il F., con il quarto motivo,
che corrisponde al terzo del D., censura ancora la parte della sentenza
impugnata di cui ai precedenti motivi secondo e terzo, per violazione degli
artt. 115 e 116 cpc e 2727 e 2729 cod. civ., prospettando l'esistenza di un
motivo illecito che avrebbe ispirato il provvedimento di modifica della
dotazione organica, come dimostrato dalle prove testimoniali attestanti il
carattere discriminatorio della revoca degli incarichi, il quale
costituirebbe presunzione del carattere parimenti discriminatorio della
soppressione dei posti dirigenziali, considerato anche che, in meno di sei
mesi, la struttura organizzativa del Comune era stata stravolta per ben tre
volte: prima ampliando le posizioni dirigenziali da tre a quattro, poi
istituendo altre due posizioni dirigenziali di staff, per poi
diminuirle ad una sola unità. Pertanto la natura discriminatoria dei
provvedimenti impugnati comporterebbe il ripristino della situazione
contrattuale originaria precedente, e quindi la prosecuzione de iure del
rapporto dirigenziale, con diritto alla corresponsione delle retribuzioni
maturate fino alla effettiva riammissione in servizio.
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Con il quinto motivo si
censura la sentenza per violazione degli artt. 1453 e 2058 cod. civ. e dei
principi costituzionali che tutelano l'autonomia e l'indipendenza del
dirigente pubblico, garantendogli un regime di stabilità del rapporto,
nonché dei principi dell'ordinamento che privilegiano la tutela
satisfattoria dell'interesse leso.
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Si reiterano le considerazioni
già svolte nel primo motivo sul diritto alla reintegrazione nel posto
dirigenziale già occupato in forza del regime di stabilità che
caratterizzerebbe il pubblico dirigente.
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6. Va preliminarmente
rigettata la eccezione, sollevata dal Comune, di inammissibilità del
controricorso e del ricorso incidentale del D. per avere costui depositato
un fascicolo “ricostituito” contenente documenti non prodotti nei gradi di
merito, giacché ciò comporta la inammissibilità del deposito di nuovi
documenti senza però inficiare la validità né del controricorso né del
ricorso incidentale.
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7. I suddetti primi
cinque motivi del ricorso principale F. e i primi tre motivi del ricorso
incidentale D., che per la loro connessione vanno trattati congiuntamente,
sono fondati.
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Va rilevato in primo luogo che
gli effetti economici pregiudizievoli della illegittima revoca dell'incarico
dirigenziale hanno trovato riparazione nella condanna inflitta al Comune al
pagamento delle differenze retributive tra quanto spettante con il
mantenimento dell'incarico medesimo e la minor somma di fatto percepita.
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Resta, ed è questa la
questione fatta valere con i motivi suddetti, il tema del diritto dei
dirigenti al ripristino delle funzioni dirigenziali.
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La Corte di Milano ha
affermato che la delibera di soppressione delle posizioni dirigenziali era
stata effettuata con violazione di legge (statuizione che resta ormai ferma
a seguito del rigetto dei ricorsi del Comune) e che la illegittimità di
questo atto presupposto si riverberava in primo luogo sulla revoca degli
incarichi dirigenziali originariamente ricoperti (dirigente del settore
amministrazione generale e di dirigente del settore servizi alla persona) e
quindi sulla revoca del collocamento in posizione di staff e
successivamente ancora sulla messa in disponibilità. Tuttavia ha rilevato
nel prosieguo che la collocazione in disponibilità, pur essendo illegittima,
non era però nulla per motivi discriminatori, e ciò non consentiva la
reintegra nell'incarico dirigenziale.
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La Corte territoriale,
ritenendo che solo l'esistenza del motivo discriminatorio consentirebbe di
pervenire alla richiesta riammissione nell'incarico dirigenziale, ha
erroneamente omesso di considerare le conseguenze derivanti dalla pur
dichiarata disapplicazione dell'atto presupposto, e quindi tutti gli effetti
che questo provocava sull'atto di gestione del rapporto costituito dalla
revoca ante tempus dell'incarico medesimo.
-
8. Tuttavia, il
ravvisato difetto di motivazione può condurre all'accoglimento delle censure
in esame, e quindi all'annullamento della sentenza, solo risolvendo in senso
positivo la questione relativa al diritto del dirigente alla riassegnazione
dell'incarico, revocato prima della scadenza prefissata, in conseguenza
della illegittimità del provvedimento presupposto, essendo evidente che, in
caso negativo, il dispositivo sarebbe conforme a diritto e si tratterebbe
solo di correggere la motivazione ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 384
cod. proc. civ.
-
È noto che il legislatore
della “privatizzazione” del rapporto di pubblico impiego non ha introdotto
la giurisdizione esclusiva in capo al giudice ordinario, alla stregua di
quanto previsto in capo al giudice amministrativo nella precedente
disciplina. Dallo “sdoppiamento” di attribuzione tra giudice del
provvedimento e giudice dell'atto di gestione, emergono profili problematici
quanto all'ambito di protezione riservato al dirigente (ma anche a qualsiasi
dipendente pubblico), stante la portata lesiva che nei suoi confronti può
assumere un atto generale di organizzazione, sia ex se, sia in quanto
presupposto illegittimo per l'assunzione di un atto paritetico. E detta
efficacia lesiva risulta ancor più accentuata da quella giurisprudenza (la
già citata Cass. n. 13169/2006) che, proprio in tema di variazione della
pianta organica di un ente pubblico, ritiene che non è consentito al
titolare del diritto soggettivo, che risente degli effetti di un atto
amministrativo, di scegliere, per la tutela del diritto, di rivolgersi al
giudice amministrativo per l'annullamento dell'atto, oppure al giudice
ordinario per la tutela del rapporto di lavoro previa disapplicazione
dell'atto presupposto.
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Invero, una volta ricondotte
le espressioni della potestà amministrativa nei ristretti limiti segnati
dall'art. 2 primo comma d.lgs. 165/2001, non sono molti i casi in cui un
atto amministrativo di autorganizzazione può essere astrattamente
considerato come immediatamente e direttamente lesivo degli interessi
dell'impiegato pubblico; è vero invece che, come nella specie, sono molto
frequenti i casi in cui l'atto di gestione del rapporto non è altro che la
mera applicazione dell'atto di autorganizzazione.
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Nel caso in esame il
provvedimento organizzatorio di eliminazione di tutte le posizioni
dirigenziali (ad esclusione di quella tecnica) ha avuto come immediata
conseguenza la revoca degli incarichi prima della scadenza prefissata, la
dichiarazione di eccedenza dei due dirigenti e la loro messa in
disponibilità. In altri casi l'effetto lesivo per i pubblici dipendenti può
derivare da una ristrutturazione della pianta organica con soppressione di
alcuni uffici, che determina la collocazione in disponibilità del personale
che vi era addetto.
-
Tuttavia lo stretto nesso tra
il provvedimento amministrativo di autorganizzazione e l'atto paritetico di
gestione del rapporto di lavoro, non può condurre a negare che, anche in
questi casi, il giudice ordinario possa conoscere della situazione giuridica
soggettiva dedotta dal lavoratore. Infatti ciò che il giudice del lavoro
deve accertare è la legittimità degli atti di gestione del rapporto, nella
specie dell'atto di revoca degli incarichi dirigenziali, e degli atti
conseguenti.
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8.1. Poiché l'art. 63
del d.lgs. n. 165 del 2001 conferisce a giudice del rapporto la possibilità
di verificare la legittimità del provvedimento amministrativo presupposto di
autorganizzazione (giacché il datore di lavoro pubblico è astretto in ciò ad
una precisa disciplina, a differenza del datore di lavoro privato) e di
disapplicarlo ove ne ravvisi la contrarietà alle regole, la disapplicazione
conduce necessariamente a negare ogni effetto, tra le parti, all'atto
generale di organizzazione, privando così di fondamento l'atto di gestione
consequenziale.
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Osserva tuttavia parte della
dottrina che il giudice, nel ripristinare la posizione sostanziale lesa del
dipendente, non può però ignorare che l'atto organizzativo generale, non
solo esiste, ma sarebbe anche definitivamente stabile, non essendo stato
eliminato dal giudice amministrativo, a cui nessuno ha fatto ricorso, e non
potendo essere annullato dal giudice ordinario, di talché il giudice del
lavoro potrebbe fornire solo quei rimedi che siano compatibili con il
provvedimento generale presupposto. Nella specie, non essendovi più le
posizioni dirigenziali rivestite dai ricorrenti, non sarebbe possibile
disporre la riassegnazione agli interessati delle precedenti mansioni
dirigenziali, e non resterebbe che la tutela risarcitoria.
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8.2. Vi è tuttavia da
considerare che la legge non ha escluso l'operatività del meccanismo della
disapplicazione dell'atto organizzativo illegittimo nei casi in cui, come
nella specie, l'atto di gestione del rapporto di lavoro sia meramente
applicativo di esso; risulta quindi “insito nel sistema” che il
provvedimento di macro organizzazione (non sottoposto ad annullamento) da un
lato rimanga operativo in via generale, e, dall'altro, essendo privato di
effetti nei confronti del dipendente interessato, non valga a sorreggere
l'atto di gestione consequenziale, comportando il pieno ripristino della
situazione precedente, non potendosi ipotizzare una disapplicazione “dimidiata”,
ristretta al solo aspetto risarcitorio.
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Nel caso in esame,
l'attribuzione del solo risarcimento non costituirebbe effettiva
“disapplicazione” dell'illegittimo provvedimento presupposto, perché questo
continuerebbe a giustificare la revoca dell'incarico dirigenziale e i
conseguenti provvedimenti che sono culminati, per quanto riguarda il F., con
il licenziamento a seguito del decorso dei ventiquattro mesi di collocazione
in disponibilità.
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Invero, in tal caso, la
situazione che si viene a creare non sembra dissimile rispetto a quanto
avviene nel lavoro privato, in relazione alle pronunzie di reintegra nel
posto di lavoro conseguenti a sentenze che ravvisino la illegittimità del
licenziamento e che intervengano a distanza di tempo: anche in questi casi
la posizione lavorativa, il reparto, le funzioni precedentemente svolte
possono non esistere più, eppure non per questo si è mai ritenuto di negare
la pronunzia di reintegra nel posto di lavoro, giacché una cosa è il tipo di
provvedimento che il giudice può emettere, altra cosa è la sua idoneità ad
essere eseguito in forma specifica. Si tratta invero dei consueti limiti che
incontra la tutela del lavoratore e che attengono non già al giudizio di
cognizione ma alla fase esecutiva, in cui peraltro non può escludersi
l'adempimento spontaneo da parte del datore. D'altra parte, ai sensi del
secondo comma dell'art. 63 d.lgs. 165/2001 il giudice adotta, nei confronti
delle PA, tutti i provvedimenti di accertamento, costitutivi e di condanna
ritenuti necessari e, precisa la disposizione, che siano richiesti dalla
natura dei “diritti” tutelati, e non vi è dubbio che il dipendente vanti un
diritto soggettivo, di talché è consentito condannare la PA ad un facere
a seguito della disapplicazione. Precisandosi che, in ogni caso, la
riassegnazione è limitata alla durata residua di cui all'atto di
attribuzione originario, dedotto il periodo di illegittima sottrazione.
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8.3. Quanto poi alle
conseguenze che si determinano sul piano del rapporto di lavoro, il
conferimento dell'incarico dirigenziale determina (accanto al rapporto
fondamentale a tempo indeterminato, secondo il cd. sistema “binario”)
l'instaurazione di contratto a tempo determinato, il quale, ai sensi
dell'art. 2119 cod. civ., è passibile di recesso prima della scadenza solo
per giusta causa, che nella specie fu indicata dal Comune come dovuta al
provvedimento di soppressione delle posizioni dirigenziali, il quale però,
essendo contra legem, non può valere come giustificazione. La norma
codicistica citata non precisa le conseguenze che si determinano sul
rapporto di lavoro a tempo determinato in caso in cui il recesso ante tempus
non sia assistito dalla giusta causa, tuttavia, a fronte dell'inadempimento
datoriale, i dirigenti ben potevano chiedere, in forza dell'art. 1453 cod.
civ., la condanna dell'Amministrazione all'adempimento, per cui, una volta
ritenuta illegittima la revoca, riacquista efficacia l'originario
provvedimento di conferimento dell'incarico dirigenziale. Infatti, a seguito
di questo, la posizione del dirigente aveva ormai acquisito lo spessore del
diritto soggettivo allo svolgimento, non più di un qualsiasi incarico
dirigenziale, ma proprio di quello specifico che era stato attribuito.
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Va ancora negato, sotto questo
aspetto, il parallelismo tra dirigenti pubblici e dirigenti privati, giacché
se è vero che a questi ultimi è negata la tutela ripristinatoria, è vero
anche che per essi il rapporto è a tempo indeterminato, mentre l'incarico
conferito al dirigente pubblico è esclusivamente temporaneo, di talché la
pronunzia di ripristino ha in ogni caso effetti limitati, inevitabilmente
circoscritti alla scadenza prefissata.
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8.4. Si trae conferma
della possibilità di riassegnazione dell'incarico dirigenziale illecitamente
revocato dai principi enunciati in molteplici pronunzie della Corte
Costituzionale in materia del cd. spoil system (Corte Cost. n.
233/2006, n. 104 del 2007, n. 103/2007) e quindi in casi che, benché
innegabilmente diversi da quello in esame, fanno tuttavia comprendere i
parametri entro i quali va collocata la tutela riservata al dirigente
pubblico, in termini di effettività.
-
Nell'ultima pronunzia citata
il Giudice delle leggi ha affermato che la prevista contrattualizzazione
della dirigenza non implica che la pubblica amministrazione abbia la
possibilità di recedere liberamente dal rapporto di ufficio e che
quest'ultimo, sul quale si innesta il rapporto di servizio sottostante, pur
se caratterizzato dalla temporaneità dell'incarico, deve essere connotato da
specifiche garanzie, in modo tale da assicurare la tendenziale continuità
dell'azione amministrativa e una chiara distinzione funzionale tra i compiti
di indirizzo politico-amministrativo e quelli di gestione, affinché il
dirigente possa esplicare la propria attività in conformità ai principi di
imparzialità e di buon andamento dell'azione amministrativa ex art. 97
Costituzione. Ha aggiunto la Corte che, a regime, la revoca delle funzioni
legittimamente conferite ai dirigenti può essere conseguenza solo di una
accertata responsabilità dirigenziale, in presenza di determinati
presupposti ed all'esito di un procedimento di garanzia puntualmente
disciplinato.
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Inoltre, con la sentenza n.
381 del 2008, la medesima Corte ha dichiarato la illegittimità
costituzionale della legge delle Regione Lazio n. 8 del 2007, con la quale,
in caso di decadenza dalla carica conseguente a pronunzie della Corte
Costituzionale, si dava alla Giunta regionale la facoltà alternativa o di
procedere al reintegro nelle cariche, con ripristino dei relativi rapporti
di lavoro, oppure di procedere ad un'offerta di equo indennizzo. In detta
pronunzia la Corte ha affermato che in questi casi “forme di riparazione
economica, quali, ad esempio, il risarcimento del danno o le indennità
riconosciute dalla disciplina privatistica in favore del lavoratore
ingiustificatamente licenziato, non possono rappresentare, nel settore
pubblico, strumenti efficaci di tutela lesi da atti illegittimi di rimozione
di dirigenti amministrativi...”.
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Inoltre, con la sentenza n.
3929 del 20 febbraio 2007 questa Corte ha affermato che “dichiarato nullo e
inefficace il licenziamento di un dirigente comunale per motivi disciplinari
inerenti alla responsabilità dirigenziale, il dirigente stesso ha diritto
alla reintegrazione nel rapporto di impiego e nel rapporto di incarico,
oltre che alle retribuzioni sino all'effettiva reintegrazione.”.
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9. Resta da affermare
che anche il D., pur avendo reperito, durante il periodo di collocazione in
disponibilità un altro incarico dirigenziale, ha ugualmente interesse alla
pronunzia, al pari di quanto avviene per il dipendente privato illecitamente
licenziato che chieda la tutela giudiziale, pur avendo reperito nelle more
un'altra occupazione.
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10. La sentenza
impugnata in questi punti della controversia va quindi cassata, affermandosi
il seguente principio di diritto: “in caso di illegittimità, per contrarietà
alla legge, del provvedimento di riforma della pianta organica di un comune,
con soppressione delle posizioni dirigenziali, questo deve essere
disapplicato dal giudice ordinario, con conseguente perdita di effetti dei
successivi atti di gestione del rapporto di lavoro, costituiti dalla revoca
dell'incarico dirigenziale, non sussistendo la giusta causa per il recesso
ante tempus dal contratto a tempo determinato che sorge a seguito del
relativo conferimento, con diritto del dirigente alla riassegnazione di tale
incarico precedentemente revocato, per il tempo residuo di durata, detratto
il periodo di illegittima revoca.”.
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11. Il F. con il sesto
mezzo, che corrisponde al quarto mezzo del D., denunzia violazione dell'art.
2059 cod. civ. e degli articoli 1, 2, 3, 4, 35, 97 e 98 Costituzione, nonché
degli artt. 115 e 116 cpc e 185 cp per avere, il giudice dell'appello,
rigettato la domanda di condanna al risarcimento dei danni morali per
mancanza di reato, trattandosi di diritti inviolabili della persona.
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Con il settimo mezzo il F. e
con il quinto il D. denunziano ancora violazione dell'art. 2059 cod. civ. in
relazione all'art. 323 c.p. nonché degli artt. 1374 e 1375 cod. civ. per
avere escluso la sentenza impugnata l'ipotesi di reato di abuso d'ufficio a
danno di essi ricorrenti e difetto di motivazione.
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Con l'ottavo motivo il F.
denunzia difetto di motivazione in relazione al mancato accoglimento del
risarcimento del danno esistenziale.
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Questi ultimi motivi, che per
la loro connessione vanno trattati congiuntamente, non sono fondati.
-
Le Sezioni unite di questa
Corte, con la sentenza n. 26972 dell'11 novembre 2008 si sono espresse sulla
risarcibilità del danno morale ex art. 2059 cod. civ. La pronunzia ha
ribadito che il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi previsti
dalla legge, i quali si dividono in due gruppi: le ipotesi in cui la
risarcibilità è prevista in modo espresso (fatto illecito integrante reato)
e quello in cui la risarcibilità, pur non essendo prevista da norma di legge
ad hoc, deve ammettersi sulla base di una interpretazione costituzionalmente
orientata dell'art. 2059 cod. civ., per avere il fatto illecito vulnerato in
modo grave un diritto della persona direttamente tutelato dalla legge. Nella
medesima sentenza è stato aggiunto che il danno non patrimoniale costituisce
una categoria ampia ed onnicomprensiva, all'interno della quale non è
possibile ritagliare ulteriori sotto categorie. Pertanto il c.d. danno
esistenziale, inteso quale “il pregiudizio alle attività non remunerative
della persona” causato dal fatto illecito lesivo di un diritto
costituzionalmente garantito, costituisce solo un ordinario danno non
patrimoniale, che non può essere liquidato separatamente sol perché
diversamente denominato.
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Ciò vale a rigettare l'ultimo
motivo di ricorso del F., non avendo il danno esistenziale richiesto una
valenza autonoma e quindi non essendo cumulabile in relazione al danno
morale.
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Infine per quanto attiene alla
prova del danno, le SS.UU. hanno ammesso che essa possa fornirsi anche per
presunzioni semplici, fermo restando però l'onere del danneggiato di
allegare gli elementi di fatto da cui desumere l'esistenza e l'entità del
pregiudizio.
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Applicando detti principi
nella fattispecie in esame, si deve concludere che, anche volendo
riconoscere il diritto al risarcimento dei danni morali, i motivi vanno
rigettati per l'assorbente ragione che, essendosi le censure concentrate
esclusivamente sulla questione della risarcibilità, nessuna allegazione in
fatto è stata effettuata sulla esistenza del pregiudizio, né si è lamentato
la mancata valutazione, da parte della Corte territoriale, di elementi in
fatto dedotti nei gradi di merito e non valutati. Il danno, infatti, non è
“in re ipsa” (nello stesso senso Cass. SU n. 6572 del 24 marzo 2006), ma va
dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento,
assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla
complessiva valutazione di precisi elementi, che solo dall'interessato
possono essere dedotti, si possa, attraverso un prudente apprezzamento,
coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno,
facendo ricorso, ai sensi dell'art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni
generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento
presuntivo e nella valutazione delle prove.
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Vanno quindi affermati i
seguenti principi di diritto: “Il danno c.d. esistenziale, non costituendo
una categoria autonoma di pregiudizio, ma rientrando nel danno morale, non
può essere liquidato separatamente solo perché diversamente denominato. Il
diritto al risarcimento del danno morale, in tutti i casi in cui è ritenuto
risarcibile, non può prescindere dalla allegazione da parte del richiedente,
degli elementi di fatto dai quali desumere l'esistenza e l'entità del
pregiudizio.”.
-
Conclusivamente, va affermata
la giurisdizione del giudice ordinario, vanno integralmente rigettati
entrambi i ricorsi proposti dal Comune di Limbiate (quello principale nei
confronti del D. e quello incidentale nei confronti del F.). Vanno accolti i
primi cinque motivi del ricorso principale del F. e i primi tre motivi del
ricorso incidentale del D., mentre vanno rigettati tutti gli altri motivi
proposti da entrambe le parti private.
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La sentenza impugnata va
cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio ad altro Giudice, che si
designa nella Corte d'appello di Milano, in diversa composizione, la quale
deciderà la causa attenendosi ai principi sopra illustrati, provvedendo
anche alla decisione sulle ulteriori pretese economiche del F. di cui al
quarto motivo, in relazione al diritto alle retribuzioni fino alla effettiva
riammissione in servizio. Il Giudice del rinvio provvederà anche per le
spese del presente giudizio.
P.Q.M.
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La Corte riunisce i quattro
ricorsi. Dichiara la giurisdizione dell'AGO e rigetta integralmente il
ricorso principale proposto dal Comune nei confronti del D. e quello
incidentale proposto nei confronti del F.. Accoglie i primi tre motivi del
ricorso incidentale del D. ed i primi cinque motivi del ricorso principale
del F., rigetta tutti gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione ai
motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Corte d'appello di Milano
in diversa composizione.
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Roma 4 novembre 2008
(depositato il 16 febbraio 2009)
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