Oneri probatori dell'inattività forzata e della  sola dequalificazione dei compiti
 
Cass. civ., Sez. Unite, 6 marzo 2009 n. 5454 – Pres. Carbone – Rel. Amoroso -  R.E. (avv. Muggia) c. Fondazione Ordine Mauriziano (avv. Grez, Iaria)
 
Demansionamento - Onere della prova della forzata inattività e della dequalificazione parziale – Insussistenza di oneri probatori sul lavoratore per l’inattività, gravando sul datore l’onere di dimostrare di avergli conferito incombenze– Sussistenza invece per lavoratore e datore, in relazione ai rispettivi fatti allegati, in caso di dequalificazione caratterizzata da sola modificazione peggiorativa dei compiti.
 
L'art. 2103 c.c., prevede che il datore di lavoro, nell'esercizio del suo potere direttivo, possa conformare il contenuto dell'obbligazione del lavoratore avente ad oggetto la prestazione lavorativa.
L'esercizio di tale potere è oggetto di un'obbligazione strumentale a carico del datore di lavoro che è tenuto a conformare la prestazione lavorativa del lavoratore, il quale ha diritto a svolgerla, sicché l'omessa assegnazione di mansioni configura ex se un inadempimento di tale obbligazione in relazione al quale, ove allegato dal lavoratore, rimasto (illegittimamente) privo di mansioni, a sostegno in ipotesi di una pretesa risarcitoria, nessun onere probatorio grava su quest'ultimo;con riferimento proprio all'ipotesi di allegata inattività del lavoratore e quindi di asserita astensione del datore di lavoro dall'esercizio del potere direttivo v. Cass., sez. lav., 6 marzo 2006, n. 4766, che ha affermato che grava invece sul datore di lavoro l'onere di provare di aver adempiuto a tale obbligazione strumentale conformando la prestazione lavorativa del lavoratore con l'assegnazione di mansioni.
Quando non si versi in fattispecie di non esercizio del potere direttivo ma nell’uso distorto o illegittimo di esso tramite lo ius variandi determinante demansionamento o dequalificazione delle mansioni, il lavoratore può reagire all'esercizio illegittimo di tale potere allegando circostanze di fatto volte a dare fondamento alla denuncia di illegittimità. C'è quindi a suo carico un onere di allegazione, come ritenuto da Cass., sez. lav., 24 ottobre 2005, n. 20523 con riferimento ad un'ipotesi di insufficiente allegazione degli elementi di fatto significativi dell'illegittimità dell'esercizio del potere suddetto mediante l'assegnazione di mansioni non corrispondenti alla qualifica e di conseguente rigetto della domanda; cfr. anche Cass. 18 agosto 1997 n. 7641.
Il datore di lavoro a sua volta, convenuto in giudizio in una controversia avente ad oggetto l'assunta illegittimità dell'esercizio di tale potere direttivo, è tenuto a prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall'attore a fondamento della domanda (art. 416 c.p.c.) e può allegare altri fatti che, all'opposto, siano indicativi del legittimo esercizio del potere direttivo.
Parimenti l'onere probatorio grava rispettivamente sull'uno e sull'altro in ordine ai fatti che ciascuno allega.
 
Svolgimento del processo
 
1.Con sentenza del 18 febbraio 2005 il tribunale di Torino ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice ordinario in ordine alla domanda proposta da R.E., già direttore amministrativo dell'Ospedale di (OMISSIS), nei confronti della Fondazione Ordine Mauriziano relativamente al preteso demansionamento patito sino al 30 giugno 1998, respingendo invece la domanda per quel che riguardava il periodo successivo. Inoltre in accoglimento parziale di un'ulteriore domanda del R., il tribunale ha condannato la Fondazione convenuta a restituire al ricorrente la somma di Euro 48.329,78, oltre rivalutazione monetaria ed interessi.
2.Contro tale decisione ha proposto appello la Fondazione Ordine Mauriziano, sostenendo la carenza di giurisdizione in capo al giudice adito anche per ciò che concerneva la domanda di ripetizione di indebito accolta dal primo giudice, e comunque ribadendone nel merito l'infondatezza.
Si è costituito il Dott. R., in primo luogo affermando l'infondatezza dei motivi del gravame proposto dall'appellante. In via di appello incidentale, ha riproposto le proprie deduzioni circa il demansionamento che gli sarebbe stato inflitto a partire dal 1995, sostenendo, quanto alla giurisdizione, l'unicità della condotta ed il carattere permanente della dequalificazione perpetrata ai suoi danni, con la conseguente affermazione della giurisdizione del giudice ordinario.
3. Con sentenza del 15 novembre - 20 dicembre 2006 la Corte d'appello di Torino, in accoglimento dell'appello principale, dichiarava la carenza di giurisdizione del giudice ordinario in merito alla domanda di ripetizione dell'indebito; respingeva l'appello incidentale;
condannava l'appellato a rimborsare all'appellante principale le spese del doppio grado.
Osservava che il Dott. R., all'epoca direttore amministrativo dell'Ospedale di (omissis), è stato sospeso dal servizio a seguito di controlli ispettivi sul pagamento dei tickets sanitari del presidio;
In data (OMISSIS) egli ha provveduto a versare all'Ordine l'importo corrispondente all'ammanco verificatosi (L. 93.579.000), "potendosi ipotizzare una responsabilità di cassa ... in relazione ad una omessa vigilanza nei confronti dell'operatore tecnico P. R.", chiedendo contestualmente la revoca del provvedimento di sospensione cautelare disposto nei suoi confronti. A seguito dell'istruttoria penale, è stata riconosciuta la penale responsabilità del P. in ordine ai fatti accertati; il GIP ha invece disposto l'archiviazione della notizia di reato nei confronti del Dott. R.. Per quel che riguarda il profilo disciplinare, egli ha dovuto subire la sospensione dalla qualifica per due mesi, provvedimento peraltro assorbito nella disposta sospensione cautelare. Nella stessa occasione (nel 1995) egli è stato assegnato in via definitiva al Servizio Affari Generali e Legali dell'Ordine Mauriziano, in posizione di staff alla Direzione Generale, in particolare con incarichi di studio della normativa relativa al D.Lgs. n. 626 del 1994. Tale incarico egli aveva ricoperto sino all'agosto 1999, quando gli era stato assegnato un nuovo incarico dirigenziale sub apicale, con funzioni di coordinamento delle attività dell'Ufficio Relazioni con il Pubblico. In particolare la Corte d'appello ha ritenuto che l'eccezione di difetto di giurisdizione era fondata anche con riferimento alla pretesa resistitutoria della somma corrisposta dal R. all'appellante.
L'importo in oggetto era stato versato dal Dott. R. con la motivazione risultante dalla lettera autografa di accompagnamento al pagamento del seguente tenore: "Essendosi verificato un ammanco di cassa non addebitabile allo scrivente ma in ogni caso verificatosi nell' ambito di attività che erano sottoposte al controllo del sottoscritto; potendosi ipotizzare una responsabilità di cassa in capo allo scrivente in relazione ad una omessa vigilanza nei confronti dell'Operatore tecnico P.R., lo scrivente ritiene di dover rifondere la cifra mancante riservandosi la rivalsa nei confronti dello stesso".
Secondo la Corte d'appello il fatto generativo dei presupposti per la ripetizione di indebito non poteva dirsi verificato solo nel 1999 (ossia in epoca successiva al passaggio di giurisdizione al giudice ordinario per le questioni di pubblico impiego) con la decisione assolutoria del R. della Corte dei Conti nell' ambito del giudizio per responsabilità erariale intentato dalla Procura. Tale giudizio contabile infatti ha avuto un oggetto affatto diverso e non coincidente con l'esborso operato oltre quattro anni prima; in particolare era diversa la somma richiesta, di L. 75.256.400, pari al danno erariale residuato dopo il versamento della somma da parte del Dott. R., che in una prima fase del giudizio contabile era stata posta a suo carico solo in ragione del 50%, venendo accollata l'altra metà al P..
Quanto al carattere demansionante dei nuovi incarichi, osservava la Corte d'appello che il R. si era limitato ad affermare che si trattava di posizioni dirigenziali subapicali. La pretesa lesione del diritto era fatta discendere dal provvedimento datoriale, capace di incidere sulla destinazione lavorativa e di determinare il nuovo contenuto professionale della prestazione, del cui successivo svolgimento però nulla deduceva il R.. In generale -riteneva la Corte territoriale - nel caso in cui si faccia riferimento ad atti negoziali del datore di lavoro asseritamente pregiudizievoli e direttamente incidenti sul rapporto di lavoro, dedotti a fondamento della pretesa fatta valere in giudizio, si deve avere riguardo al momento di emanazione dei medesimi. Era dunque corretta la decisione del primo giudice che aveva negato la propria giurisdizione in relazione al primo dei provvedimenti, risalente appunto al 1995.
Quanto al secondo provvedimento, patimenti fonte di demansionamento, la Corte d'appello - confermando la pronuncia del tribunale - ha ritenuto infondata la domanda, per carenza di ogni allegazione quanto alla natura demansionante dei compiti lavorativi afferenti allo specifico incarico. Non era provato che la funzione di direttore amministrativo di presidio ospedaliero, prima ricoperta dal R., si configurasse come incarico dirigenziale di struttura complessa avente carattere apicale, mentre i successivi incarichi ricoperti si qualificassero come subapicali, giacché non concernenti la direzione ovvero gestione di strutture complesse.
Poiché gli oneri di allegazione prima, e di prova poi, gravavano sulla parte attrice, che non risultava di avervi in alcun modo adempiuto, la Corte territoriale riteneva di dover confermare la pronuncia del tribunale anche su questo specifico punto.
4. Avverso tale sentenza il R. ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi.
Resiste la parte intimata con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
1.Il ricorso è articolato in cinque motivi.
Con i primi due motivi, che attengono alla giurisdizione, il ricorrente sostiene sussistere la giurisdizione del giudice ordinario sia con riferimento alle pretese conseguenti al demansionamento subito fin con il primo provvedimento del 1995 di assegnazione a mansioni diverse da quelle di direttore sanitario; sia con riferimento alla domanda di restituzione della somma versata nel 1995 perché solo nel 1999, con sentenza della Corte dei conti, era stata esclusa la sua responsabilità contabile.
Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 1371 c.c., in riferimento alla citata lettera del 1995.
Con il quarto motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 2103 c.c., avendo la Corte d'appello addossatogli un onere probatorio, quanto al denunciato demansionamento, onere che invece gravava sull'Amministrazione datrice di lavoro.
Con il quinto motivo, denunciando ancora la violazione e falsa applicazione dell'art. 2103 c.c., il ricorrente censura l'impugnata sentenza nella parte in cui ha affermato che le mansioni di direttore sanitario, originariamente svolte, non erano state sufficientemente indicate.
2.Il ricorso è nel suo complesso infondato e, quanto alle domande alle quali si riferiscono i primi due motivi dello stesso, correttamente la Corte d'appello ha ritenuto la giurisdizione del giudice amministrativo.
3.Devono premettersi alcune considerazioni iniziali con riferimento all'eccezione di improcedibilità del ricorso sollevata dal controricorrente nella memoria ex art. 378 c.p.c.
3.1. L'Ordine Mauriziano di Torino, alle cui dipendenze ha lavorato il ricorrente, è ente ospedaliere di diritto pubblico (Cass., sez. lav., 18 agosto 2004, n. 16144; Cass., sez. un., 21 maggio 1975, n. 2000), pur non appartenendo strettamente all'ordinamento sanitario regionale (C. cost. n. 173 del 2006). Esso è venuto a trovarsi in una situazione di dissesto, progressivamente aggravatasi, che ha comportato un intervento legislativo (D.L. 19 novembre 2004, n. 277, convertito, con modificazioni, in L. 21 gennaio 2004, n. 4, recante misure straordinarie per il riordino e il risanamento economico dell'Ente Ordine Mauriziano di Torino), caratterizzato dall'istituzione della Fondazione Ordine Mauriziano; la quale è succeduta all'Ente nei rapporti attivi e passivi, ivi compresi quelli contenziosi; ciò che è avvenuto anche nel giudizio di primo grado della presente controversia.
Poco dopo c'è stato l'intervento del legislatore regionale: 1. reg. Piemonte 24 dicembre 2004 n. 39 che prevedeva (art. 4, comma 1) la costituzione dell'azienda sanitaria ospedaliera "Ordine mauriziano di (OMISSIS)" con attribuzione, a titolo non oneroso, al patrimonio delle aziende sanitarie locali territorialmente competenti dei beni mobili ed immobili dell'Ordine, tra cui il presidio ospedaliero di (OMISSIS), del quale il ricorrente era direttore amministrativo.
Questa speciale normativa statale ha superato il vaglio di costituzionalità (C. cost. n. 355 del 2006); non invece quella regionale che è stata dichiarata incostituzionale proprio nel suo art. 4, comma 1 (C. cost. n. 173del 2006).
Successivamente è intervenuto di nuovo il legislatore statale che ha disposto, con atto di normazione primaria (e quindi con legge-provvedimento), il commissariamento della Fondazione Ordine Mauriziano, odierna controricorrente (D.L. 1 ottobre 2007, n. 159, art. 30, conv. in L. 29 novembre 2007, n. 222).
In forza di tale recente normativa il commissario della Fondazione è stato chiamato a predisporre un piano di liquidazione dei beni della Fondazione e poi un piano di soddisfazione dei creditori per giungere all'esdebitazione della Fondazione stessa. Nello svolgimento della procedura di commissariamento ex lege - dispone il comma 3 del cit. art. 30 - "nessuna azione individuale, esecutiva o cautelare, può essere iniziata o proseguita nei confronti della Fondazione".
Nel presente giudizio di cassazione, instaurato dopo il commissariamento ex lege, si è costituito con controricorso il Commissario della Fondazione contestando la fondatezza del ricorso, ma senza nulla eccepire in ordine all'ammissibilità o alla procedibilità dell'impugnazione.
Solo in sede di memoria ex art. 378 c.p.c., la Fondazione ha eccepito l'improcedibilità del ricorso D.L. n. 159 del 2007, ex art. 30, comma 3. 3.2. Ciò posto, deve rigettarsi l'eccezione di improcedibilità del ricorso.
Da una parte l'art. 30, comma 3, cit. fa riferimento solo alle azioni esecutive e cautelari a titolo individuale al fine di preservare la par condicio creditorum; mentre quella oggetto dei ricorso è un'ordinaria azione di cognizione.
D'altra parte deve considerarsi che il comma 8 del cit. art. 30, rende applicabili residualmente le disposizioni dettate dalla legge fallimentare per la liquidazione coatta amministrativa, tra le quali c'è il R.D. n. 267 del 1942, art. 52, che prescrive che i crediti devono essere accertati secondo le norme stabilite dal successivo Capo V. In particolare, quanto alla formazione dello stato passivo, si applica(va) anche alla liquidazione coatta amministrativa il disposto dell'art. 95, comma 3, secondo cui, se il credito risulta da sentenza non passata in giudicato, è necessaria l'impugnazione se non si vuole ammettere il credito. La disposizione, a seguito della riforma fallimentare (D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, e D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169) è ora contenuta nell'art. 96, comma 2, n. 3), che prevede che il curatore (o il commissario liquidatore) può proporre o proseguire il giudizio di impugnazione.
Da tale disposizione, nella sua formulazione originaria ed in quella novellata, risulta che il giudizio di impugnazione può proseguire.
Ed in proposito questa Corte (Cass., sez. lav., 27 febbraio 2008, n. 5113) ha affermato che la norma del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 95, comma 3, va interpretata estensivamente nel senso che deve trovare applicazione anche nel caso di sentenza, non ancora passata in giudicato, che abbia rigettato (anche solo in parte) la domanda, avente natura costitutiva del lavoratore diretta al riconoscimento della qualifica superiore, con la conseguenza che, intervenuto la liquidazione coatta amministrativa successivamente a tale decisione, il prestatore, per evitare gli effetti preclusivi derivanti dal passaggio in giudicato della medesima, deve proporre impugnazione in via ordinaria - ovvero proseguire, previa rituale riassunzione, nel giudizio di impugnazione già instaurato - nei confronti del commissario liquidatore L. Fall., ex art. 201, che è legittimato non solo a proporre l'impugnazione ma anche passivamente a subirla. Cfr. anche Cass., sez. un., 23 ottobre 1986, n. 6224, secondo cui non sussiste improponibilità temporanea dell'azione qualora sulla pretesa creditoria fatta valere nei confronti di un'impresa assoggettata alla procedura di amministrazione straordinaria sia anteriormente intervenuta sentenza non passata in giudicato, dovendo questa essere impugnata nei modi e nelle forme ordinarie, ai sensi della L. Fall., art. 95, comma 3.
Quindi nella specie, essendo il commissariamento ex lege intervenuto dopo la sentenza della Corte d'appello di Torino, correttamente il ricorrente, per impedirne il passaggio in giudicato, ha proposto il ricorso per cassazione, in disparte la possibilità di inserimento nello stato passivo del credito azionato.
L'impugnazione, alla quale ha resistito il Commissario liquidatore con controricorso, è pertanto ammissibile e nient'affatto improcedibile in ragione della procedura liquidatoria instaurata ex D.L. 159 del 2007 cit..
4. Ciò premesso in punto di ammissibilità e procedibilità del ricorso, può prendersi in esame il primo motivo del ricorso che è infondato.
Da una parte va ribadito quanto già affermato da questa Corte (Cass., sez. un., 27 gennaio 2005, n. 1624) secondo cui, ove il lavoratore riferisca le proprie pretese ad un periodo in parte anteriore e in parte successivo al 30 giugno 1998, la competenza giurisdizionale va ripartita tra il giudice amministrativo in sede esclusiva e il giudice ordinario, in relazione rispettivamente alle due dette fasi temporali, tenuto conto della circostanza che il rapporto di lavoro subordinato, pur nella sua unicità, si articola in segmenti temporali, corrispondenti alla cadenza periodica in cui rileva lo svolgimento della prestazione lavorativa.
D'altra parte deve considerarsi che correttamente la Corte d'appello ha distinto due fattispecie di allegata dequalificazione: quella conseguente al provvedimento di assegnazione del ricorrente al Servizio Affari Generali e Legali dell'Ordine Mauriziano nel 1995 e quella originata dal provvedimento di assegnazione alle funzioni di coordinamento delle attività dell'Ufficio Relazioni con il Pubblico nel 1999. Entrambi i provvedimenti - secondo la prospettazione difensiva del ricorrente - non sarebbero stati rispettosi della sua qualifica e costituirebbero un demansionamento rispetto alle originarie mansioni di dirigente sanitario; quindi ci sarebbe stata, nell'uno e nell'altro caso, un'ipotesi di dequalificazione illegittima.
E' sufficiente rilevare che si tratta di provvedimenti di gestione del rapporto la cui cognizione, dopo il 30 giugno 1998, è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario. Ma prima di tale data sussisteva la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, così come correttamente - e concordemente - affermato dal tribunale di Torino e dalla Corte d'appello di Torino.
5.Altrettanto infondato è il secondo motivo di ricorso.
In occasione del provvedimento di sospensione cautelare il ricorrente in data 26 giugno 1995 provvide a versare all'Ordine Mauriziano un importo corrispondente all'ammanco verificatosi (L. 93.579.000), "potendosi ipotizzare una responsabilità di cassa ... in relazione ad una omessa vigilanza nei confronti dell'operatore tecnico P. R.". Ossia il ricorrente ha spontaneamente risarcito l'Ordine del danno subito per una sua ipotizzabile culpa in vigilando; ciò al fine di sollecitare la revoca della sospensione cautelare.
Anche se al momento di tale pagamento non c'è stata una riserva da parte del ricorrente di restituzione della somma versata (solo di rivalsa nei confronti del responsabile dell'ammanco), il R. ben avrebbe potuto anche sostenere che tale pagamento non significava affatto riconoscimento della sua responsabilità per non aver vigilato sulla condotta illecita del P., successivamente riconosciuta in sede penale. E, in questa prospettiva, poteva anche domandare la restituzione della somma suddetta in quanto percepita indebitamente dall'Ordine. Ma tale pretesa restitutoria, che si inseriva comunque nel contesto del rapporto di pubblico impiego, il ricorrente avrebbe potuto esercitare immediatamente e quindi ben prima del 1 luglio 1998, sicché, trattandosi di un'obbligazione restitutoria legata al rapporto di lavoro, la giurisdizione apparteneva al giudice amministrativo, come correttamente ritenuto dalla Corte d'appello e prima ancora dal tribunale; mentre a nulla rileva la (successivamente intervenuta) pronuncia della Corte dei conti che atteneva all'eventuale responsabilità contabile del ricorrente.
6.Inammissibile è poi il terzo motivo di ricorso perché il ricorrente, pur deducendo una violazione di legge, ha formulato un quesito in fatto riguardante l'interpretazione della menzionata lettera di richiesta di revoca della sospensione cautelare e di giustificazione del pagamento effettuato. Non è stata quindi rispettata la prescrizione dell'ari 366 bis c.p.c..
7.Il quarto motivo - relativo all'onere della prova dell'allegato demansionamento - è infondato.
L'art. 2103 c.c., prevede che il datore di lavoro, nell'esercizio del suo potere direttivo, possa conformare il contenuto dell'obbligazione del lavoratore avente ad oggetto la prestazione lavorativa.
Da una parte l'esercizio di tale potere è esso stesso oggetto di un'obbligazione strumentale a carico del datore di lavoro che è tenuto a conformare la prestazione lavorativa del lavoratore, il quale ha diritto a svolgerla, sicché l'omessa assegnazione di mansioni configura ex se un inadempimento di tale obbligazione in relazione al quale, ove allegato dal lavoratore, rimasto (illegittimamente) privo di mansioni, a sostegno in ipotesi di una pretesa risarcitoria, nessun onere probatorio grava su quest'ultimo;con riferimento proprio all'ipotesi di allegata inattività del lavoratore e quindi di asserita astensione del datore di lavoro dall'esercizio del potere direttivo v. Cass., sez. lav., 6 marzo 2006, n. 4766, che ha affermato che grava invece sul datore di lavoro l'onere di provare di aver adempiuto a tale obbligazione strumentale conformando la prestazione lavorativa del lavoratore con l'assegnazione di mansioni.
D'altra parte l'effettivo esercizio del potere direttivo si colloca su un piano diverso che è quello dei poteri privati ascrivibili alla categoria dei diritti potestativi. Con l'assegnazione delle mansioni è il contenuto dell'obbligazione di svolgere la prestazione lavorativa che viene determinato sicchè con un atto unilaterale del datore di lavoro si hanno effetti giuridici nella sfera del lavoratore il quale, in tal caso, versa in una situazione di soggezione.
Proprio perché si tratta di un potere privato, tipico della subordinazione, il legislatore circonda il suo esercizio di limitazioni e prescrizioni a garanzia del lavoratore e per bilanciare la sua situazione di soggezione.
Sotto più profili l'esercizio di tale potere può appalesarsi illegittimo: perché le mansioni cosi come conformate non sono corrispondenti alla qualifica; o perché in tal modo si determina una discriminazione; o perché c'è un motivo illecito quale quello di indiretto contrasto dell'attività sindacale del dipendente.
In tal caso il lavoratore può reagire all'esercizio illegittimo di tale potere allegando circostanze di fatto volte a dare fondamento alla denuncia di illegittimità. C'è quindi a suo carico un onere di allegazione, come ritenuto da Cass., sez. lav., 24 ottobre 2005, n. 20523 con riferimento ad un'ipotesi di insufficiente allegazione degli elementi di fatto significativi dell'illegittimità dell'esercizio del potere suddetto mediante l'assegnazione di mansioni non corrispondenti alla qualifica e di conseguente rigetto della domanda; cfr. anche Cass. 18 agosto 1997 n. 7641.
Il datore di lavoro a sua volta, convenuto in giudizio in una controversia avente ad oggetto l'assunta illegittimità dell'esercizio di tale potere direttivo, è tenuto a prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall'attore a fondamento della domanda (art. 416 c.p.c.) e può allegare altri fatti che, all'opposto, siano indicativi del legittimo esercizio del potere direttivo.
Parimenti l'onere probatorio grava rispettivamente sull'uno e sull'altro in ordine ai fatti che ciascuno allega.
Nella specie la Corte d'appello, confermando la valutazione del tribunale, ha ritenuto la "carenza di ogni allegazione quanto alla natura demansionante dei compiti lavorativi afferenti allo specifico incarico" ed ha aggiunto che "gli oneri di allegazione prima, e di prova poi, gravavano esclusivamente sulla parte attrice".
Quest'ultima affermazione è corretta in diritto con le precisazioni che si sono sopra fatte, laddove il quarto motivo consiste esclusivamente - e si esaurisce - nella trascrizione della massima estratta da Cass. n. 4766 del 2006 cit. che - come sopra rilevato - riguarda l'ipotesi dell'illegittima astensione del datore di lavoro dall'esercizio del suddetto potere direttivo con conseguente inattività del lavoratore rimasto privo di mansioni e che non autorizza a ritenere che, laddove invece il potere direttivo sia esercitato, il lavoratore che ne denunci l'illegittimo esercizio non sia tenuto ad allegare ed a provare i fatti sintomatici del vizio denunciato.
8.Il quinto motivo è inammissibile.
L'affermazione della Corte d'appello in ordine alla carenza di allegazione da parte dell'odierno ricorrente di fatti significativi della denunciata dequalificazione è sì contestata dal ricorrente stesso con il quinto motivo, ma senza evidenziare alcuna contraddittorietà nella motivazione dell'impugnata sentenza.
Il ricorrente afferma di aver svolto dapprima le mansioni di Direttore amministrativo dell'Ospedale di (OMISSIS) e da ultimo era stato assegnato al Servizio Affari Generali e Legali dell'Ordine Mauriziano con l'incarico di procedere allo studio della normativa di tutela della salute dei lavoratori. Non sono specificate le mansioni iniziali e di destinazione, non senza considerare che tra le prime e le ultime c'era stata l'assegnazione di altre mansioni la cui conformità alla qualifica - come già rilevato - era devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo ratione temporis; non sono state indicate le qualifiche, né le declaratorie contrattuali.
Sicché sostanzialmente generica - e quindi inammissibile - appare la censura mossa con il quinto motivo all'impugnata sentenza.
9.In conclusione il ricorso va rigettato nei suoi primi due motivi con affermazione della giurisdizione del giudice amministrativo sulle relative domande e rimessione delle parti innanzi al TAR competente per territorio (con gli effetti di traslatio iudicii predicati recentemente da Cass., sez. un., 22 febbraio 2007, n. 4109, e nel rispetto del principio generale, affermato da C. cost. 12 marzo 2007 n. 77, secondo cui gli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta a giudice privo di giurisdizione si conservano, a seguito di declinatoria di giurisdizione, nel processo proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione, atteso che l'opposto principio - non formulato espressamente in una o più disposizioni di legge, ma presupposto dall'intero sistema dei rapporti tra giudice ordinario e giudici speciali e tra i giudici speciali - per cui la declinatoria della giurisdizione comporta l'esigenza di instaurare ex novo il giudizio senza che gli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda originariamente proposta si conservino nel nuovo giudizio, "deve essere espunto, come tale, dall'ordinamento").
Il ricorso va poi rigettato anche nel resto con compensazione tra le parti delle spese di questo giudizio di cassazione sussistendone giustificati motivi (complessità della vicenda e delle questioni giuridiche poste).
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni Unite, rigetta i primi due motivi del ricorso e dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo sulle relative domande. Rimette le parti al TAR competente per territorio. Rigetta il ricorso nel resto; compensa tra le parti le spese di questo giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, il 13 gennaio 2009. Depositato in Cancelleria il 6 marzo 2009.

P.S. Trattasi di sentenza (parzialmente) ricettiva dell'orientamento da noi dottrinalmente prospettato nell'articolo: Gli oneri probatori del demansionamento e del mobbing.

NOSTRA NOTA
 
La sentenza è tutt’altro che condivisibile in ordine alle argomentazione tramite cui giunge a questo diverso regime di oneri probatori per il demansionamento, a seconda se sfociato in inattività forzata ovvero se trattasi di demansionamento conseguente ad erosione o sottrazione di compiti e incarichi, con confinamento in ruoli deteriori non pertinenti alla qualifica rivestita.
L’estensore trae le sue conclusioni fondandosi, da un lato, sull’inesercizio del potere direttivo  che dà luogo ad inadempimento datoriale –  da cui fa sortire la conseguenza del gravare sul datore l’onere di  fornire la prova liberatoria dell’assenza di un proprio comportamento inadempiente -  e, dall'altro, sull’esercizio non corretto (cioè, inesatto adempimento) dello stesso potere direttivo nella specie dello ius variandi. In quest’ultimo caso la prova della dequalificazione graverebbe su entrambe le parti.
La costruzione è artificiosa e non condivisibile.
Invero, in ogni caso di dequalificazione - senza distinguo alcuno se sfociante nell’inattività o nell’assegnazione a mansioni deteriori rispetto alle ultime svolte – grava sul datore di lavoro l’onere probatorio di provarne la conformità a quelle  esigibili dal prestatore in ragione della qualifica rivestita, onere da cui è sollevato invece il lavoratore.  L’onere probatorio grava sul datore – come ha a suo tempo insegnato Cass. SU, n. 13533/2001 – in ragione del fatto sostanziale dell’essere il lavoratore “creditore” del diritto al disimpegno di mansioni proprie dalla sua qualifica, del diritto a svolgere una prestazione piena - senza essere posto con intenti vessatori in situazione di inattività forzata - ed inoltre di essere assegnato a mansioni conformi a quelle di assunzione o da ultimo assegnategli in ragione della superiore qualifica rivestita. Questo diritto - codificato dal legislatore nell’art. 2103 c.c. a tutela della professionalità del prestatore - pone oggettivamente il datore di lavoro in posizione debitoria. Quindi qualora il lavoratore accampi, cioè alleghi, una dequalificazione grava sul "datore-debitore" dar la prova dell'esatto adempimento delle sue obbligazioni, attraverso la dimostrazione di avere assegnato mansioni rispettose del diritto della controparte in posizione di "creditore", non degradanti o squalificate. Il lavoratore, una volta allegati i fatti, ha il solo onere di dimostrarne la veridicità, onde sottrarsi all'addebito di prospettare questioni meramente pretestuose, non già quello di dimostrare il carattere  asseritamente dequalificante delle mansioni, giacché il carattere non dequalificante  ma rispettoso di quelle della qualifica del prestatore deve essere dimostrato dal datore di lavoro, stante la sua veste di debitore in questo aspetto piuttosto delicato dell'obbligazione di lavoro.
Il fondamento della ripartizione dell’onere probatorio risiede nel rispettivo ruolo che ciascuno riveste  nelle obbligazioni, a seconda che si sia creditori o debitori di un certo comportamento atteso e preteso dal creditore.
Queste considerazioni vengono lucidamente effettuate da Cass. n. 4766/2006 (est. Nobile)  che, a sua volta, si è richiamata alle opinioni di di Cass. 3.6.1995 n. 6225, così espressasi:  «il lavoratore (cui l'art. 13 della legge n. 300 del 1970 riconosce esplicitamente il diritto a svolgere le mansioni per le quali è stato assunto ovvero quelle equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza diminuzione della retribuzione) ha altresì diritto, a maggior ragione, a non essere allontanato da ogni mansione, cioè il diritto all'esecuzione della prestazione lavorativa, cui il datore di lavoro (…) ha il correlativo obbligo di applicarlo, restandogli consentita la possibilità dì trasferirlo solo per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. La violazione di tale diritto del lavoratore all’esecuzione della propria prestazione è fonte di responsabilità risarcitoria del datore di lavoro, salvo che l'inattività del lavoratore sia riconducibile ad un lecito comportamento del datore di lavoro medesimo, in quanto giustificata dall'esercizio dei poteri imprenditoriali,  garantiti dall'art. 41  Cost., o dall'esercizio dei poteri disciplinari».
Prosegue ancora Cass. n. 4766/2006 asserendo che: «Così configurato un diritto del lavoratore ed un corrispettivo obbligo del datore di lavoro, anche in materia di dequalificazione deve, quindi, affermarsi la applicabilità del principio affermato in generale dalle Sezioni Unite di questa Corte (vedi Cass. S.U. 30-10-2001 n. 13533) secondo cuiin tema di prova dell'inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, ed uguale criterio di riparto dell'onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l'adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell'eccezione di inadempimento ex art. 1460 cod. civ. (risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, perché il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l'altrui inadempimento, ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell'obbligazione). Anche nel caso in cui sia dedotto non l'inadempimento dell'obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell'obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto, esatto adempimento”.
Pertanto – conclude Cass. n. 4766/2006, in termini generali (non già per la sola fattispecie dell’inattività forzata alla quale vorrebbe l’odierna decisione relegarla marginalmente) - «allorquando da parte di un lavoratore sia allegata una dequalificazione o un demansionamento o comunque un inesatto adempimento dell'obbligo del datore di lavoro ex art. 2103 c.c. è su quest'ultimo che incombe l'onere di provare l'esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso la prova che l'una o l'altro siano state giustificate dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari (ovvero, in base al principio generale di cui all’art. 1218 c.c., comunque da una impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile)».
Se anche le Sezioni unite questo avessero voluto dire nella decisione soprariportata, piuttosto contorta e criptica, avrebbero dovuto essere più chiare, come abbiamo fatto noi per loro.

Mario Meucci

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