L'inottemperanza all'ordine giudiziale che richiede  prestazioni personali o la cooperazione dell'obbligato, costituisce reato ex art. 388 c.p.

 

Cass., sez. un. penali,   5 ottobre 2007, n. 36692 (ud. 27 settembre 2007) — Pres. Lupo — Rel. Nappi — P.M. Palombarini (concl. diff.)— Imp. Vu. (Annulla senza rinvio, App. Genova 24 dicembre 2004)

 

Provvedimento cautelare - Ordine incoercibile - Inottemperanza - Reato ex art. 388 co. 2 c.p. - Sussistenza.

 

In presenza di un ordine giudiziale va distinta l'ipotesi del divieto da quella dell'obbligo di fare. Ove si tratti di provvedimento interdittivo (obbligo di non fare o divieto), la violazione dell’obbligo di astensione priva immediatamente di effettività la decisione giudiziale, che risulta elusa nella sua esecuzione, perché contraddetta oltre che inadempiuta. E ove si tratti di provvedimento prescrittivo di prestazioni personali (obbligo di fare) o comunque di un comportamento agevolatore dell’obbligato, il rifiuto di adempiere non si esaurisce in una mera inottemperanza all’ordine del giudice, ma tende a impedirne o comunque a ostacolarne l’esecuzione, incidendo così ancora sull’interesse all’effettività della giurisdizione tutelato dalla norma incriminatrice. Pertanto si può stabilire il seguente principio di diritto: «Il mero rifiuto di ottemperare ai provvedimenti giudiziali previsti dall’art. 388 co. 2 c.p. non costituisce comportamento elusivo penalmente rilevante, a meno che la natura personale delle prestazioni imposte ovvero la natura interdittiva dello stesso provvedimento esigano per l’esecuzione il contributo dell’obbligato. Infatti l’interesse tutelato dal co. 2 come dal co. 1 dell’art. 388 c.p. non è l’autorità in sé delle decisioni giurisdizionali, bensì l’esigenza costituzionale di effettività della giurisdizione».

 

Motivi della decisione

 

1. Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Genova ha confermato la dichiarazione di colpevolezza di Vu.Gi. in ordine al delitto di elusione dell’esecuzione dell’ordinanza possessoria con la quale il giudice civile le aveva ingiunto la restituzione ad Ba.Al. e Co.Gi. di un’area pertinenziale a un magazzino di loro proprietà.

I giudici del merito, pur riconoscendo che il comportamento dell’imputata fu di mera inottemperanza all’obbligo derivante dal provvedimento possessorio, ne hanno nondimeno dichiarato la rilevanza penale nel presupposto che il reato di cui all’art. 388 c.p. tuteli «l’autorità della decisione giudiziaria in sé e per sé».

Ricorre per cassazione Vu.Gi. e propone tre motivi d’impugnazione.

Con il primo motivo la ricorrente deduce violazione dell’art. 388 c.p. e vizi di motivazione della decisione impugnata. Lamenta che i giudici del merito:

a) abbiano erroneamente interpretato come rifiuto di adempiere la lettera con la quale ella aveva dichiarato di non avere nulla da rispondere alla richiesta scritta di restituzione dell’immobile;

b) abbiano erroneamente qualificato come elusivo il mero rifiuto di adempiere il provvedimento possessorio, senza considerare le conseguenze assurde cui condurrebbe il riconoscimento di rilevanza penale a qualsiasi comportamento di inottemperanza a un titolo esecutivo giudiziale;

c) abbiano erroneamente omesso di considerare che non era esattamente individuabile l’area di cui era stata ordinata la restituzione.

Con il secondo motivo la ricorrente deduce ancora violazione dell’art. 388 c.p. e vizi di motivazione della decisione impugnata. Lamenta che erroneamente i giudici del merito le abbiano addebitato di avere utilizzato un cane per impedire alle persone offese l’accesso all’area controversa, mentre in realtà l’animale era legato, e di avere occupato l’area con una catasta di legna, peraltro già accumulata in precedenza sul posto.

Con il terzo motivo la ricorrente deduce violazione dell’art. 388 c.p. e vizio di motivazione della decisione impugnata in ordine all’elemento psicologico del reato.

 

2. La Sesta sezione penale di questa Corte, cui il ricorso era stato assegnato, ha denunciato un contrasto di giurisprudenza sui limiti di rilevanza a norma dell’art. 388 c.p., co. 2 della condotta elusiva «dell’esecuzione di un provvedimento del giudice civile, che concerna l’affidamento di minori o di altre persone incapaci, ovvero prescriva misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso o del credito».

Secondo una parte della giurisprudenza, infatti, «nel delitto di cui all’art. 388 c.p. il termine “elusione” deve essere inteso in senso ampio sino a comprendere qualunque comportamento positivo o negativo — che non esige scaltrezza o condotta subdole — diretto ad ostacolare l’esecuzione del provvedimento del giudice» (Cass., Sez. 3ª, 14 febbraio 1969, So., m. 111040, Cass., Sez. 1ª, 20 gennaio 1978, Ri., m. 139625, Cass., Sez. 3ª, 4 giugno 1980, Gu., m. 146139, Cass., Sez. 6ª, 4 giugno 1990, Pi., m. 185810, Cass., Sez. 6ª, 8 maggio 1996, Sa., m. 205078, Cass., Sez. 6ª, 6 ottobre 1998, De Le., m. 211739). Si ritiene perciò che «il delitto di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice non presuppone a nessun effetto che l’interessato abbia previamente promosso l’esecuzione forzata del diritto riconosciutogli dal giudice, essendo sufficiente che egli abbia richiesto, anche informalmente, di adempiere» (Cass., Sez. 6ª, 1º luglio 1997, Pe., m. 209279, Cass., Sez. 3ª, 16 marzo 1982, D’In., m. 154215). Secondo un opposto orientamento giurisprudenziale, invece, «ai fini della sussistenza del reato di elusione di un provvedimento del giudice di cui all’art. 388 c.p., co. 2, non è sufficiente un mero comportamento omissivo, ma è necessario un comportamento attivo ovvero commissivo del soggetto, diretto a frustrare o quanto meno a rendere difficile l’esecuzione del provvedimento giudiziale, ciò perché la semplice inattività viene perseguita dalla legge con sanzioni di carattere civilistico appositamente predisposte» (Cass., Sez. 6ª, 19 marzo 1991, Mo., m. 187420, Cass., Sez. 6ª, 23 marzo 2000, Va., m. 220561; analogamente già Cass., Sez. 3ª, 17 ottobre 1968, Di Fl., m. 109706, Cass., Sez. 3ª, 16 maggio 1974, Te., m. 129207, Cass., Sez. 3ª, 31 ottobre 1979, Gi., m. 143826, Cass., Sez. 6ª, 8 aprile 1981, Sa., m. 090008).

Una tesi intermedia è sostenuta infine dalla giurisprudenza che distingue in ragione della natura dell’obbligo imposto con il provvedimento giudiziale cui non si è ottemperato. Se si tratta di un obbligo di non fare, si sostiene, risulta elusivo anche il solo fatto della sua violazione; se si tratta di un obbligo di fare, è rilevante solo il comportamento volto a impedire il risultato concreto cui tende il comando giudiziale (Cass., Sez. 6ª, 9 maggio 2001, Ca., m. 219973, Cass., Sez. 6ª, 12 novembre 1998, Sa., m. 213909). Si precisa peraltro che, anche quando si tratti della violazione di obblighi di fare, «la inazione dell’obbligato può assumere rilievo, ogni volta che l’esecuzione del provvedimento del giudice richieda la sua collaborazione» (Cass., Sez. 6ª, 18 novembre 1999, Ba., m. 217332, Cass., Sez. 3ª, 22 ottobre 1971, Tr., m. 119710, Cass., Sez. 3ª, 18 maggio 1967, Pa., m. 104898), in particolare se si tratti di attività non fungibile (Cass., Sez. 3ª, 15 maggio 1967, Si. m. 105101).

 

3. Si discute dunque «se per la sussistenza del reato previsto dall’art. 388 c.p., co. 2 sia sufficiente che la condotta elusiva corrisponda ad una mera inottemperanza ovvero ad un semplice rifiuto di eseguire il provvedimento giudiziale, oppure occorra un comportamento commissivo diretto ad ostacolare l’esecuzione del provvedimento o, ancora, se sia necessario distinguere la condotta di elusione a seconda della natura dell’obbligo da eseguire (obbligo di fare o di non fare)».

Il contrasto di giurisprudenza denunciato dalla Sesta sezione penale di questa Corte ha peraltro la sua origine nella risalente disputa soprattutto dottrinale sull’oggetto giuridico dei reati previsti dall’art. 388 c.p. nei suoi due primi commi, che ne esaurivano il testo prima della modifica apportatavi dalla l. n. 689 del 1981. S’è a lungo discusso infatti se oggetto giuridico dei due reati sia l’autorità in sé delle decisioni giudiziarie ovvero solo la possibilità di una loro effettiva esecuzione. Ed è evidente che solo la prima opzione interpretativa renderebbe rilevanti in ogni caso anche comportamenti meramente omissivi. L’inadeguatezza di tale opzione è tuttavia palesata dalla considerazione che l’art. 388 c.p., co. 1, non assegna rilevanza penale a qualsiasi inadempimento «degli obblighi civili nascenti da una sentenza di condanna o dei quali è in corso l’accertamento dinanzi l’Autorità giudiziaria», ma richiede il compimento di atti simulati o fraudolenti, intesi a sottrarre l’obbligato all’adempimento e seguiti dall’effettiva inottemperanza all’ingiunzione di eseguire la sentenza. Si puniscono dunque nell’art. 388 c.p., co. 1, i comportamenti destinati a precostituire una situazione di ineseguibilità della decisione giudiziaria definitiva. E non si vede come si possa non riconoscere un’analoga  ratio anche al co. 2, laddove punisce comportamenti elusivi di provvedimenti cautelari o comunque interinali, che sono destinati appunto ad assicurare l’eseguibilità della decisione finale, anticipandone talora in qualche misura gli effetti.

Entrambe le fattispecie previste dai primi due commi dell’art. 388 c.p. hanno in realtà per oggetto giuridico l’interesse all’effettività della tutela giurisdizionale, che è garantito dalla Costituzione, secondo un’interpretazione ormai consolidata della Corte costituzionale (Corte cost., n. 77/2007, Corte cost., n. 24/2003).

Non è dunque la possibilità di un’esecuzione attuale della decisione giudiziaria a venire in rilievo, perché il co. 1, estende esplicitamente la tutela anche agli obblighi «dei quali è in corso l’accertamento dinanzi l’Autorità giudiziaria». Ma è tuttavia rilevante l’esigenza di preservare la possibilità di un’effettiva efficacia pratica della decisione futura. E benché il riferimento della seconda fattispecie a provvedimenti ordinatori e cautelari estenda certamente l’ambito della tutela, non v’è ragione di ipotizzare una diversità di oggetto giuridico tra l’art. 388 c.p., co. 1 e 2, come pure si è sostenuto da una parte della dottrina.

Nella prima fattispecie è infatti l’inottemperanza «all’ingiunzione di eseguire la sentenza» ad assegnare rilevanza penale ai precedenti comportamenti simulatori o fraudolenti. Nella seconda fattispecie assumono invece immediata rilevanza penale i comportamenti elusivi delle misure interinali adottate in funzione cautelare o anticipatoria della futura decisione sul merito della controversia. Ma in entrambe le fattispecie il legislatore ha inteso garantire l’effettività della tutela giurisdizionale, punendo i comportamenti destinati a privarla di una concreta possibilità di incidere sugli interessi controversi.

È significativo del resto che la condotta prevista dall’art. 388 c.p., co. 2, qui specificamente in discussione, sia descritta come elusione non del provvedimento interinale in sé, bensì della sua esecuzione. Sicché è ragionevole ritenere che si richieda una condotta ben più trasgressiva della mera inottemperanza, altrimenti sarebbe stato sufficiente definire la condotta in termini di «inosservanza», come nell’art. 389 c.p., che punisce appunto la «inosservanza di pene accessorie», nell’art. 509 c.p., che punisce la «inosservanza delle norme disciplinanti i rapporti di lavoro», o nell’art. 650 c.p., che punisce la «inosservanza dei provvedimenti dell’autorità».

Come da tempo riconosce una parte della giurisprudenza, occorre nondimeno tener conto della natura degli obblighi derivanti dai provvedimenti interinali tutelati dall’art. 388 c.p., co. 2. Quando si tratti di obblighi la cui esecuzione coattiva non richieda necessariamente un intervento agevolatore del soggetto obbligato, non v’è ragione di assegnare rilevanza al suo atteggiamento di mera inottemperanza, perché, come s’è detto, non è qui in discussione una mera trasgressione all’ordine del giudice, bensì l’ostacolo all’effettiva possibilità di una sua esecuzione. In questi casi assumono dunque rilevanza penale solo i comportamenti che ostacolino dall’esterno un’attività esecutiva integralmente affidata ad altri.

Diversamente deve ritenersi, invece, quando la natura personale delle prestazioni imposte ovvero la natura interdittiva dello stesso provvedimento giudiziale escludano che l’esecuzione possa prescindere dal contributo dell’obbligato. In questi casi infatti l’inadempimento dell’obbligato contraddice di per sé la decisione giudiziale e ne pregiudica l’eseguibilità.

Ove si tratti di provvedimento interdittivo (obbligo di non fare), in particolare, la violazione dell’obbligo di astensione priva immediatamente di effettività la decisione giudiziale, che risulta appunto elusa nella sua esecuzione, perché contraddetta oltre che inadempiuta. E ove si tratti di provvedimento prescrittivo di prestazioni personali o comunque di un comportamento agevolatore dell’obbligato, il rifiuto di adempiere non si esaurisce in una mera inottemperanza all’ordine del giudice, ma tende a impedirne o comunque a ostacolarne l’esecuzione, incidendo così ancora sull’interesse all’effettività della giurisdizione tutelato dalla norma incriminatrice. Si può pertanto concludere enunciando il seguente principio di diritto:

Il mero rifiuto di ottemperare ai provvedimenti giudiziali previsti dall’art. 388 c.p., co. 2 non costituisce comportamento elusivo penalmente rilevante, a meno che la natura personale delle prestazioni imposte ovvero la natura interdittiva dello stesso provvedimento esigano per l’esecuzione il contributo dell’obbligato. Infatti l’interesse tutelato dall’art. 388 c.p., co. 1 e 2, non è l’autorità in sé delle decisioni giurisdizionali, bensì l’esigenza costituzionale di effettività della giurisdizione.

 

4. Nel caso in esame, come risulta dalla stessa sentenza impugnata, l’ordinanza di reintegrazione di Ba.Al. e Co. Gi. nel possesso dell’area di loro proprietà fu effettivamente eseguita dall’ufficiale giudiziario, che, constatato il rifiuto di restituzione opposto da Vu.Gi., si avvalse di ausiliari per rimuovere la legna e gli altri oggetti accatastati nello spazio controverso.

I giudici d’appello riconoscono che si trattò della mera trasgressione dell’obbligo derivante dal provvedimento possessorio. Ma attribuiscono rilevanza penale a tale comportamento, pur di mera inottemperanza, nel presupposto che oggetto della tutela sia appunto «l’autorità della decisione giudiziaria in sé e per sé».

Esclusa tuttavia la validità di un tale presupposto, risulta evidente, sulla base dello stesso accertamento in fatto contenuto nella sentenza impugnata, l’insussistenza del reato contestato. E pertanto, in applicazione dell’art.129 c.p.p., la sentenza impugnata va annullata senza rinvio, perché il fatto non sussiste. (Omissis).

 

 Nota

 (da cui il curatore del sito dissente, per condivisione della posizione "sostanzialistica" delle SU penali)

Le Sezioni Unite penali inventano il reato di inottemperanza all’ordine cautelare incoercibile

 

Nella sentenza 36692/07 le Sezioni Unite penali hanno affermato che la mera inottemperanza ai provvedimenti cautelari incoercibili costituisce reato ai sensi dell’art. 388, co. 2,  c.p. [1]. L’argomento utilizzato è che l’ordine incoercibile per essere attuato richiede la cooperazione dell’obbligato, la cui inerzia, conseguentemente, pregiudica l’effettività della giurisdizione [2].

Ma questo argomento, se mai spendibile de iure condendo[3], seppure con molta prudenza [4], fa a pugni con l’ordinamento vigente.

Invero la disposizione penale in esame non punisce la mera inosservanza del provvedimento, bensì solo chi ne «elude l’esecuzione».

L’elusione costituisce una condotta attiva, diretta a sfuggire scaltramente ad una esecuzione forzata possibile, che è, appunto, il bene tutelato dalla norma [5].

Se, invece, l’esecuzione forzata è impossibile per l’infungibilità del facere ordinato, non esiste una fattispecie penale che colpisca la mancata esecuzione spontanea ossia la mera inosservanza di tale ordine [6].

Questo, piaccia o non piaccia, è l’ordinamento vigente. Nel quale, per il voluto rispetto della sfera di libertà dell’obbligato, non esiste una generale misura coercitiva indiretta penale a tutela della effettività dei provvedimenti giudiziali.

Tant’è che quando il legislatore ha ritenuto, per particolari materie, di introdurre una misura del genere lo ha fatto espressamente, come nel caso dell’ordine di repressione della condotta antisindacale del datore di lavoro, di cui è punita penalmente la mera inottemperanza (art. 28, co. 4, stat. lav.). E certo nessuno può avere l’audacia di sostenere che «elude» ha lo stesso significato di «non ottempera».

Del resto la stessa sentenza in commento mostra di aver ben compreso questa ovvia distinzione, laddove afferma che «è significativo che la condotta prevista dall’art. 388, co. 2, c.p. sia descritta come elusione non del provvedimento interinale in sé, bensì della sua esecuzione. Sicché è ragionevole ritenere che si richieda una condotta ben più trasgressiva della mera inottemperanza, altri-menti sarebbe stato sufficiente definire la condotta in termini di «inosservanza».

Pertanto è clamorosa l’interna contraddizione della sentenza, che, dopo questa correttissima affermazione, giunge a conclusione opposta, così inventando di sana pianta una misura coercitiva indiretta penale.

Antonio Vallebona

Professore ordinario di diritto del lavoro

Università di Roma «Tor Vergata»

 

Massimo Pellicciari Avvocato

 

(fonte: Mass. giur. lav. 1-2/2008, 112 e ss.)


 

[1] In generale sull’art. 388 c.p. cfr. ROMANO, Delitti contro l’amministrazione della giustizia, Milano 2007; PAZIENZA, L’inosservanza dei provvedimenti giudiziari, Napoli, 1979; CONTI, Mancata esecuzione dei provvedimenti del giudice, in Enc. dir. 1975, XXV, Milano; GRIECO, La tutela penale del processo civile, Napoli 1963; SANDULLI, Mancata esecuzione di un provvedimento del giudice, Milano 1943; VASSALLI, La mancata esecuzione di un provvedimento del giudice, Torino, 1938; RONCO, Provvedimenti del giudice (violazione di doveri inerenti ai), in Noviss. dig. it., Appendice, VI, Torino 1986; PIOLETTI, Mancata esecuzione dolosa di provvedimenti del giudice, in AA.VV., I delitti contro l’amministrazione della giustizia, a cura di Coppi, Torino, 1996; CARACCIOLI, Delitti contro l’amministrazione della giustizia, Torino 1995; MOLARI, La tutela penale della condanna civile, Padova 1960; ALESSANDRI, Il problema delle misure coercitive e l’art. 388 c.p., in «Riv. it. dir. proc. pen.» 1981, 154. Con riferimento al rapporto tra art. 388 c.p. e mancata reintegrazione del lavoratore v. PADOVANI, Ordine di reintegrazione nel posto di lavoro e art. 388 c.p., in «Dir. lav.» 1975, II, 33; PINUCCI, Tutela penale dei provvedimenti di reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore ingiustamente licenziato, in «Foro it.» 1984,II, 6; TAMBURRINO, Sull’applicabilità dell’art. 388 c.p. all’ordine di reintegrazione del posto di lavoro ex art. 18 dello statuto dei lavoratori, in Mass. giur. lav. 1974, 660; VENEZIANI, Ancora sulla coercibilità penale dell’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro, in «Riv. it. dir. lav.» 1987, II, 389; VALLEBONA, Tutele giurisdizionali e autotutela individuale del lavoratore, Padova 1995, 31.

[2] Al riguardo, però, appare convincente l’affermazione di PAGLIARO, Principi di diritto penale, Parte speciale, II, Milano 2000, 213, secondo cui «Qui, come del resto in altri casi, lo studio del bene tutelato non offre alcun contributo all’applicazione pratica del diritto. Piuttosto che formulare nuove teorie, le quali non farebbero altro se non complicare inutilmente il dibattito dottrinale, appare dunque preferibile soffermarsi direttamente sulla struttura del reato».

[3] Vedi esplicitamente FIANDACA, MUSCO, Diritto Penale, Parte speciale, vol. I, Bologna 2007, 423, i quali, peraltro, affermano che sono assai discutibili anche «de iure condendo i recenti tentativi intesi a valorizzare l’art. 388 come strumento di tutela atto a supplire alle in-sufficienze del processo esecutivo specie nel caso di prestazioni “infungibili”, in quanto tali non suscettive di esecuzione forzata: per esemplificare si pensi all’ordine impartito dal giudice al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore illegittimamente licenziato».

[4] VALLEBONA, op. cit. , 27, rileva che «la tecnica ingiunzionale penale dovrebbe essere limitata alle sole ipotesi di forte interesse pubblico all’adempimento specifico». In tal senso v. PALAZZO, Tutela dei diritti, tutela del provvedimento giurisdizionale, e categorie penalistiche, in Processo e tecniche di attuazione dei diritti, Napoli 1989, vol. II, 1235 e 1262; FALARI, Tutela giurisdizionale dei diritti, in Enc. dir., vol. XLV, Milano 1992, 411; FIANDACA, Tutela dei diritti e misure coercitive penali, in Processo e tecniche, cit., vol. II, 1273 e ss.; SMURAGLIA, Replica, in Le sanzioni nella tutela del lavoro subordinato, Milano 1979, 234 e ss.; GAROFALO, Interessi collettivi e comportamento antisindacale dell’imprenditore, Napoli 1979, 121 e ss. Ancora più seccamente, per l’inopportunità della criminalizzazione dell’inottemperanza ai provvedimenti del giudice civile, BARCELLONA, Intervento, in Processo e tecniche, cit., vol. II, 1288-1289; RESCIGNO, Intervento, ibidem, vol. I, 376; CARPI, Note in tema di tecniche di attuazione di diritti, ibidem, vol. I, 168; TOMMASEO, Intervento, ibidem, vol. I, 568.

[5] Anche per ROMANO, op. cit , 325, «Tuttavia il riferimento al verbo “eludere” sembra conduca a richiedere necessariamente forme di scaltrezza, sotterfugi, raggiri o espedienti, per sfuggire alla esecuzione del provvedimento». Secondo PAGLIARO, op. cit., 221 «“Eludere”, significa sfuggire, con qualche espediente, alla esecuzione del provvedimento. Non basta la mera passività. Infatti, quando la legge vuole incriminare ogni tipo di disobbedienza (il sottrarsi con una condotta positiva oppure con la semplice inerzia), impiega termini diversi e soprattutto quelli di “non osservare”, di “trasgredire” di “non adempiere” [...]. Non è possibile, dunque, sotto pena di violare il principio di tipicità, estendere il significato del termine “elude” fino a comprendervi anche il rifiuto di eseguire o addirittura la passiva inesecuzione del provvedimento».

[6] In tal senso ROMANO, op. cit., 317, secondo cui «Non crediamo, poi, alla possibilità che l’art. 388 si estenda a tutelare le obbligazioni ad un facere infungibile, a non facere o di pati. Lo stesso dicasi per quanto attiene specificatamente all’obbligo di riassunzione del lavoratore licenziato, perché la condanna concerne un facere infungibile, in quanto tale non suscettibile di esecuzione specifica». Nello stesso senso PAZIENZA, op. cit., 114; PIOLETTI, op. cit., 585.

 

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