Mobbing in Italia: problematiche connesse con la tutela del lavoratore

 

Disponibile on line la relazione del Direttore Generale dell’IIMS al WorkCongress6 2004 del dicembre scorso.

L’evoluzione del fenomeno mobbing nel nostro Paese e gli strumenti di tutela dei lavoratori sono stati oggetto della relazione del Direttore Generale dell’Istituto Italiano di Medicina Sociale (IIMS) al WorkCongress6 2004, il VI° Congresso Internazionale su prevenzione, riabilitazione ed indennizzo degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, svoltosi a Roma nel Dicembre scorso.

Nella relazione sono illustrati i connotati essenziali del mobbing e viene data una dimensione del fenomeno attraverso la comparazione dei dati Inail del 2001(che vedeva 210 denunce presentate e 28 accolte), delle rilevazioni del Rapporto EURISPES 2003 [si veda PuntoSicuro 701], della Ricerca SDA BOCCONI del febbraio 2004 [si veda PuntoSicuro n.941] e della ricerca IREF del marzo 2004 [si veda PuntoSicuro n.1053, n.1054].

Le slides della relazione del Presidente dell’IIMS si sofferma poi sugli aspetti della tutela del mobbizzato nel quadro normativo nazionale, sulle attuali forme di tutela dal mobbing in sede civile e in sede penale e sulla normativa in materia assicurativa, previdenziale e prevenzionistica. Una attenzione, quella dell’IIMS nel confronti della tutela del mobbing, che nel 2005 si concretizzerà con uno studio finalizzato a verificare le "potenzialità della legislazione vigente e gli orientamenti del legislatore comunitario (anche in considerazione dell’ampliamento/discriminazione/ dumping sociale nel mercato del lavoro della UE allargata)".

 

Il mobbing e' donna

Lo rivela una indagine dell’Eurispes inserita nel ‘’Rapporto Italia 2003’’. I dati salienti della ricerca.

Nella 15° edizione del ‘’Rapporto Italia’’, che sarà presentato 31 gennaio 2003, l’Eurispes ha dedicato una della sue schede al mobbing, una delle patologie emergenti in medicina del

Il mobbing, del quale non esiste ancora una definizione chiara e universalmente riconosciuta, a partire dagli anni Novanta sta acquisendo un ruolo particolarmente rilevante. (Si vedano gli articoli dedicati alla ‘’Settimana europea per la salute e la sicurezza sul lavoro 2002’’).

E proprio l’attualità del tema ha spinto l’ Eurispes a trattarlo nel ‘’Rapporto Italia 2003’’, una delle ricerca attraverso le quali l’istituto intende studiare e interpretare l’evoluzione e i cambiamenti della società italiana.

L’indagine sul mobbing ha visto coinvolto un gruppo di ricerca (operante presso l’Ospedale Sant’Andrea di Roma, costituito da medici del lavoro e psichiatri dell’ambulatorio di Medicina del lavoro della seconda Facoltà di medicina dell’Università “La Sapienza”, diretto dal prof. Edoardo Monaco) che ha intrapreso un’attività ambulatoriale dedicata specificamente al mobbing, con l’intenzione di analizzare tale fenomeno e sollecitare la proposta di criteri di valutazione. I dati hanno messo in luce aspetti di un fenomeno, in continua evoluzione, che solo in Italia coinvolge un milione di lavoratori, su oltre 21 milioni di occupati, maggiormente nelle regioni del Nord (65%)

Questi in sintesi i dati rilevati.

La vittima del mobbing è prevalentemente donna: il 52% delle donne sarebbe oggetto di “persecuzioni” in ambito lavorativo.

‘’Se poi si tratta di impiegati, e qui non c’è genere che tenga, le vessazioni – afferma l’Eurispes - raggiungono il picco del 79%.’’

Nel corso di 14 mesi, da giugno 2001 a settembre 2002, i pazienti analizzati dall’equipe di medici sono risultati essere per il 62,5% dipendenti di aziende private (il resto appartenenti a quelle pubbliche) e per il 52% diplomati (laureati e possessori di licenza media si attestano invece ex equo al 24%). Circa lo stato civile, il 48% dei soggetti sottoposti a indagine sono coniugati, il 14% divorziati o separati e il 38% celibi o nubili. Le azioni mobbizzanti subite dai pazienti per il 3% hanno avuto una durata inferiore ai sei mesi, per il 27% tra sei mesi e un anno, per il 40% tra uno e due anni e per il 30% oltre i due anni.

Alcune delle situazioni più frequentemente riferite per esercitare violenza psicologica, emerse dall’indagine, sono: accuse di scarsa produttività; assegnazione di compiti superiori a pari grado o a subordinati della vittima; assegnazione di obiettivi impossibili per il livello professionale della vittima e per il tempo concesso non adeguato al compito; attribuzione di compiti non necessari, richiesti urgentemente e, una volta assolti, neppure controllati; contestazioni o richiami disciplinari non adeguati all’entità della mancanza; declassamento delle mansioni rispetto alla qualifica attribuita; eccessivo ricorso a visite fiscali; esclusione da riunioni plenarie; generiche critiche circa lo svolgimento del lavoro, con rifiuto a motivarle; imposizione ai colleghi della vittima di non parlare con la vittima stessa; minacce di trasferimento; ossessivo controllo dell’orario di lavoro; richieste di lavoro urgente anche in giorni festivi o fuori orario; ripetute e repentine variazioni di orientamento sul lavoro da eseguire; tendenza a riferire giudizi negativi di terzi; uso di minacce esplicite o implicite; uso di tono arrogante in presenza di colleghi; valutazioni di profitto non adeguate al lavoro svolto, sia perché in contrasto con i risultati, sia perché difformi rispetto a precedenti rapporti.

Inoltre, nell’ambito della ricerca condotta al Sant’Andrea, alcuni pazienti (39%) presentavano sintomi patologici riconducibili ad una situazione di stress: astenia, ansia, depressione, panico, disturbi del sonno, irregolarità nell’alimentazione, alcolismo, tabagismo, uso improprio di farmaci. Non raro (31%) anche il riscontro di sintomi fisici quali cefalea, vertigini, eruzioni cutanee, tachicardia, senso di ambascia precordiale, ipertensione arteriosa e disturbi dell’apparato gastrointestinale come gastrite, ulcera e colite spastica.

I dati emersi indicano un disturbo dell’adattamento nel 63% dei casi esaminati; il 28% risulta affetto da patologie psichiatriche; il 9% dei pazienti non hanno presentato patologie psichiche degne di nota.

Tra i pazienti, il 15% aveva sofferto già in precedenza di patologie psichiatriche, mentre per l’85% non risultano all’anamnesi sindromi psichiatriche pregresse.

L’atto finale è stato la certificazione di compatibilità con il mobbing o stress occupazionale, che è stato rilasciato nel 67% dei casi, ossia quando è stato diagnosticato un disturbo dell’adattamento. Per il 33% dei pazienti non è stata rilasciata certificazione, sia perché il riscontro di patologie psichiatriche ha indotto a rinviare ad una successiva visita di controllo, raccomandando una opportuna terapia presso centri specializzati e consigliando, ove possibile, l’allontanamento dal posto di lavoro, sia perché non è stato possibile esprimere un giudizio per insufficienti elementi diagnostici.

 

Il mobbing nella realtà italiana

Una ricerca dell’Università Bocconi ne ha colto le peculiarità. Le tipologie di "attacchi" contro i mobbizzati.

Il tema del mobbing è tornato alla ribalta delle cronache nei giorni scorsi, dopo la presentazione al Festival del Cinema di Berlino del film italiano “Mi piace lavorare.(mobbing)”.

Sull’onda di questo interesse l’Area Organizzazione & Personale della SDA-Bocconi ha deciso di rendere noti i risultati preliminari di una ricerca sul fenomeno del mobbing nelle realtà lavorative italiane.

Nella sua indagine Paola Caiozzo sta prendendo in esame di casi, a partire dal 1996, dei pazienti della Clinica del Lavoro di Milano affetti da disturbo dell’adattamento (DDA) o disturbo post-traumatico da stress (DPTS), patologie per le quali la condizione di lavoro è considerata la causa più importante.

Su circa 3.000 persone che si sono rivolte alla Clinica del Lavoro, circa 1.000 rientrano effettivamente nella categoria dei mobbizzati. I risultati presentai si riferiscono ai 102 casi ad oggi analizzati; l’analisi si concluderà ai 300 casi.

Il mobbing in Italia “si presenta in contesti diversi con caratteristiche diverse, ma può colpire chiunque, indipendentemente da età, sesso e posizione gerarchica. Se le caratteristiche personali sono ininfluenti, le vere cause e, perciò, le soluzioni, sono da ricercare all’interno delle organizzazioni aziendali. [..] Una specificità del tutto italiana è la massiccia diffusione del mobbing nel settore pubblico.”

Ecco le caratteristiche dei mobbizzati “all’italiana”.

Età: la distribuzione del mobbing è piuttosto omogenea, con la sola, significativa eccezione dei giovani tra i 21 e i 30 anni, che costituiscono un misero 5,9% dei mobbizzati.

"È l’età - rivela la ricercatrice - in cui, di fronte alle pressioni dell’ambiente lavorativo, è più facile attuare strategie di exit."

Sesso: a differenza dell’Europa, dove le più colpite dal mobbing sono le donne, in Italia la percentuale è leggermente più alta per gli uomini.

Titolo di studio: i lavoratori con titoli di studio più bassi sono meno colpiti dal mobbing: solo l’1% delle vittime possiede la licenza elementare e i titoli di studio superiori sono sovrarappresentati rispetto alla composizione del mercato del lavoro italiano.

Gli attacchi contro i mobbizzati: generalmente gli attacchi ai quali è sottoposto il mobbizzato sono di tre tipi: attacchi alla persona, attacchi alla situazione lavorativa e azioni punitive.
Tra gli attacchi alla persona sono diffusissimi (l’85% dei mobbizzati dichiara di averli subiti spesso o qualche volta) i comportamenti volti a istigare contro la vittima l’ambiente circostante e le provocazioni volte a fargli perdere il controllo, ma altrettanto tipici sono l’isolamento fisico, la creazione del silenzio intorno al soggetto, l’esclusione dalle attività ricreative e sociali, il rifiuto di collaborazione da parte dei colleghi.

Gli attacchi alla situazione lavorativa si esplicitano in attacchi a livello delle capacità e dell’immagine professionale (critiche continue, mancata considerazione delle proposte, basse valutazioni, attribuzione di colpe) e in attacchi penalizzanti in eccesso (assegnazione di carichi di lavoro e scadenze impossibili) o in difetto (demansionamento, mancata assegnazione di lavoro). Gli attacchi penalizzanti in difetto sono più diffusi di quelli in eccesso.

L’attacco punitivo più diffuso è il rifiuto di permessi, ferie, trasferimenti.

Gli aggressori (mobber): un’altra tipicità italiana è il fatto che gli aggressori siano riconosciuti, nella stragrande maggioranza dei casi, nei superiori (53,5%), mentre i colleghi partecipano pochissimo alle azioni di mobbing (7,1%). Il resto del campione indica come aggressori diverse combinazioni di superiori, colleghi e subalterni. Più del 10% degli intervistati ha indicato, aggiungendola nel questionario, la voce “tutti”.

Mobbing strategico: A seconda dell’intensità della funzione di rinforzo dell’organizzazione, il mobbing può essere strategico, ovvero rispondente a un preciso disegno di esclusione di un lavoratore, o relazionale, ovvero derivante da un’alterazione delle relazioni interpersonali, sia gerarchiche sia coi colleghi. Nel mobbing strategico i mobber sono i manager e la ricerca conferma che le azioni più utilizzate sono quelle che incidono sulla sfera professionale: azioni che mirano a ridicolizzare, umiliare, offendere o provocare la vittima, critiche continue; sovraccarico di lavoro o demansionamento; negazione del diritto alla formazione e rifiuti ad ottenere permessi e ferie; eccessivo ricorso alle visite fiscali. Il mobbing relazionale tra colleghi si caratterizza, invece, per le critiche continue; il rifiuto di comunicazioni dirette; le azioni che mirano a ridicolizzare, umiliare, offendere; i comportamenti volti a istigare l’ambiente contro il mobb

 

Mobbing che cambia (1/2)

C’è chi ne è vittima e non sa di esserlo. L’evoluzione del fenomeno in una indagine realizzata dalle Acli.

La punta di un iceberg; il numero di coloro che dichiarano di subire o di aver subito vessazioni sul lavoro non sono che una parte di quel fenomeno, in gran parte sommerso, che è il mobbing.
Lo rivela una indagine svolta dall’Iref, Istituto di ricerca delle Acli, tra il novembre 2003 ed il marzo 2004 su un campione di 3000 intervistati rappresentativo dei lavoratori italiani.

Il 5,2% del campione ha dichiarato di essere vittima del mobbing; stimando il dato rispetto alla popolazione complessiva degli occupati (circa 22 milioni di lavoratori), i mobbizzati in Italia sarebbero circa 1.100.000 lavoratori. Il 5,5% degli intervistati ha dichiarato invece di aver subito il mobbing (ex-mobbizzati).

Il fenomeno non è tuttavia ancora molto conosciuto, il 70,4% del campione ha infatti dichiarato di non conoscerlo; quasi un quinto del campione (18,9%), pur non essendo esposto al mobbing, mostra invece una spiccata sensibilità nei confronti del fenomeno.

L’indagine delle Acli ha presentato un confronto tra i mobbizzati e gli ex-mobbizzati, per valutare l’evoluzione del fenomeno.

Considerando il gruppo di coloro che hanno dichiarato di essere vittima del mobbing, il 66,9% è di sesso maschile, l’80% è dipendente a tempo indeterminato, il 63,8% risiede nel Sud ed il 20,4% nelle Isole. Il mobbizzati appartengono per lo più al settore industriale (34,5% del gruppo), in particolare a un’impresa con più di 250 dipendenti (37,3%).

Dal gruppo di coloro che hanno dichiarato di essere stati vittima del mobbing (ex-mobbizzati:5,5% dell’intero campione), emerge invece un profilo diverso. In particolare si tratta di lavoratrici (60,7% del gruppo), impiegate nel settore pubblico (27%), inserite in un’unità operativa della pubblica amministrazione (dipartimenti, direzioni, servizi ecc.) di media dimensione (27,3%).

Nel tempo il fenomeno del mobbing, quindi, ha radicalmente cambiato bersaglio e ambito d’azione, passando dalle lavoratrici pubbliche ai lavoratori della grande industria. “Il cambiamento dalla vittima femminile ad una maschile farebbe ipotizzare che il mobbing sia passato dall’essere uno dei tanti strumenti di discriminazione di genere, ad una pratica volta ad aggredire tutti coloro che non si conformano alle regole implicite di un’organizzazione” – rileva l’indagine Iref.

Significativo anche il fatto che il mobbing colpisca in particolare i lavoratori dell’industria e la fascia di età tra i 40 ed i 50 anni . [la seconda parte dell'articolo sarà pubblicata sui prossimi numeri di PuntoSicuro].

 

Mobbing che cambia (2/2)

L’età difficile. L’evoluzione del fenomeno in una indagine realizzata dalle Acli.

[La prima parte dell’articolo è stata pubblicata sul numero 1053 di PuntoSicuro]

Valutando le caratteristiche dei mobbizzati e degli ex-mobbizzati, l’indagine dell’Iref ha individuato in particolare una caratteristica costante: l’età dei mobbizzati.

La vittima di mobbing, in linea di massima, è una persona nel pieno della propria carriera lavorativa, con un’età compresa fra i 40 e i 50 anni; “nella fattispecie, - rileva l’Iref - è un lavoratore che, ad oggi, è troppo vecchio per riqualificarsi e troppo giovane per andare in pensione”.

Un ulteriore fattore costante del mobbing è la sua diffusione, soprattutto, nel Centro e nel Sud Italia.

La ricerca ha voluto inoltre fare luce sulle diverse modalità di mobbing. Nella maggior parte dei casi (78,6% del gruppo dei mobbizzati vecchi e nuovi) si tratta di mobbing verticale, cioè le vessazioni sono compiute da un superiore.

La totalità di coloro che hanno dichiarato di subire o di aver subito azioni di mobbing afferma di conoscere in senso ampio il fenomeno; tuttavia solo il 61,8% degli esposti ha fornito una definizione precisa di cosa sia. Il 38,2% dei mobbizzati, quindi, pur conoscendo il fenomeno ne offre una definizione diversa da quella accreditata dagli studi di settore, che definiscono il mobbing come “Un’aggressione sistematica nel posto di lavoro consistente in persecuzioni e vessazioni diverse”.

Nella percezione dei singoli il mobbing può oscillare tra una lite estemporanea tra colleghi o con superiori e una strategia vessatoria sistematica volta ad espellere il lavoratore dal luogo di lavoro

 

(fonte: http://www.romacivica.net/lpd/SALUTE/mobbing.htm )

 

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