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Oneri probatori
dell'inattività forzata e della sola dequalificazione dei compiti
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Cass. civ., Sez.
Unite, 6 marzo 2009 n. 5454 – Pres. Carbone – Rel. Amoroso - R.E. (avv.
Muggia) c. Fondazione Ordine Mauriziano (avv. Grez, Iaria)
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Demansionamento -
Onere della prova della forzata inattività e della dequalificazione parziale
– Insussistenza di oneri probatori sul lavoratore per l’inattività, gravando
sul datore l’onere di dimostrare di avergli conferito incombenze–
Sussistenza invece per lavoratore e datore, in relazione ai rispettivi fatti
allegati, in caso di dequalificazione caratterizzata da sola modificazione
peggiorativa dei compiti.
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L'art. 2103 c.c.,
prevede che il datore di lavoro, nell'esercizio del suo potere direttivo,
possa conformare il contenuto dell'obbligazione del lavoratore avente ad
oggetto la prestazione lavorativa.
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L'esercizio di tale
potere è oggetto di un'obbligazione strumentale a carico del datore di
lavoro che è tenuto a conformare la prestazione lavorativa del lavoratore,
il quale ha diritto a svolgerla, sicché l'omessa assegnazione di mansioni
configura ex se un inadempimento di tale obbligazione in relazione al quale,
ove allegato dal lavoratore, rimasto (illegittimamente) privo di mansioni, a
sostegno in ipotesi di una pretesa risarcitoria, nessun onere probatorio
grava su quest'ultimo;con riferimento proprio all'ipotesi di allegata
inattività del lavoratore e quindi di asserita astensione del datore di
lavoro dall'esercizio del potere direttivo v. Cass., sez. lav., 6 marzo
2006, n. 4766, che ha affermato che grava invece sul datore di lavoro
l'onere di provare di aver adempiuto a tale obbligazione strumentale
conformando la prestazione lavorativa del lavoratore con l'assegnazione di
mansioni.
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Quando non si versi in
fattispecie di non esercizio del potere direttivo ma nell’uso distorto o
illegittimo di esso tramite lo ius variandi determinante demansionamento o
dequalificazione delle mansioni, il lavoratore può reagire all'esercizio
illegittimo di tale potere allegando circostanze di fatto volte a dare
fondamento alla denuncia di illegittimità. C'è quindi a suo carico un onere
di allegazione, come ritenuto da Cass., sez. lav., 24 ottobre 2005, n. 20523
con riferimento ad un'ipotesi di insufficiente allegazione degli elementi di
fatto significativi dell'illegittimità dell'esercizio del potere suddetto
mediante l'assegnazione di mansioni non corrispondenti alla qualifica e di
conseguente rigetto della domanda; cfr. anche Cass. 18 agosto 1997 n. 7641.
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Il datore di lavoro a
sua volta, convenuto in giudizio in una controversia avente ad oggetto
l'assunta illegittimità dell'esercizio di tale potere direttivo, è tenuto a
prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica
contestazione, circa i fatti affermati dall'attore a fondamento della
domanda (art. 416 c.p.c.) e può allegare altri fatti che, all'opposto, siano
indicativi del legittimo esercizio del potere direttivo.
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Parimenti l'onere
probatorio grava rispettivamente sull'uno e sull'altro in ordine ai fatti
che ciascuno allega.
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Svolgimento del
processo
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1.Con
sentenza del 18 febbraio 2005 il tribunale di Torino ha dichiarato il
difetto di giurisdizione del giudice ordinario in ordine alla domanda
proposta da R.E., già direttore amministrativo dell'Ospedale di (OMISSIS),
nei confronti della Fondazione Ordine Mauriziano relativamente al preteso
demansionamento patito sino al 30 giugno 1998, respingendo invece la domanda
per quel che riguardava il periodo successivo. Inoltre in accoglimento
parziale di un'ulteriore domanda del R., il tribunale ha condannato la
Fondazione convenuta a restituire al ricorrente la somma di Euro 48.329,78,
oltre rivalutazione monetaria ed interessi.
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2.Contro
tale decisione ha proposto appello la Fondazione Ordine Mauriziano,
sostenendo la carenza di giurisdizione in capo al giudice adito anche per
ciò che concerneva la domanda di ripetizione di indebito accolta dal primo
giudice, e comunque ribadendone nel merito l'infondatezza.
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Si è costituito il Dott. R., in primo luogo affermando l'infondatezza dei
motivi del gravame proposto dall'appellante. In via di appello incidentale,
ha riproposto le proprie deduzioni circa il demansionamento che gli sarebbe
stato inflitto a partire dal 1995, sostenendo, quanto alla giurisdizione,
l'unicità della condotta ed il carattere permanente della dequalificazione
perpetrata ai suoi danni, con la conseguente affermazione della
giurisdizione del giudice ordinario.
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3.
Con sentenza del 15 novembre - 20 dicembre 2006 la Corte d'appello di
Torino, in accoglimento dell'appello principale, dichiarava la carenza di
giurisdizione del giudice ordinario in merito alla domanda di ripetizione
dell'indebito; respingeva l'appello incidentale;
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condannava l'appellato a rimborsare all'appellante principale le spese del
doppio grado.
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Osservava che il Dott. R., all'epoca direttore amministrativo dell'Ospedale
di (omissis), è stato sospeso dal servizio a seguito di controlli ispettivi
sul pagamento dei tickets sanitari del presidio;
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In
data (OMISSIS) egli ha provveduto a versare all'Ordine l'importo
corrispondente all'ammanco verificatosi (L. 93.579.000), "potendosi
ipotizzare una responsabilità di cassa ... in relazione ad una omessa
vigilanza nei confronti dell'operatore tecnico P. R.", chiedendo
contestualmente la revoca del provvedimento di sospensione cautelare
disposto nei suoi confronti. A seguito dell'istruttoria penale, è stata
riconosciuta la penale responsabilità del P. in ordine ai fatti accertati;
il GIP ha invece disposto l'archiviazione della notizia di reato nei
confronti del Dott. R.. Per quel che riguarda il profilo disciplinare, egli
ha dovuto subire la sospensione dalla qualifica per due mesi, provvedimento
peraltro assorbito nella disposta sospensione cautelare. Nella stessa
occasione (nel 1995) egli è stato assegnato in via definitiva al Servizio
Affari Generali e Legali dell'Ordine Mauriziano, in posizione di staff alla
Direzione Generale, in particolare con incarichi di studio della normativa
relativa al D.Lgs. n. 626 del 1994. Tale incarico egli aveva ricoperto sino
all'agosto 1999, quando gli era stato assegnato un nuovo incarico
dirigenziale sub apicale, con funzioni di coordinamento delle attività
dell'Ufficio Relazioni con il Pubblico. In particolare la Corte d'appello ha
ritenuto che l'eccezione di difetto di giurisdizione era fondata anche con
riferimento alla pretesa resistitutoria della somma corrisposta dal R.
all'appellante.
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L'importo in oggetto era stato versato dal Dott. R. con la motivazione
risultante dalla lettera autografa di accompagnamento al pagamento del
seguente tenore: "Essendosi verificato un ammanco di cassa non addebitabile
allo scrivente ma in ogni caso verificatosi nell' ambito di attività che
erano sottoposte al controllo del sottoscritto; potendosi ipotizzare una
responsabilità di cassa in capo allo scrivente in relazione ad una omessa
vigilanza nei confronti dell'Operatore tecnico P.R., lo scrivente ritiene di
dover rifondere la cifra mancante riservandosi la rivalsa nei confronti
dello stesso".
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Secondo la Corte d'appello il fatto generativo dei presupposti per la
ripetizione di indebito non poteva dirsi verificato solo nel 1999 (ossia in
epoca successiva al passaggio di giurisdizione al giudice ordinario per le
questioni di pubblico impiego) con la decisione assolutoria del R. della
Corte dei Conti nell' ambito del giudizio per responsabilità erariale
intentato dalla Procura. Tale giudizio contabile infatti ha avuto un oggetto
affatto diverso e non coincidente con l'esborso operato oltre quattro anni
prima; in particolare era diversa la somma richiesta, di L. 75.256.400, pari
al danno erariale residuato dopo il versamento della somma da parte del
Dott. R., che in una prima fase del giudizio contabile era stata posta a suo
carico solo in ragione del 50%, venendo accollata l'altra metà al P..
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Quanto al carattere demansionante dei nuovi incarichi, osservava la Corte
d'appello che il R. si era limitato ad affermare che si trattava di
posizioni dirigenziali subapicali. La pretesa lesione del diritto era fatta
discendere dal provvedimento datoriale, capace di incidere sulla
destinazione lavorativa e di determinare il nuovo contenuto professionale
della prestazione, del cui successivo svolgimento però nulla deduceva il R..
In generale -riteneva la Corte territoriale - nel caso in cui si faccia
riferimento ad atti negoziali del datore di lavoro asseritamente
pregiudizievoli e direttamente incidenti sul rapporto di lavoro, dedotti a
fondamento della pretesa fatta valere in giudizio, si deve avere riguardo al
momento di emanazione dei medesimi. Era dunque corretta la decisione del
primo giudice che aveva negato la propria giurisdizione in relazione al
primo dei provvedimenti, risalente appunto al 1995.
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Quanto al secondo provvedimento, patimenti fonte di demansionamento, la
Corte d'appello - confermando la pronuncia del tribunale - ha ritenuto
infondata la domanda, per carenza di ogni allegazione quanto alla natura
demansionante dei compiti lavorativi afferenti allo specifico incarico. Non
era provato che la funzione di direttore amministrativo di presidio
ospedaliero, prima ricoperta dal R., si configurasse come incarico
dirigenziale di struttura complessa avente carattere apicale, mentre i
successivi incarichi ricoperti si qualificassero come subapicali, giacché
non concernenti la direzione ovvero gestione di strutture complesse.
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Poiché gli oneri di allegazione prima, e di prova poi, gravavano sulla parte
attrice, che non risultava di avervi in alcun modo adempiuto, la Corte
territoriale riteneva di dover confermare la pronuncia del tribunale anche
su questo specifico punto.
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4.
Avverso tale sentenza il R. ha proposto ricorso per cassazione affidato a
cinque motivi.
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Resiste la parte intimata con controricorso. Entrambe le parti hanno
depositato memoria.
Motivi della decisione
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1.Il
ricorso è articolato in cinque motivi.
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Con i primi due motivi, che attengono alla giurisdizione, il ricorrente
sostiene sussistere la giurisdizione del giudice ordinario sia con
riferimento alle pretese conseguenti al demansionamento subito fin con il
primo provvedimento del 1995 di assegnazione a mansioni diverse da quelle di
direttore sanitario; sia con riferimento alla domanda di restituzione della
somma versata nel 1995 perché solo nel 1999, con sentenza della Corte dei
conti, era stata esclusa la sua responsabilità contabile.
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Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente denuncia la violazione e falsa
applicazione dell'art. 1371 c.c., in riferimento alla citata lettera del
1995.
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Con il quarto motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa
applicazione dell'art. 2103 c.c., avendo la Corte d'appello addossatogli un
onere probatorio, quanto al denunciato demansionamento, onere che invece
gravava sull'Amministrazione datrice di lavoro.
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Con il quinto motivo, denunciando ancora la violazione e falsa applicazione
dell'art. 2103 c.c., il ricorrente censura l'impugnata sentenza nella parte
in cui ha affermato che le mansioni di direttore sanitario, originariamente
svolte, non erano state sufficientemente indicate.
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2.Il
ricorso è nel suo complesso infondato e, quanto alle domande alle quali si
riferiscono i primi due motivi dello stesso, correttamente la Corte
d'appello ha ritenuto la giurisdizione del giudice amministrativo.
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3.Devono
premettersi alcune considerazioni iniziali con riferimento all'eccezione di
improcedibilità del ricorso sollevata dal controricorrente nella memoria ex
art. 378 c.p.c.
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3.1. L'Ordine Mauriziano di Torino, alle cui dipendenze ha lavorato il
ricorrente, è ente ospedaliere di diritto pubblico (Cass., sez. lav., 18
agosto 2004, n. 16144; Cass., sez. un., 21 maggio 1975, n. 2000), pur non
appartenendo strettamente all'ordinamento sanitario regionale (C. cost. n.
173 del 2006). Esso è venuto a trovarsi in una situazione di dissesto,
progressivamente aggravatasi, che ha comportato un intervento legislativo
(D.L. 19 novembre 2004, n. 277, convertito, con modificazioni, in L. 21
gennaio 2004, n. 4, recante misure straordinarie per il riordino e il
risanamento economico dell'Ente Ordine Mauriziano di Torino), caratterizzato
dall'istituzione della Fondazione Ordine Mauriziano; la quale è succeduta
all'Ente nei rapporti attivi e passivi, ivi compresi quelli contenziosi; ciò
che è avvenuto anche nel giudizio di primo grado della presente
controversia.
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Poco dopo c'è stato l'intervento del legislatore regionale: 1. reg. Piemonte
24 dicembre 2004 n. 39 che prevedeva (art. 4, comma 1) la costituzione
dell'azienda sanitaria ospedaliera "Ordine mauriziano di (OMISSIS)" con
attribuzione, a titolo non oneroso, al patrimonio delle aziende sanitarie
locali territorialmente competenti dei beni mobili ed immobili dell'Ordine,
tra cui il presidio ospedaliero di (OMISSIS), del quale il ricorrente era
direttore amministrativo.
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Questa speciale normativa statale ha superato il vaglio di costituzionalità
(C. cost. n. 355 del 2006); non invece quella regionale che è stata
dichiarata incostituzionale proprio nel suo art. 4, comma 1 (C. cost. n.
173del 2006).
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Successivamente è intervenuto di nuovo il legislatore statale che ha
disposto, con atto di normazione primaria (e quindi con
legge-provvedimento), il commissariamento della Fondazione Ordine
Mauriziano, odierna controricorrente (D.L. 1 ottobre 2007, n. 159, art. 30,
conv. in L. 29 novembre 2007, n. 222).
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In forza di tale recente normativa il commissario della Fondazione è stato
chiamato a predisporre un piano di liquidazione dei beni della Fondazione e
poi un piano di soddisfazione dei creditori per giungere all'esdebitazione
della Fondazione stessa. Nello svolgimento della procedura di
commissariamento ex lege - dispone il comma 3 del cit. art. 30 -
"nessuna azione individuale, esecutiva o cautelare, può essere iniziata o
proseguita nei confronti della Fondazione".
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Nel presente giudizio di cassazione, instaurato dopo il commissariamento
ex lege, si è costituito con controricorso il Commissario della
Fondazione contestando la fondatezza del ricorso, ma senza nulla eccepire in
ordine all'ammissibilità o alla procedibilità dell'impugnazione.
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Solo in sede di memoria ex art. 378 c.p.c., la Fondazione ha eccepito
l'improcedibilità del ricorso D.L. n. 159 del 2007, ex art. 30, comma 3.
3.2. Ciò posto, deve rigettarsi l'eccezione di improcedibilità del ricorso.
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Da una parte l'art. 30, comma 3, cit. fa riferimento solo alle azioni
esecutive e cautelari a titolo individuale al fine di preservare la par
condicio creditorum; mentre quella oggetto dei ricorso è un'ordinaria azione
di cognizione.
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D'altra parte deve considerarsi che il comma 8 del cit. art. 30, rende
applicabili residualmente le disposizioni dettate dalla legge fallimentare
per la liquidazione coatta amministrativa, tra le quali c'è il R.D. n. 267
del 1942, art. 52, che prescrive che i crediti devono essere accertati
secondo le norme stabilite dal successivo Capo V. In particolare, quanto
alla formazione dello stato passivo, si applica(va) anche alla liquidazione
coatta amministrativa il disposto dell'art. 95, comma 3, secondo cui, se il
credito risulta da sentenza non passata in giudicato, è necessaria
l'impugnazione se non si vuole ammettere il credito. La disposizione, a
seguito della riforma fallimentare (D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, e D.Lgs. 12
settembre 2007, n. 169) è ora contenuta nell'art. 96, comma 2, n. 3), che
prevede che il curatore (o il commissario liquidatore) può proporre o
proseguire il giudizio di impugnazione.
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Da tale disposizione, nella sua formulazione originaria ed in quella
novellata, risulta che il giudizio di impugnazione può proseguire.
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Ed in proposito questa Corte (Cass., sez. lav., 27 febbraio 2008, n. 5113)
ha affermato che la norma del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 95, comma 3,
va interpretata estensivamente nel senso che deve trovare applicazione anche
nel caso di sentenza, non ancora passata in giudicato, che abbia rigettato
(anche solo in parte) la domanda, avente natura costitutiva del lavoratore
diretta al riconoscimento della qualifica superiore, con la conseguenza che,
intervenuto la liquidazione coatta amministrativa successivamente a tale
decisione, il prestatore, per evitare gli effetti preclusivi derivanti dal
passaggio in giudicato della medesima, deve proporre impugnazione in via
ordinaria - ovvero proseguire, previa rituale riassunzione, nel giudizio di
impugnazione già instaurato - nei confronti del commissario liquidatore L.
Fall., ex art. 201, che è legittimato non solo a proporre l'impugnazione ma
anche passivamente a subirla. Cfr. anche Cass., sez. un., 23 ottobre 1986,
n. 6224, secondo cui non sussiste improponibilità temporanea dell'azione
qualora sulla pretesa creditoria fatta valere nei confronti di un'impresa
assoggettata alla procedura di amministrazione straordinaria sia
anteriormente intervenuta sentenza non passata in giudicato, dovendo questa
essere impugnata nei modi e nelle forme ordinarie, ai sensi della L. Fall.,
art. 95, comma 3.
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Quindi nella specie, essendo il commissariamento ex lege intervenuto dopo la
sentenza della Corte d'appello di Torino, correttamente il ricorrente, per
impedirne il passaggio in giudicato, ha proposto il ricorso per cassazione,
in disparte la possibilità di inserimento nello stato passivo del credito
azionato.
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L'impugnazione, alla quale ha resistito il Commissario liquidatore con
controricorso, è pertanto ammissibile e nient'affatto improcedibile in
ragione della procedura liquidatoria instaurata ex D.L. 159 del 2007 cit..
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4.
Ciò premesso in punto di ammissibilità e procedibilità del ricorso, può
prendersi in esame il primo motivo del ricorso che è infondato.
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Da una parte va ribadito quanto già affermato da questa Corte (Cass., sez.
un., 27 gennaio 2005, n. 1624) secondo cui, ove il lavoratore riferisca le
proprie pretese ad un periodo in parte anteriore e in parte successivo al 30
giugno 1998, la competenza giurisdizionale va ripartita tra il giudice
amministrativo in sede esclusiva e il giudice ordinario, in relazione
rispettivamente alle due dette fasi temporali, tenuto conto della
circostanza che il rapporto di lavoro subordinato, pur nella sua unicità, si
articola in segmenti temporali, corrispondenti alla cadenza periodica in cui
rileva lo svolgimento della prestazione lavorativa.
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D'altra parte deve considerarsi che correttamente la Corte d'appello ha
distinto due fattispecie di allegata dequalificazione: quella conseguente al
provvedimento di assegnazione del ricorrente al Servizio Affari Generali e
Legali dell'Ordine Mauriziano nel 1995 e quella originata dal provvedimento
di assegnazione alle funzioni di coordinamento delle attività dell'Ufficio
Relazioni con il Pubblico nel 1999. Entrambi i provvedimenti - secondo la
prospettazione difensiva del ricorrente - non sarebbero stati rispettosi
della sua qualifica e costituirebbero un demansionamento rispetto alle
originarie mansioni di dirigente sanitario; quindi ci sarebbe stata,
nell'uno e nell'altro caso, un'ipotesi di dequalificazione illegittima.
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E' sufficiente rilevare che si tratta di provvedimenti di gestione del
rapporto la cui cognizione, dopo il 30 giugno 1998, è devoluta alla
giurisdizione del giudice ordinario. Ma prima di tale data sussisteva la
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, così come correttamente
- e concordemente - affermato dal tribunale di Torino e dalla Corte
d'appello di Torino.
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5.Altrettanto
infondato è il secondo motivo di ricorso.
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In occasione del provvedimento di sospensione cautelare il ricorrente in
data 26 giugno 1995 provvide a versare all'Ordine Mauriziano un importo
corrispondente all'ammanco verificatosi (L. 93.579.000), "potendosi
ipotizzare una responsabilità di cassa ... in relazione ad una omessa
vigilanza nei confronti dell'operatore tecnico P. R.". Ossia il ricorrente
ha spontaneamente risarcito l'Ordine del danno subito per una sua
ipotizzabile culpa in vigilando; ciò al fine di sollecitare la revoca della
sospensione cautelare.
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Anche se al momento di tale pagamento non c'è stata una riserva da parte del
ricorrente di restituzione della somma versata (solo di rivalsa nei
confronti del responsabile dell'ammanco), il R. ben avrebbe potuto anche
sostenere che tale pagamento non significava affatto riconoscimento della
sua responsabilità per non aver vigilato sulla condotta illecita del P.,
successivamente riconosciuta in sede penale. E, in questa prospettiva,
poteva anche domandare la restituzione della somma suddetta in quanto
percepita indebitamente dall'Ordine. Ma tale pretesa restitutoria, che si
inseriva comunque nel contesto del rapporto di pubblico impiego, il
ricorrente avrebbe potuto esercitare immediatamente e quindi ben prima del 1
luglio 1998, sicché, trattandosi di un'obbligazione restitutoria legata al
rapporto di lavoro, la giurisdizione apparteneva al giudice amministrativo,
come correttamente ritenuto dalla Corte d'appello e prima ancora dal
tribunale; mentre a nulla rileva la (successivamente intervenuta) pronuncia
della Corte dei conti che atteneva all'eventuale responsabilità contabile
del ricorrente.
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6.Inammissibile
è poi il terzo motivo di ricorso perché il ricorrente, pur deducendo una
violazione di legge, ha formulato un quesito in fatto riguardante
l'interpretazione della menzionata lettera di richiesta di revoca della
sospensione cautelare e di giustificazione del pagamento effettuato. Non è
stata quindi rispettata la prescrizione dell'ari 366 bis c.p.c..
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7.Il
quarto motivo - relativo all'onere della prova dell'allegato demansionamento
- è infondato.
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L'art. 2103 c.c., prevede che il datore di lavoro, nell'esercizio del suo
potere direttivo, possa conformare il contenuto dell'obbligazione del
lavoratore avente ad oggetto la prestazione lavorativa.
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Da una parte l'esercizio di tale potere è esso stesso oggetto di
un'obbligazione strumentale a carico del datore di lavoro che è tenuto a
conformare la prestazione lavorativa del lavoratore, il quale ha diritto a
svolgerla, sicché l'omessa assegnazione di mansioni configura ex se
un inadempimento di tale obbligazione in relazione al quale, ove allegato
dal lavoratore, rimasto (illegittimamente) privo di mansioni, a sostegno in
ipotesi di una pretesa risarcitoria, nessun onere probatorio grava su
quest'ultimo;con riferimento proprio all'ipotesi di allegata inattività del
lavoratore e quindi di asserita astensione del datore di lavoro
dall'esercizio del potere direttivo v. Cass., sez. lav., 6 marzo 2006, n.
4766, che ha affermato che grava invece sul datore di lavoro l'onere di
provare di aver adempiuto a tale obbligazione strumentale conformando la
prestazione lavorativa del lavoratore con l'assegnazione di mansioni.
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D'altra parte l'effettivo esercizio del potere direttivo si colloca su un
piano diverso che è quello dei poteri privati ascrivibili alla categoria dei
diritti potestativi. Con l'assegnazione delle mansioni è il contenuto
dell'obbligazione di svolgere la prestazione lavorativa che viene
determinato sicchè con un atto unilaterale del datore di lavoro si hanno
effetti giuridici nella sfera del lavoratore il quale, in tal caso, versa in
una situazione di soggezione.
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Proprio perché si tratta di un potere privato, tipico della subordinazione,
il legislatore circonda il suo esercizio di limitazioni e prescrizioni a
garanzia del lavoratore e per bilanciare la sua situazione di soggezione.
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Sotto più profili l'esercizio di tale potere può appalesarsi illegittimo:
perché le mansioni cosi come conformate non sono corrispondenti alla
qualifica; o perché in tal modo si determina una discriminazione; o perché
c'è un motivo illecito quale quello di indiretto contrasto dell'attività
sindacale del dipendente.
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In tal caso il lavoratore può reagire all'esercizio illegittimo di tale
potere allegando circostanze di fatto volte a dare fondamento alla denuncia
di illegittimità. C'è quindi a suo carico un onere di allegazione, come
ritenuto da Cass., sez. lav., 24 ottobre 2005, n. 20523 con riferimento ad
un'ipotesi di insufficiente allegazione degli elementi di fatto
significativi dell'illegittimità dell'esercizio del potere suddetto mediante
l'assegnazione di mansioni non corrispondenti alla qualifica e di
conseguente rigetto della domanda; cfr. anche Cass. 18 agosto 1997 n. 7641.
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Il datore di lavoro a sua volta, convenuto in giudizio in una controversia
avente ad oggetto l'assunta illegittimità dell'esercizio di tale potere
direttivo, è tenuto a prendere posizione, in maniera precisa e non limitata
ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall'attore a
fondamento della domanda (art. 416 c.p.c.) e può allegare altri fatti che,
all'opposto, siano indicativi del legittimo esercizio del potere direttivo.
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Parimenti l'onere probatorio grava rispettivamente sull'uno e sull'altro in
ordine ai fatti che ciascuno allega.
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Nella specie la Corte d'appello, confermando la valutazione del tribunale,
ha ritenuto la "carenza di ogni allegazione quanto alla natura demansionante
dei compiti lavorativi afferenti allo specifico incarico" ed ha aggiunto che
"gli oneri di allegazione prima, e di prova poi, gravavano esclusivamente
sulla parte attrice".
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Quest'ultima affermazione è corretta in diritto con le precisazioni che si
sono sopra fatte, laddove il quarto motivo consiste esclusivamente - e si
esaurisce - nella trascrizione della massima estratta da Cass. n. 4766 del
2006 cit. che - come sopra rilevato - riguarda l'ipotesi dell'illegittima
astensione del datore di lavoro dall'esercizio del suddetto potere direttivo
con conseguente inattività del lavoratore rimasto privo di mansioni e che
non autorizza a ritenere che, laddove invece il potere direttivo sia
esercitato, il lavoratore che ne denunci l'illegittimo esercizio non sia
tenuto ad allegare ed a provare i fatti sintomatici del vizio denunciato.
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8.Il
quinto motivo è inammissibile.
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L'affermazione della Corte d'appello in ordine alla carenza di allegazione
da parte dell'odierno ricorrente di fatti significativi della denunciata
dequalificazione è sì contestata dal ricorrente stesso con il quinto motivo,
ma senza evidenziare alcuna contraddittorietà nella motivazione
dell'impugnata sentenza.
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Il ricorrente afferma di aver svolto dapprima le mansioni di Direttore
amministrativo dell'Ospedale di (OMISSIS) e da ultimo era stato assegnato al
Servizio Affari Generali e Legali dell'Ordine Mauriziano con l'incarico di
procedere allo studio della normativa di tutela della salute dei lavoratori.
Non sono specificate le mansioni iniziali e di destinazione, non senza
considerare che tra le prime e le ultime c'era stata l'assegnazione di altre
mansioni la cui conformità alla qualifica - come già rilevato - era devoluta
alla giurisdizione del giudice amministrativo ratione temporis; non
sono state indicate le qualifiche, né le declaratorie contrattuali.
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Sicché sostanzialmente generica - e quindi inammissibile - appare la censura
mossa con il quinto motivo all'impugnata sentenza.
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9.In
conclusione il ricorso va rigettato nei suoi primi due motivi con
affermazione della giurisdizione del giudice amministrativo sulle relative
domande e rimessione delle parti innanzi al TAR competente per territorio
(con gli effetti di traslatio iudicii predicati recentemente da
Cass., sez. un., 22 febbraio 2007, n. 4109, e nel rispetto del principio
generale, affermato da C. cost. 12 marzo 2007 n. 77, secondo cui gli
effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta a
giudice privo di giurisdizione si conservano, a seguito di declinatoria di
giurisdizione, nel processo proseguito davanti al giudice munito di
giurisdizione, atteso che l'opposto principio - non formulato espressamente
in una o più disposizioni di legge, ma presupposto dall'intero sistema dei
rapporti tra giudice ordinario e giudici speciali e tra i giudici speciali -
per cui la declinatoria della giurisdizione comporta l'esigenza di
instaurare ex novo il giudizio senza che gli effetti sostanziali e
processuali prodotti dalla domanda originariamente proposta si conservino
nel nuovo giudizio, "deve essere espunto, come tale, dall'ordinamento").
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Il ricorso va poi rigettato anche nel resto con compensazione tra le parti
delle spese di questo giudizio di cassazione sussistendone giustificati
motivi (complessità della vicenda e delle questioni giuridiche poste).
P.Q.M.
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La Corte, a Sezioni Unite, rigetta i primi due motivi del ricorso e dichiara
la giurisdizione del giudice amministrativo sulle relative domande. Rimette
le parti al TAR competente per territorio. Rigetta il ricorso nel resto;
compensa tra le parti le spese di questo giudizio di cassazione.
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Così deciso in Roma, il 13 gennaio 2009. Depositato in Cancelleria il 6
marzo 2009.
P.S. Trattasi di sentenza
(parzialmente) ricettiva dell'orientamento da noi dottrinalmente prospettato
nell'articolo: Gli oneri
probatori del demansionamento e del mobbing.
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NOSTRA NOTA
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La sentenza è tutt’altro che condivisibile in ordine alle argomentazione
tramite cui giunge a questo diverso regime di oneri probatori per il
demansionamento, a seconda se sfociato in inattività forzata ovvero se
trattasi di demansionamento conseguente ad erosione o sottrazione di
compiti e incarichi, con confinamento in ruoli deteriori non pertinenti alla
qualifica rivestita.
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L’estensore trae le sue conclusioni fondandosi, da un lato, sull’inesercizio
del potere direttivo che dà luogo ad inadempimento datoriale – da cui fa
sortire la conseguenza del gravare sul datore l’onere di fornire la prova
liberatoria dell’assenza di un proprio comportamento inadempiente - e,
dall'altro, sull’esercizio non corretto (cioè, inesatto adempimento) dello
stesso potere direttivo nella specie dello ius variandi. In
quest’ultimo caso la prova della dequalificazione graverebbe su entrambe le
parti.
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La costruzione è artificiosa e non condivisibile.
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Invero, in ogni caso di dequalificazione - senza distinguo alcuno se
sfociante nell’inattività o nell’assegnazione a mansioni deteriori rispetto
alle ultime svolte – grava sul datore di lavoro l’onere probatorio di
provarne la conformità a quelle esigibili dal prestatore in ragione
della qualifica rivestita, onere da cui è sollevato invece il lavoratore.
L’onere probatorio grava sul datore – come ha a suo tempo insegnato Cass.
SU, n. 13533/2001 – in ragione del fatto sostanziale dell’essere il
lavoratore “creditore” del diritto al disimpegno di mansioni proprie dalla
sua qualifica, del diritto a svolgere una prestazione piena - senza essere
posto con intenti vessatori in situazione di inattività forzata - ed inoltre
di essere assegnato a mansioni conformi a quelle di assunzione o da ultimo
assegnategli in ragione della superiore qualifica rivestita. Questo diritto
- codificato dal legislatore nell’art. 2103 c.c. a tutela della
professionalità del prestatore - pone oggettivamente il datore di lavoro in
posizione debitoria. Quindi qualora il lavoratore accampi, cioè alleghi, una
dequalificazione grava sul "datore-debitore" dar la prova dell'esatto
adempimento delle sue obbligazioni, attraverso la dimostrazione di avere
assegnato mansioni rispettose del diritto della controparte in posizione di
"creditore", non degradanti o squalificate. Il lavoratore, una
volta allegati i fatti, ha il solo onere di dimostrarne la veridicità, onde
sottrarsi all'addebito di prospettare questioni meramente pretestuose, non
già quello di dimostrare il carattere asseritamente dequalificante
delle mansioni, giacché il carattere non dequalificante ma rispettoso
di quelle della qualifica del prestatore deve essere dimostrato dal datore
di lavoro, stante la sua veste di debitore in questo aspetto piuttosto
delicato dell'obbligazione di lavoro.
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Il fondamento della ripartizione dell’onere probatorio risiede nel
rispettivo ruolo che ciascuno riveste nelle obbligazioni, a seconda che si
sia creditori o debitori di un certo comportamento atteso e preteso dal
creditore.
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Queste considerazioni vengono lucidamente effettuate da
Cass. n. 4766/2006
(est. Nobile) che, a sua volta, si è richiamata alle opinioni di di Cass.
3.6.1995 n. 6225, così espressasi: «il lavoratore (cui l'art. 13
della legge n. 300 del 1970 riconosce esplicitamente il diritto a svolgere
le mansioni per le quali è stato assunto ovvero quelle equivalenti alle
ultime effettivamente svolte, senza diminuzione della retribuzione) ha
altresì diritto, a maggior ragione, a non essere allontanato da ogni
mansione, cioè il diritto all'esecuzione della prestazione lavorativa, cui
il datore di lavoro (…) ha il correlativo obbligo di applicarlo, restandogli
consentita la possibilità dì trasferirlo solo per comprovate ragioni
tecniche, organizzative e produttive. La violazione di tale diritto del
lavoratore all’esecuzione della propria prestazione è fonte di
responsabilità risarcitoria del datore di lavoro, salvo che l'inattività del
lavoratore sia riconducibile ad un lecito comportamento del datore di lavoro
medesimo, in quanto giustificata dall'esercizio dei poteri imprenditoriali,
garantiti dall'art. 41 Cost., o dall'esercizio dei poteri disciplinari».
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Prosegue ancora Cass. n. 4766/2006 asserendo che: «Così configurato un
diritto del lavoratore ed un corrispettivo obbligo del datore di lavoro,
anche in materia di dequalificazione deve, quindi, affermarsi la
applicabilità del principio affermato in generale dalle Sezioni Unite
di questa Corte (vedi Cass. S.U. 30-10-2001 n. 13533) secondo cui “in
tema di prova dell'inadempimento di una obbligazione, il creditore che
agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno,
ovvero per l'adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o
legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla
mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte,
mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto
estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, ed
uguale criterio di riparto dell'onere della prova deve ritenersi applicabile
al caso in cui il debitore convenuto per l'adempimento, la risoluzione o il
risarcimento del danno si avvalga dell'eccezione di inadempimento ex art.
1460 cod. civ. (risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in
lite, perché il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l'altrui
inadempimento, ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio
adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell'obbligazione).
Anche nel caso in cui sia dedotto non l'inadempimento dell'obbligazione,
ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la
mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento (per violazione di
doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza
dell'obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei
beni), gravando ancora una volta sul debitore l'onere di dimostrare
l'avvenuto, esatto adempimento”.
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Pertanto – conclude Cass. n. 4766/2006, in termini generali (non già per la
sola fattispecie dell’inattività forzata alla quale vorrebbe l’odierna
decisione relegarla marginalmente) - «allorquando da parte di un
lavoratore sia allegata una dequalificazione o un demansionamento o comunque
un inesatto adempimento dell'obbligo del datore di lavoro ex art.
2103 c.c. è su quest'ultimo che incombe l'onere di provare l'esatto
adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in
concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso
la prova che l'una o l'altro siano state giustificate dal legittimo
esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari (ovvero, in base al
principio generale di cui all’art. 1218 c.c., comunque da una impossibilità
della prestazione derivante da causa a lui non imputabile)».
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Se anche
le Sezioni unite questo avessero voluto dire nella decisione soprariportata,
piuttosto contorta e criptica, avrebbero dovuto essere più chiare, come
abbiamo fatto noi per loro.
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Sezione Mobbing)