Legittimo (anche) per le Sezioni Unite il versamento dei contributi sindacali per “cessione di credito” ex art. 1260 c.c.

 

Le sezioni unite, con la decisione n. 28269 del dicembre 2005, hanno risolto la divergenza di orientamenti sul tema della trattenuta dei contributi sindacali per le OO.SS. non firmatarie dei contratti collettivi applicati in azienda, legittimando – secondo il prevalente orientamento – il ricorso da parte degli iscritti alla “cessione di credito” ex art. 1260 c.c., in base alla quale il datore di lavoro dovrà provvedere alle ritenute sulle retribuzioni da versare alle OO.SS.a titolo di contributo associativo dell’iscritto.

 

di Mario Meucci – giuslavorista in Roma

 

1. La decisione delle sezioni unite n. 28269 del 21 dicembre 2005

Il contenzioso di merito degli anni 97-98 sulle trattenute per i contributi sindacali da destinare alle OO.SS. non firmatarie dei contratti collettivi applicati in azienda – dopo essere approdato in Cassazione per il tramite delle sentenze n. 1968 e n. 3917 del 3 e 26 febbraio 2004, nonché n.10616/2004 e n.14032 del 26 luglio 2004 di segno conforme alla n. 3917 – è stato a suo tempo assegnato alle sezioni unite in ragione di un contrasto interno alla sezione lavoro della S.C. . La prima decisione n. 1968/2004 (rel. Balletti) – unitamente alla successiva n. 10616/2004 - infatti aveva finito per ritenere inadeguata, senza il consenso datoriale, la cessione ex art. 1260 c.c. del credito del lavoratore a favore del sindacato a fini di contribuzione associativa, mentre le n. 3917 e 14032/2004  avevano raggiunto conclusioni opposte, con la conseguenza che il rifiuto datoriale di effettuare la trattenuta sulla retribuzione concretizzava, anche senza l’accordo datoriale, comportamento antisindacale. Sulla stessa falsariga la prevalente giurisprudenza di merito (per tutte vedasi Trib. Milano 3 febbraio 2004) secondo la quale: ««E’ legittima – e costituisce condotta antisindacale il diniego datoriale al riguardo – la richiesta del lavoratore di cedere con delega (contenente in fattispecie anche facoltà di revoca) al proprio sindacato una quota di retribuzione a titolo di contributo sindacale di affiliazione. Osserva infatti il giudicante a fronte delle eccezioni datoriali: perché non dovrebbe essere consentito al sindacato, ente portatore di valori ritenuti dal Costituente e dal legislatore meritevoli di speciale tutela, di ottenere ciò che una qualunque società finanziaria automaticamente ottiene? E perché il cittadino lavoratore potrebbe cedere parte del suo salario a tutti ma non ad una organizzazione sindacale, subendo così una riduzione dei suoi diritti civili senza ben pregnanti ragioni e anzi venendo limitato proprio nell'esercizio del suo diritto di sostenere nel modo ritenuto più opportuno il sindacato di sua fiducia soltanto perché lo stesso non ha stipulato contratti collettivi? Quest'ultima condizione discriminante, se può giustificare un trattamento preferenziale dei sindacati stipulanti sul piano dei diritti strettamente sindacali, in nessun modo può rilevare nel rapporto lavoratore-sindacato da un lato e nello status del cittadino lavoratore dall'altro, entrambi regolati dalle norme del diritto civile».

Le sezioni unite, nella recentissima sentenza n. 28269 (rel. Picone) del 21 dicembre 2005 hanno  confermato la validità di queste conclusioni, attraverso la seguente massima da noi redatta, che così dispone: « L’abrogazione referendaria dell'art. 26, commi 2 e 3, Statuto dei lavoratori, non ha certo determinato un "vuoto" nella regolamentazione della materia, ma - come precisato dalla Corte costituzionale in relazione all'intento dei promotori (sentenza 13/1995)- ha "restituito" all'autonomia contrattuale la materia già disciplinata dalla legge in termini di prestazione imposta al datore di lavoro, cosicché resta ammissibile, senza limitazioni, il ricorso a tutti i possibili strumenti negoziali che consentono di realizzare lo scopo di versare ai sindacati la quota associativa mediante ritenuta sulla retribuzione, altrimenti si attribuirebbero all'istituto del referendum non i soli effetti abrogativi che gli sono propri, ma anche effetti propositivi. E’ del tutto errato, pertanto, ritenere – come ha fatto la difesa dell’azienda - che l'esito referendario abbia introdotto nell'ordinamento il principio inderogabile del divieto di realizzare il risultato di imporre al datore di lavoro, senza il suo consenso, di versare al sindacato quote della retribuzione. Si è già detto come sia del tutto arbitrario desumere un tale principio dall'effetto abrogativo del referendum, limitato alla soppressione di un obbligo ex lege, senza interferire minimamente sull'apparato degli strumenti negoziali a disposizione di tutti i soggetti dell'ordinamento. Scomparso l'obbligo legale, tutti gli strumenti negoziali possono essere impiegati per realizzare risultati, non certo identici o analoghi, ma, al più, equivalenti. E ciò stabilito, l'inadempimento del datore di lavoro che incide sull'attività sindacale in senso proprio concreta in tutti i casi condotta antisindacale, senza che possa in alcun modo rilevare la fonte dell'obbligo medesimo. Va aggiunto che il referendum ha lasciato in vigore il primo comma dell'art. 26 Statuto dei lavoratori, che protegge i diritti individuali dei lavoratori concernenti l'attività sindacale per quanto attiene, in particolare, alla raccolta dei contributi: stipulare con il sindacato i contratti di cessione di quote della retribuzione costituisce una modalità di esercizio dei detti diritti; il rifiuto del datore di lavoro di darvi corso, lungi dal concretare un mero illecito civilistico, opera una compressione dei diritti individuali e di quelli del sindacato. Ne consegue che il rifiuto ingiustificato del datore di lavoro di eseguire i pagamenti configura un inadempimento che, oltre a rilevare sotto il profilo civilistico, costituisce anche condotta antisindacale, in quanto oggettivamente idonea a limitare l'esercizio dell'attività e dell'iniziativa sindacale. L'effetto del rifiuto è quello di privare i sindacati che non hanno stipulato i contratti collettivi della possibilità di percepire con regolarità la fonte primaria di sostentamento per lo svolgimento della loro attività e di porli in una situazione di debolezza, non solo nei confronti del datore di lavoro, ma anche delle altre organizzazione sindacali con cui sono in concorrenza».

Non possiamo che salutare con soddisfazione la conferma dell’orientamento prevalente, giacché anche noi – in diverse sedi – avevamo sostenuto la legittimità di esercizio del diritto di cui al vecchio 1° comma dell’art. 26 Stat. lav. (nel testo emendato dal referendum abrogativo del ‘95), secondo il quale sussiste in capo ai lavoratori il diritto di “raccogliere contributi” per le loro OO.SS. e quello correlato di effettuare versamenti al sindacato da essi prescelto secondo le proprie, libere, convinzioni ideologico-sociali – quantunque senza la cooperazione obbligata datoriale introdotta negli anni ’70 dagli abrogati commi 2 e 3 dell’art. 26 Stat. lav. - a precindere se sia firmatario o meno dei contratti di lavoro applicati dall’azienda, che è invece requisito selettivo per il diverso diritto di costituzione delle RSA, ex art. 19 Stat. lav.

Conviene, per riepilogo e per favorire la comprensione della tematica al lettore, entrare più approfonditamente nel merito  della questione e tracciare anche un excursus storico della problematica che ha trovato, per il tramite delle sezioni unite, la sua conclusione.

 

2. Il nuovo art. 26 dello Statuto dei lavoratori dopo il referendum del 1995

Dopo l’approvazione del referendum dell’11 giugno 1995 (e la correlativa emanazione del DPR 28 luglio 1995 n. 313) - con il quale vennero tolti dal corpo dell’art. 26 dello Statuto dei lavoratori, due commi che prevedevano l’obbligo legale del datore di lavoro di effettuare il servizio di raccolta e versamento dei contributi sindacali dietro semplice delega (o disposizione al datore di lavoro da parte del lavoratore) di trattenerli dal credito di lavoro maturato in busta paga -  è emerso un singolare contenzioso tra aziende e sindacati.

Si tratta normalmente di Sindacati autonomi non direttamente firmatari di ccnl, o di sigle aggressive fino al punto di  ricusare la firma di contratti di lavoro non condivisi, impossibilitate per ciò stesso ad avvalersi – per il finanziamento tramite contribuzione dei lavoratori – delle clausole contrattuali pattuite nella parte obbligatoria del ccnl, tramite cui i datori di lavoro si sono nuovamente accollati “per via contrattuale” (ma chiaramente a favore dei soli sindacati firmatari dei ccnl) l’abrogato onere “legale generalizzato” della trattenuta sulla busta paga dei contributi al Sindacato su delega del lavoratore.

Prima di entrare nel merito, conviene delineare l’assetto normativo vigente, quale scaturito a seguito dell’esito referendario del 1995, sulla materia dei contributi sindacali.

In conseguenza della predetta abrogazione l’attuale art. 26 dispone: che: “I lavoratori hanno diritto di raccogliere contributi e di svolgere opera di proselitismo per le loro organizzazioni sindacali all’interno dei luoghi di lavoro, senza pregiudizio del normale svolgimento dell’attività aziendale”. Sono state abrogate, pertanto le precedenti disposizioni che addizionavano alla previsione sopra riportata quelle che prevedevano che: “Le associazioni sindacali dei lavoratori hanno diritto di percepire, tramite ritenuta sul salario, i contributi sindacali che i lavoratori intendono loro versare, con modalità stabilite dai contratti di lavoro, che garantiscano la segretezza del versamento effettuato dal lavoratore a ciascuna associazione sindacale” (2° co.).

“Nelle aziende nelle quali il rapporto di lavoro non è regolato da contratti collettivi, il lavoratore ha diritto di chiedere il versamento del contributo sindacale all’associazione sindacale da lui indicata” (3° co.)”.

In buona sostanza, in omaggio ad un (prevalso) atteggiamento ostile verso l’istituzione sindacale, con il referendum del ‘95 è stato soppresso l’obbligo per il datore di lavoro di effettuare quel “sevizio gratuito”- sempre mal sopportato dall’opinione borghese e “bottegaia”, in quanto imposto ad una parte del rapporto di lavoro (l’azienda) a favore della “controparte antagonista” (il sindacato) – consistente nella raccolta ed nel versamento delle contribuzioni necessarie per la vita e la continuità dell’organizzazione. Contraddittoriamente (e discriminatoriamente, a nostro avviso)  si consentivano e si consentono, pacificamente,  senza reazioni di sorta - in assenza di una norma  di legge speciale e sulla base delle norme di diritto comune in tema di “cessione di credito” (art. 1260 e ss. c.c.) - le ritenute ed i versamenti alle varie finanziarie operanti sul mercato, con le quali i lavoratori hanno contratto finanziamenti  e mutui ed alle quali hanno ceduto (parzialmente) il proprio credito sulla retribuzione (e sul t.f.r.) dovutagli dal datore di lavoro in conseguenza della prestazione contrattualmente pattuita.

Il metodo dei “due pesi e due misure” nell’effettuazione del servizio di esazione – improntato ad  indisponibilità nel caso si tratti dell’avversario sindacale e, all’opposto,  a tolleranza o condiscendenza nel caso dell’operatore finanziario/commerciale - è altresì illuminante in ordine alla genesi ed alla funzione dell’art. 26 Stat. lav.

Si vuole cioè dire che - come evidenzia la notazione soprariferita -  anche in mancanza di una norma speciale in ordine all’obbligo di esazione a favore del creditore cessionario (il sindacato), esistevano per il creditore cedente (lavoratore) istituti di diritto comune – come la cessione di credito ex art. 1260 e ss. c.c. – idonei a realizzare in capo al datore di lavoro (debitore ceduto) l’obbligo del servizio di esazione, senza  che questi si potesse opporre o potesse  pretendere di  manifestare il suo consenso all’operazione in questione, disponendo l’art. 1260 c.c. che : «il creditore può trasferire a titolo oneroso o gratuito il suo credito, anche senza il consenso del debitore, purché il credito non abbia carattere strettamente personale o il trasferimento non sia vietato dalla legge».

 

3. La genesi statutaria dell’obbligo datoriale di esazione dei contributi sindacali

Ci si chiede e ci si è chiesti – anche nel corso delle vertenze giudiziarie – perché allora il legislatore statutario abbia sentito l’esigenza di imporre al datore di lavoro l’obbligo di provvedere all’esazione dei contributi a favore dell’organizzazione sindacale, quando un simile risultato poteva essere egualmente conseguito secondo le norme di diritto comune.

La regione è eminentemente di “politica del diritto”.

Con lo Statuto dei lavoratori, il legislatore si  ripromise di dotare il sindacato di una serie di diritti implicanti un dovere di cooperazione datoriale. E’ questa cooperazione che il legislatore statutario ha inteso “forzare” ed affermare come dovuta dal datore di lavoro (c.d. obbligo di “pati”): così è avvenuto per l’ipotesi di approntamento di “appositi spazi” (o bacheche) per l’esercizio del diritto di affissione, ex art. 25 s.d.l., per i locali delle RSA., ex art. 27 s.d.l., per il locale di svolgimento delle assemblee, ex art. 20 s.d.l., cui ha addizionato, per similitudine di materia e per vincere l’indisponibilità psicologica datoriale a collaborare al finanziamento dell’antagonista sindacale, l’obbligo dell’esazione dei contributi, sulla base del principio secondo cui “quod abundat non deficit”. Fatta salva l’esigenza (mai realizzata nei fatti) di favorire, per via contrattuale, sistemi di salvaguardia della segretezza dei soggetti effettuanti il versamento  al sindacato, cioè a dire degli iscritti, la disposizione statutaria aveva un significato eminentemente “emblematico o di affermazione di principio” e si inquadrava nell’ottica della mera completezza del disegno legislativo in ordine alla garanzia dei diritti di sostegno delle OO.SS., piuttosto che essere finalizzata ad un obiettivo altrimenti non conseguibile.

Come osservò a suo tempo una decisione pretorile (1): «con la promulgazione dello Statuto dei Lavoratori il legislatore ha voluto evidentemente realizzare un ‘catalogo’ dei diritti sia dei singoli lavoratori, sia delle organizzazioni sindacali, disegnando un quadro unitario…; in quest’ottica la previsione espressa di un diritto del sindacato ad ottenere il versamento dei contributi a mezzo di ritenuta sul salario, ben si spiega con la volontà del legislatore di dare ampio riconoscimento agli interessi superindividuali e collettivi dei lavoratori, ma non può evidentemente significare che lo stesso risultato pratico – del sostentamento sindacale a mezzo di ritenute sullo stipendio dei lavoratori/iscritti – non potesse essere raggiunto ricorrendo ai normali principi civilistici, operanti anche al di fuori del settore lavoristico (come avvenuto nella specie, con il ricorso allo schema negoziale della cessione del credito). Del resto una previsione espressa, come quella contenuta nei commi 2 e 3 dell’art. 26 st. lav., oltre al valore ‘simbolico’ di cui si è detto, portava con sé anche effetti giuridici specifici, che ne attestavano la peculiarità rispetto alle generali previsioni civilistiche: si pensi alla necessità di assicurare la segretezza del versamento, che è profilo estraneo alle figure civilistiche della cessione del credito o della delegazione di pagamento, attraverso le quali lo stesso risultato della contribuzione al sindacato può essere raggiunto».

 

4. La situazione post-referendaria

Con il venir meno dell’obbligo legale di esazione dei contributi per ritenuta sulla retribuzione, è stato detto  - piuttosto superficialmente – che l’obbligazione poteva essere reintrodotta solo per via contrattuale,  cioè dietro pattuizione collettiva o individuale.

Di fatto invece si è assistito:

a) ad una riaffermazione dell’obbligazione esattiva datoriale per via negoziale, normalmente ad opera delle OO.SS. stipulanti i Ccnl, sia tramite pattuizione nuova (è il caso delle OO.SS. del personale direttivo del credito il cui previgente Ccnl non prevedeva l’obbligo esattivo datoriale) sia in virtù di pattuizione preesistente, già contemplante il diritto del lavoratore al versamento del contributo al sindacato prescelto (è il caso più ricorrente);

b) alla soluzione unilaterale, e non già pattizia, del ricorso al negozio della “cessione del credito”, attraverso cui i lavoratori (prevalentemente iscritti a sindacati non firmatari dei Ccnl applicati nell’unità produttiva) hanno notificato all’azienda, ai fini e per gli effetti della trattenuta e del relativo versamento al sindacato, una delega d’iscrizione al sindacato che, contemporaneamente, li impegnava – per espressa menzione dell’istituto della “cessione di credito” ex art. 1260 e ss. c.c. - al versamento nei confronti dell’organizzazione di una quota mensile, a titolo di contributo associativo, per la durata di un anno (o più anni), salvo revoca da notificarsi in tempo utile.

 

5. Le  antecedenti sentenze n. 1968,  3917, 10616 e 14032  del  2004 della Cassazione

La prima delle decisioni  sopra citate, espressamente la n. 1968 (rel. Balletti ) - unitamente alla terza n. 10616 – giunse a dichiarare la inidoneità della “cessione di credito” per ottenere dal datore di lavoro la trattenuta sulla retribuzione da devolvere al sindacato (non firmatario di ccnl) -  fondando le sue argomentazioni sui seguenti presupposti:

a) prima dell'abrogazione del secondo e del terzo comma dell'art. 26 l'obbligo ex lege per il datore di lavoro di effettuare le trattenute sindacali veniva inquadrato nell'istituto della "delegazione di pagamento" o quale conseguenza di un atto unilaterale del lavoratore non inquadrabile in un negozio "nominato";

b) la Corte Costituzionale - nel dichiarare ammissibile il referendum abrogativo - ha statuito che con il referendum veniva eliminata la ragione fondativa legale (ex lege) del diritto alla riscossione dei contributi sindacali mediante trattenute sulla retribuzione e la materia era così "restituita" alla base contrattuale individuale e collettiva (ex contractu) - cioè veniva sancito il passaggio dalla "fonte legale" alla "fonte contrattuale";

c) con esclusivo riferimento alla contrattazione collettiva che post-referendum ha regolamentato la materia, la Cassazione  ha ritenuto che la cennata regolamentazione non potesse applicarsi nei confronti dei lavoratori aderenti ad associazioni sindacali non firmatarie del contratto collettivo: per cui dalla relativa contrattazione collettiva non poteva scaturire un obbligo a carico del datore di lavoro di effettuare le trattenute sulla retribuzione di detti lavoratori a titolo di contributi sindacali a favore dei sindacati non firmatari;

d) con il supplire alla mancanza di un accordo contrattuale, ricorrendo allo “sforzato” riferimento ad una norma di legge (art. 1260 c.c.) che imporrebbe comunque l'obbligo per il datore di lavoro di una trattenuta del contributo sindacale senza il consenso della parte debitrice dell'obbligazione retributiva, il diritto del lavoratore (o, più pragmaticamente, del sindacato) verrebbe nuovamente fatto scaturire ex lege e, conseguentemente, non in conformità all'intendimento referendario così come inteso dalla Consulta; per cui, se si aderisse a tale conclusione, si verificherebbe che - mediante il contratto collettivo - il datore di lavoro sarebbe obbligato ad effettuare la trattenuta secondo le modalità pattuite (si ritiene in maniera meno onerosa per la riscossione) contrattualmente, mentre - "al di fuori del contratto collettivo" pure disciplinante la materia ed applicabile aziendalmente - sarebbe obbligato "nolente" a subire l'unilaterale determinazione del "lavoratore-sindacato non firmatario".

In questo caso sembra evidente un'indebita interferenza nelle relazioni sindacali in quanto il risultato della contrattazione collettiva verrebbe "scavalcato" dalla determinazione unilaterale del lavoratore non aderente ai sindacati firmatari.

A chi scrive le argomentazioni non sono mai apparse convincenti [o meglio apparvero più convincenti quella opposte di Cass. n. 3917 del 24 febbraio 2004 (rel. Filadoro) e Cass. n. 14032 del 26 luglio 2004], in quanto non si vide la necessità – una volta condivisa la genesi della codificazione dell’onere esattivo nell’art. 26 dello Statuto dei lavoratori – per cui i sindacati dovessero assoggettarsi alla stipulazione di un contratto collettivo nazionale per fruire del diritto all’autofinanziamento, talché si darebbe vita alla configurazione del ccnl come una specie di “forca caudina” cui sottomettersi per fruire di un requisito di sussistenza vitale per la libertà sindacale, quale la contribuzione dagli iscritti. In secondo luogo anche la ricostruzione della posizione della Corte costituzionale – individuata nella volontà di eliminare l’obbligo di fonte legale preesistente nell’art. 26 l. n. 300 per restituirlo all’autonomia individuale e collettiva – non ci apparve del tutto convincente, giacché la Corte non poteva  assolutamente affermare o ipotizzare che il referendum avesse l’intenzione (irrealistica) di eliminare qualsiasi fonte “legale” (riposante nel diritto positivo civilistico) idonea a realizzare lo stesso (o equipollente) risultato senza il consenso dell’azienda, quale la cessione di credito.

Ad ogni buon conto i sostenitori della tesi sopra riferita e portata avanti – con nostro dissenso – da Cass. n. 1968/2004, obiettavano addizionalmente che l’istituto della “cessione di credito” doveva implicare l’indifferenza dei costi cioè a dire l’assenza di oneri per il debitore ceduto (il datore di lavoro) mentre invece l’azienda se niente sopporta per la trattenuta retributiva sul salario del lavoratore sostiene, invece,  dei costi per il bonifico bancario a favore del Sindacato. A tale obiezione  si è risposto, in sede giurisprudenziale, con la considerazione che in materia era richiamabile il  generale principio in tema di obbligazioni che prevede che «le spese del pagamento sono a carico del debitore » (art. 1196 c.c.)  e, che, comunque, tale «onerosità non appariva certamente eccessiva e debordante rispetto al normale obbligo di collaborazione e salvaguardia nella esecuzione del contratto fissato dalla legge ove si consideri che per lunghi anni questi oneri sono stati assunti per espressa previsione normativa»(2).

In terzo luogo la decisione n. 1968/2004 fece  leva sulla riconosciuta, prevalente qualificazione dell’obbligo datoriale di esazione, individuato nella delegazione di pagamento, revocabile ed implicante il consenso datoriale, notazione indubitabilmente più corretta ma non preclusiva di altri e differenti strumenti giuridici quali la “cessione di credito” ex art. 1260 c.c. Con specifico riferimento a questa configurazione, si è, in dottrina, fatto leva sulla mancanza – nell’istituto bilaterale  della cessione del credito – della revocabilità per atto unilaterale del lavoratore, che invece sarebbe consentita, dall’art. 1269, 2° co. c.c.,  nello schema unilaterale della“delegazione di pagamento” (ragion per cui la dottrina che inquadrò l’obbligo imposto dallo Statuto sul datore di lavoro, preferì ricondurlo alla delegatio solvendi, di cui all’art. 1268 e ss. c.c., piuttosto che alla cessione di credito). E’ questa l’unica obiezione di seria consistenza che  poteva indurre a dubitare che  una pattuizione contrattuale in cui sia prevista la “revocabilità unilaterale” possa  prefigurare lo schema della “cessione di credito” in luogo della “delegazione di pagamento”. Sul piano pratico, affinché il lavoratore non rischi di restare iscritto a tempo indeterminato all’associazione sindacale prescelta inizialmente (e a cui ha ceduto il credito retributivo per un importo pari alla quota sindacale), dovrà pre-acquisire dal Sindacato il consenso alla revoca in qualsiasi momento, il ché potrà avvenire qualora nella delega (predisposta dal sindacato) venga inserita una formula con cui il creditore cessionario (appunto il Sindacato) “dà sin d’ora atto del proprio consenso alla revoca, in qualsiasi momento, del credito parziale  da parte del cedente” (il lavoratore), “con tutti i conseguenti effetti estintivi nei confronti del debitore ceduto” (il datore di lavoro). Revoca che (come nota Cass. n. 3917/2004) era appunto reperibile nelle deleghe predisposte dai due sindacati non firmatari nelle vicende approdate in Cassazione ed in quella che ha occasionato Trib. Milano 3 febbraio 2004, rispettivamente  Slai-Cobas, Sincobas e Savip.

Non è nostra intenzione realizzare la “quadratura del cerchio” intorno all’istituto della “cessione di credito” applicato all’esazione dei  contributi sindacali. Indubbiamente qualche “sfrido” tra  l’attuale configurazione contrattuale  (o fattuale) delle “deleghe” per la trattenuta ed il versamento dei contributi  con lo schema legale codicistico  è innegabile che ci sia, tuttavia i “nei” riscontrati, o enfaticamente evidenziati dagli oppositori, non ci sono mai sembrati  di tale consistenza  giuridica da essere ostativi all’utilizzo dell’istituto legale, nella materia de qua.

Ci sembrò, invero, di cogliere nei detrattori un accanimento sostenuto da un’ideologia contraria al diritto alla vita ed all’operatività delle organizzazioni sindacali, nelle multiformi varietà consentite dal pluralismo costituzionale, che non consente di fare  distinzioni –  perlomeno in ordine al diritto del cittadino/lavoratore di sostenere il sindacato prescelto come più confacente alle sue inclinazioni – tra sindacati “firmatari” di Ccnl e sindacati “non firmatari”, rilevando il dato dell’effettività della forza sul campo, nel nuovo testo dell’art. 19 s.d.l., solo ai fini della legittimazione  a radicarsi in azienda, tramite la costituzione di RSA. (talora surrogabile, giustappunto per effetto del nuovo testo dell’art. 19 S.d.l., dalla disponibilità datoriale ad un accreditamento, con il  consentire al sindacato meno antagonista e conflittuale e quindi  tutore meno genuino degli interessi dei rappresentati, la sottoscrizione dei Ccnl o dei contratti applicati in azienda).

A questo riguardo e contro questo rischio di inquinamento della neutralità delle relazioni sindacali ci apparvero del tutto pertinenti le realistiche  considerazioni di Cass. n. 14032 del 2004 secondo cui: « Nel caso in esame invero, il rifiuto del datore, oltre a configurare inadempimento rispetto al contratto di cessione di credito stipulato dal lavoratore, si pone come obiettivamente idoneo a limitare l'attività sindacale, perchè se non impedisce al lavoratore di scegliere l'associazione sindacale di appartenenza, gli impedisce però di sostenerla con una forma di finanziamento adeguato, non essendovi dubbio che il meccanismo di raccolta dei contributi di cui al primo comma dell'art. 26 della legge 300/70, che ovviamente è sempre possibile e consentito, costituisce però una modalità molto meno sicura e puntuale, con obiettivo danno della associazione da sostenere. Inoltre, come già rilevato, si farebbe dipendere l'ammissibilità del meccanismo medesimo esclusivamente dalla determinazione unilaterale del datore, che potrebbe scegliere di prestarsi solo per alcuni sindacati (anche se non firmatari della contrattazione collettiva) e per altri no, intervenendo così proprio nel contesto di obiettiva e fisiologica contrapposizione di interessi, ove appare indebita ogni interferenza datoriale. D'altra parte gli stessi promotori del referendum abrogativo dei due commi dell'art. 26 della legge 300/70, che pure volevano sottrarre alla prerogativa sindacale il fondamento legale, intendevano però far sì che l'obbligo datoriale scaturisse da una "genuina espressione di autonomia negoziale", la quale, diversamente opinando, verrebbe nella sostanza ad essere sacrificata».

Conclusivamente abbiamo sempre ritenuto preferibili le conclusioni raggiunte dalle opposte Cass. n. 3197 e n. 14032 del 2004, le cui argomentazioni sostanziali possono essere desunte – oltre a quanto detto in precedenza - dalla seguente massima da noi elaborata: «L'effetto del referendum abrogativo dell'art. 26 dello Statuto e del conseguente D.P.R. è stato di eliminare dall'ordinamento il secondo comma di tale articolo; sicché è venuto meno l'obbligo per il datore di lavoro di operare, su richiesta del dipendente, la trattenuta sindacale in favore dell'organizzazione di appartenenza.

In tal modo, tuttavia, non si è affatto  posto un divieto e resa illecita la riscossione di quote associative sindacali a mezzo di trattenuta operata dal datore di lavoro.

Molto più semplicemente, deve ritenersi che per effetto del referendum abrogativo e del successivo D.P.R. 313 del 28 luglio 1995, la materia è stata restituita all'autonomia privata, individuale e collettiva (Corte Cost. n. 13 del 12 gennaio 1995). Come ha rilevato il giudice delle leggi, l'intento dei promotori del referendum era quello di "restituire la materia all'autonomia privata, facendo venir meno l'obbligo legale di cooperazione gravante sul datore di lavoro. Tale obbligo giuridico, scaturente dalle abrogande disposizioni, avrebbe in concreto determinato un vincolo contributivo a tempo indeterminato a carico del lavoratore, indipendentemente dalla permanenza del vincolo associativo".

In altre parole, l'obiettivo del referendum non era quello di evitare che attraverso altri strumenti riconducibili all'autonomia negoziale privata o a quella collettiva, il datore di lavoro fosse tenuto ad accreditare i contributi in favore delle associazioni sindacali.

Tanto è vero che gli stessi promotori menzionavano, tra gli istituti utilizzabili "ai medesimi fini", proprio la cessione di credito, accanto alla delegazione di pagamento, dimostrando così di non ritenere contrario allo spirito della consultazione popolare un meccanismo di accredito dei contributi realizzato, sul piano dell'autonomia negoziale, anche a prescindere dalla volontà del datore di lavoro.

Né può dirsi, come sembra affermare la ricorrente, che, in tal modo, siano posti a carico della società datrice di lavoro oneri non previsti e comunque insostenibili.

Nel bilanciamento dei diversi interessi non è affatto illogico che prevalga quello del sindacato alla raccolta dei contributi ed al versamento diretto degli stessi.

Tra l'altro, gli oneri del pagamento non potranno - intuitivamente - essere superiori a quelli previsti per l'accredito delle quote associative ai sindacati firmatari del contratto collettivo nazionale di lavoro, rispetto ai quali la società ha già contrattualmente assunto il relativo compito organizzativo.

In precedenti occasioni, questa Corte ha avuto occasione di sottolineare come il rifiuto dell'azienda di effettuare le trattenute sindacali - laddove i lavoratori abbiano rilasciato autorizzazione al datore di lavoro di trattenere sulle retribuzioni i contributi sindacali e di versarli ad associazioni sindacali non firmatarie di contratti collettivi applicati in azienda - concreti un comportamento che lede non solo i diritti del singolo lavoratore ma anche quelli del sindacato destinatario dei contributi e perciò costituisce un ostacolo all'esercizio ed allo sviluppo dell'attività, configurando così una ipotesi di condotta antisindacale (Cass. 16 marzo 2001, n. 3813; 5 febbraio 2000, n. 1312; 9 settembre 1991, n. 9470) e, pertanto,  a tale giurisprudenza si ritiene di aderire».

E le sezioni unite, con la recentissima n. 28269 del 21 dicembre 2005 (rel. Picone) hanno manifestato la loro preferenza verso tale orientamento, precludendo potenzialmente per il futuro – in ragione della funzione nomofilattica che è loro propria – il verificarsi di scostamenti incontrollati o di orientamenti difformi (quantunque sempre possibili) all’interno della S. corte.

Va infine segnalato che a seguito dell’estensione – per effetto dall'art. 1, comma 137, della l. 311/2004, mediante l'aggiunta, nel primo comma, delle parole «nonché le aziende private»,  come modificato dall'art. 13-bis del d.l. 35/2005, convertito in l. 80/2005 - ai dipendenti delle aziende private del divieto di cedibilità (pignorabilità e sequestrabilità delle retribuzioni) originariamente riguardante solo i pubblici dipendenti ex art. 1 d.P.R. 180/1950, il precedente regime di illimitata cedibilità dei salari e degli stipendi dei lavoratori privati ex art. 1260 c.c. è stato, dal 1 gennaio 2005, ricondotto entro l’ambito del quinto e per un periodo non superiore ai 10 anni.

NOTE

1) Pret. Cassino 8 febbraio 1996 (decr.) in MGL 1996, 63, con annotazione di Rendina, Riflessioni in tema di contributi sindacali e cessione del credito.

2)  Pret. Cosenza 20 dicembre 1997, in LPO 1998, p. 1875.

 

Roma, 24 gennaio 2006

****
 
all. te sentenze
Corte di Cassazione, Sez. lav., sentenza 3 febbraio 2004, n. 1968 (ud. 17 giugno 2003) - Pres. Prestipino - Rel. Balletti – Iveco Spa (avv. Bonamico, Borsotti, De Luca Tamajo) c. S.L.A.I.-Cobas di Torino (avv. La Macchia, D’Amati)
 
Svolgimento del processo - Con ricorso ex art. 28 della legge n. 300/1970 lo SLAI-COBAS conveniva in giudizio la s.p.a. IVECO dinanzi al Giudice del lavoro di Torino chiedendo allo stesso di sanzionare l'antisindacalità del comportamento della società consistito nell'avere omesso di operare le trattenute delle quote associative a favore del ricorrente sindacato dovute per effetto dell'avvenuta notifica alla società datrice di lavoro di distinti atti individuali di asserita cessione di credito retributivo.
Nel relativo giudizio si costituiva la s.p.a. IVECO che impugnava integralmente l'avverso ricorso e ne chiedeva il rigetto.
L'adito Giudice del lavoro, con decreto ex art. 28 cit., dichiarava l'antisindacalità del comportamento della convenuta società, ordinava alla stessa l'immediata cessazione di tale comportamento e la rimozione degli effetti - e, cioè, di effettuare i pagamenti mensili in favore del ricorrente sindacato in relazione alle cessioni di credito delle quali aveva ricevuto comunicazione da parte dei suoi dipendenti ex artt. 1260 e segg. c.c. -, ordinava l'affissione del dispositivo nelle bacheche esistenti presso l'azienda per la durata di giorni venti, condannava la società al pagamento delle spese processuali.
Avverso tale decisione proponeva opposizione la s.p.a. IVECO e - ricostituitosi il contraddittorio - il Giudice del lavoro revocava l'opposto decreto, rigettando le domande proposte dal sindacato con l'originario ricorso, ma - su impugnativa della parte soccombente - la Corte di Appello di Torino, in accoglimento dell'appello, confermava il decreto ex art. 28 della legge n. 300/1970 e condannava la società appellata al pagamento delle spese dei due gradi di giudizio.
Per quello che rileva in questa sede il Giudice di appello ha rimarcato che: a) "l'art. 26, secondo comma, della legge n. 300/1970 attribuiva alle associazioni sindacali (a tutte, a prescindere da particolari requisiti di rappresentatività, come invece, per l'art. 19) il diritto di riscuotere i contributi sindacali tramite ritenuta sul salario; la norma poneva, quindi, un obbligo di collaborazione a carico del datore di lavoro che doveva prestarsi ad effettuare la trattenuta ed il versamento al sindacato; l'effetto del referendum abrogativo e del conseguente D.P.R. è stato di eliminare dall'ordinamento tale norma (e, quindi, di eliminare il diritto del sindacato e l'obbligo del datore di lavoro da tale norma nascente) ma non di porre un divieto e rendere quindi illecita la condotta di riscossione delle quote associative sindacali a mezzo trattenuta operata dal datore di lavoro"; b) "ciò è di assoluta evidenza se si considera che, pur dopo il referendum, sono rimaste valide le pattuizioni contrattuali - quali l'art. 6 "disciplina generale, sezione seconda" del c.c.n.l. del settore metalmeccanico - che prevedevano l'effettuazione delle trattenute e, sostituita la fonte contrattuale a quella legale, il diritto alla riscossione tramite trattenuta è rimasto in vita per i sindacati che di tali norme potevano avvalersi (non lo SLAI-COBAS che non è firmatario del c.c.n.l. metalmeccanici)"; c) "ulteriore conseguenza è che la cessione di credito posta in essere dai lavoratori a favore del sindacato non integra la fattispecie di nullità del contratto per illiceità della causa di cui all'art. 1344 c.c.: non può infatti dirsi che il contratto sia il mezzo per eludere l'applicazione di una norma imperativa poiché, come sopra visto, una norma imperativa che vieti al sindacato di ottenere il pagamento delle quote associative mediante trattenuta sulla retribuzione ad opera del datore di lavoro non esiste, né è sorta come effetto del referendum"; d) "l'attività posta in essere dallo SLAI-COBAS facendo ricorso all'istituto della cessione di credito è manifestamente finalizzata ad uno scopo tipico del sindacato e necessario alla sua stessa esistenza, e cioè al suo finanziamento (né rileva che a tale scopo il sindacato potrebbe provvedere anche altrimenti), il rifiuto di dar attuazione ad una legittima cessione di credito chiaramente finalizzata al finanziamento del sindacato significa porre un ostacolo alla libertà sindacale"; e) "non costituisce una valida ragione di opposizione l'invocare asseriti oneri aggiuntivi: la cessione di credito è istituto che non richiede l'assenso del debitore ceduto e gli oneri del pagamento sono a carico del debitore ex art. 1196 c.c.; comunque tali oneri sono assai modesti, posto che già esiste certamente una procedura per l'accredito delle quote associative ai sindacati firmatari del c.c.n.l."; f) "la giurisprudenza ritiene sanzionabile il comportamento oggettivamente antisindacale (Cass. Sez., unite 12 giugno 1997, n. 5295)"; g) "nel caso in esame l'inconsistenza delle ragioni addotte per non dar corso alle cessioni dimostra la positiva esistenza di un intento antisindacale, cioè la volontà di ostacolare il sindacato SLAI-COBAS”.
Per la cassazione di tale sentenza la s.p.a. IVECO propone ricorso affidato a tre motivi e sostenuto da memoria ex art. 378 c.pc.
L'intimato SLAI-COBAS resiste con controricorso.
 
Motivi della decisione – I. Con il primo motivo di ricorso la società ricorrente denunciando "violazione del D.P.R. n. 313/1995 e vizi di motivazione" rileva che "la sentenza impugnata appare viziata sia sotto il profilo della violazione di legge, in quanto di fatto reintroduce quell'obbligo legale che il legislatore referendario aveva voluto invece escludere, sia sotto il profilo della retta ed ineccepibile motivazione, non essendo convincente l'affermazione secondo cui l'effetto del referendum sarebbe unicamente quello di impedire la proposizione di un obbligo "legale" del datore di lavoro, ma non già di una diversa tecnica tesa a raggiungere il medesimo risultato".
Con il secondo motivo la ricorrente - denunciando "violazione degli artt. 1260 e segg. c.c. e vizi di motivazione" - censura la decisione della Corte di Appello di Torino per non avere considerato "che lo schema negoziale effettivamente utilizzato nella specie è quello della delegazione di pagamento, istituto in cui si inquadra la ritenuta sindacale ex c.c.n.l. (e prima ex art. 26 "statuto") in quanto revocabile in ogni momento, per cui il lavoratore, qualora muti opinione in materia sindacale, può eliminare la ritenuta o mutarne il sindacato destinatario in ogni momento, con efficacia dal primo periodo di paga successivo, mentre la stessa revoca immediata non è possibile qualora si adotti lo schema della cessione di credito, senza il consenso del sindacato beneficiario".
Con il terzo motivo di ricorso la società - denunciando "violazione dell'art. 28 della legge n. 300/1970 e vizi di motivazione" - addebita alla sentenza impugnata di essere "largamente immotivata circa il carattere antisindacale del comportamento del datore di lavoro, non potendosi ritenere, in realtà, che la semplice violazione di un patto inter alios possa automaticamente determinare una lesione di uno specifico e qualificato interesse del sindacato ... [atteso che] essendo venuta meno la fonte legale del diritto, le aspettative del sindacato in tale materia possono scaturire esclusivamente da una fonte privatistico-contrattuale, come tale idonea a creare obbligazioni unicamente sul piano meramente civilistico, con la conclusione che, in mancanza di una precisa norma legale o collettiva che attribuisca uno specifico diritto al sindacato, non potrà considerarsi antisindacale l'ipotetico inadempimento di un obbligo del datore nei confronti del lavoratore solo perché quest'ultimo ha individuato come terzo beneficiario del negozio giuridico il sindacato".
II. I cennati motivi di ricorso - esaminabili congiuntamente in quanto intrinsecamente connessi - si appalesano fondati.
Al riguardo - al fine di una completa valutazione della questione relativa alla riscossione dei contributi sindacali con riferimento alla normativa ed agli orientamenti giurisprudenziali in materia - occorre precisare che il secondo comma dell'art. 26 della legge n. 300/1970 (come sostituito dall'art. 18 della legge n. 223/1991) attribuiva alle associazioni sindacali "il diritto di percepire, tramite ritenuta sul salario nonché sulle prestazioni erogate per conto degli enti previdenziali, i contributi sindacali che i lavoratori intendono loro versare, con modalità stabilite dai contratti collettivi di lavoro, che garantiscono la segretezza del versamento effettuato dal lavoratore a ciascuna associazione sindacale". Il terzo, comma dello stesso articolo prevedeva poi che, nelle aziende in cui il rapporto di lavoro non fosse stato regolato da contratti collettivi, il lavoratore aveva "diritto di chiedere il versamento del contributo sindacale all'associazione da lui indicata".
A seguito del referendum popolare dell'11 giugno 1995 la cennata norma è stata abrogata (D.P.R. 28 luglio 1995, n. 313), per cui è venuto meno l'obbligo ex lege per il datore di lavoro di operare, sulla base di una mera richiesta del lavoratore dipendente, la trattenuta sulla retribuzione della quota associativa sindacale (cd. contributo sindacale) a favore dell'associazione sindacale di appartenenza.
Peraltro, alla stregua della (quasi totalità della) contrattazione collettiva successivamente intervenuta, le organizzazioni sindacali stipulanti hanno ottenuto dalle associazioni imprenditoriali il riconoscimento del diritto di riscossione dei contributi sindacali tramite trattenuta della retribuzione sostituendo, così, alla "fonte legale" la "fonte contrattuale sindacale" [cfr., per tutti (data la "funzione pilota" riconosciuta generalmente al contratto dei "metalmeccanici"), l'art. 6 della "disciplina generale, sezione seconda" del relativo c.c.n.l.].
In relazione a tali "momenti" normativi la giurisprudenza è intervenuta secondo i seguenti significativi indirizzi:
a/1) nel periodo "pre-referendario" questa Corte (Sez. Lavoro) ha ritenuto che il rapporto cui dava luogo l'applicazione dell'art. 26 della legge n. 300/1970 si configurava come "delegazione di pagamento" e non quale "cessione di credito" in quanto nella specie veniva costituito un rapporto plurisoggettivo con partecipazione di negozio fin dall'origine del delegante, del delegato e del delegatario, negozio nel quale il delegante impartisce al delegato l'ordine di eseguire il pagamento a favore del delegatario (iussum solvendi) ed a quest'ultimo l'ordine di riceverlo (iussum accipiendi); così il rapporto di lavoro (o, meglio, il credito di retribuzione) costituisce la provvista e il rapporto associativo sindacale (o più esattamente contributivo), che si realizza per il tramite del primo, rappresenta invece la valuta [Cass. sez. lav. n. 761/1989 e, in termini sostanzialmente analoghi, ex plurimis Cass. sez. lav. n. 822/1989, Cass. sez. lav. n. 9470/1991, Cass. sez. lav. n. 1312/2000 (quest'ultima intervenuta sempre su fattispecie regolata interamente dalla normativa pre referendaria)];
 
a/2) questa Corte (I Sezione civile), sempre nel periodo di vigenza dell'art. 26, ha precisato che l'atto di disposizione del lavoratore impartito al datore di lavoro di accredito del contributo sindacale "non è qualificabile né come cessione di credito in considerazione della sua unilateralità e revocabilità, né come delegatio solvendi in considerazione del suo carattere vincolante per il datore di lavoro" (così, testualmente, Cass. 1 sez. n. 307/1990, Cass. I sez. n. 308/1990, Cass. sez. 1 n. 778/1990, Cass. I sez. n. 10318/1992: decisioni tutte conformemente pronunziate nel senso che il credito di un'associazione di categoria nei confronti del datore di lavoro, in relazione a contributi sindacali che il dipendente abbia deciso di versare, con ritenuta sul salario, secondo la previsione dell'art. 26 cit. e mediante la delega all'uopo contemplata dai contratti collettivi, non ha attinenza con un credito di lavoro, e non gode quindi del privilegio generale accordato a quest'ultimo dall'art. 2751-bis, n. 1, c.c.);
b) la Corte Costituzionale, nel dichiarare ammissibile l'iniziativa referendaria di abrogazione dell'art. 26 cit., ha precisato che il secondo ed il terzo comma di tale norma erano strettamente collegati fra di loro concorrendo a configurare in ogni caso la "ritenuta" come diritto perfetto del sindacato, per cui l'intendimento abrogativo "consisteva nel voler eliminare la base legale di quel diritto e del correlativo obbligo di intermediazione, per restituire la materia all'autonomia privata, individuale e collettiva" (Corte Cost. n. 13/1995);
c) successivamente all'abrogazione della norma statutaria, questa Corte è intervenuta sulla questione dell'applicabilità della disposizione del contratto collettivo (sanzionante l'obbligo contrattuale della trattenuta del contributo sindacale) nei confronti dei lavoratori non iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti statuendo che: *) la distinzione fra clausole "normative" e "obbligatorie" che possono essere contenute in un contratto collettivo è nel senso che quelle "normative" sono destinate a regolare i contratti e rapporti individuali di lavoro, mentre sono "obbligatorie" quelle che regolano esclusivamente i rapporti tra le associazioni sindacali partecipanti alla stipulazione dei contratti medesimi, con la conseguenza che queste ultime clausole creano obblighi e diritti per le parti stipulanti e non già per i singoli lavoratori; *) nell'interpretazione dell'art. 6 del c.c.n.l. dell'industria metalmeccanica privata (che sanciva l'impegno del datore di lavoro ad effettuare le trattenute dei contributi sindacali sulle retribuzioni dei dipendenti), deve essere verificato con particolare incisività ex art. 1363 c.c. se la cennata clausola contrattuale - in quanto collocata nella "sezione dei diritti sindacali" - rientri nell'ambito della parte "obbligatoria" del contratto (e non, invece, in quella "normativa") e pertanto, essendo accoglibile la prima ipotesi, se la clausola medesima siccome diretta a regolare i rapporti fra le associazioni sindacali stipulanti possa non rivestire efficacia nei confronti dei lavoratori non aderenti alle cennate associazioni [Cass. n. 3813/2001, Cass. n. 6656/2002: decisioni sostanzialmente conformi, ma con l'avvertenza che solo la prima di esse contiene l'obiter (ripreso nella massima secondo cui "qualora i lavoratori abbiano richiesto al datore di lavoro di trattenere sulla retribuzione i contributi sindacali e abbiano rilasciato delega allo stesso per versarli ad associazioni sindacali non firmatarie di contratti collettivi applicati in azienda, il comportamento omissivo del datore di lavoro che rifiuti di effettuare detti versamenti si configura come antisindacale, in quanto pregiudica l'acquisizione da parte del sindacato dei mezzi di finanziamento necessari allo svolgimento dell'attività, e perciò ricade nella tutela inibitoria di cui all'art. 28 Stat. Lav.") che si rifà espressamente alla giurisprudenza della Corte dinanzi citata sub "a/1" e riferita esclusivamente alla normativa pre-referendaria].
III/a. Dall'excursus sullo stato della normativa e della giurisprudenza nella dedotta materia discende che:
A) prima dell'abrogazione del secondo e del terzo comma dell'art. 26 l'obbligo ex lege per il datore di lavoro di effettuare le trattenute sindacali veniva inquadrato nell'istituto della "delegazione di pagamento" o quale conseguenza di un atto unilaterale del lavoratore non inquadrabile in un negozio "nominato";
B) la Corte Costituzionale - nel dichiarare ammissibile il referendum abrogativo - ha statuito che con il referendum veniva eliminata la ragione fondativa legale (ex lege) del diritto alla riscossione dei contributi sindacali mediante trattenute sulla retribuzione e la materia era così "restituita" alla base contrattuale individuale e collettiva (ex contractu) - cioè veniva sancito il passaggio dalla "fonte legale" alla "fonte contrattuale" -;
C) con esclusivo riferimento alla contrattazione collettiva che post-referendum ha regolamentato la materia, questa Corte ha ritenuto che la cennata regolamentazione non potesse applicarsi nei confronti dei lavoratori aderenti ad associazioni sindacali non firmatarie del contratto collettivo: per cui dalla relativa contrattazione collettiva non poteva scaturire un obbligo a carico del datore di lavoro di effettuare le trattenute sulla retribuzione di detti lavoratori a titolo di contributi sindacali a favore dei sindacati non firmatari.
Tanto evidenziato, la questione sollevata dalla società ricorrente attiene alla insussistenza di un obbligo ex se, a suo carico, di effettuare le trattenute di parte della retribuzione per contributi sindacali dovuti dal lavoratore a favore di un sindacato non firmatario del contratto collettivo e che la Corte di Appello di Torino ha ritenuto, invece, sussistente a prescindere dall'applicabilità del contratto collettivo disciplinante la materia - e, cioè, ex se, in forza di un atto dispositivo del lavoratore inquadrabile nella "cessione del credito" - ed ha, quindi, qualificato il relativo comportamento inadempiente della società datrice di lavoro come comportamento antisindacale sanzionabile ex art. 28 della legge n. 300/1970.
Nel presente giudizio deve essere risolta - vale rimarcarlo - la questione concernente l'asserita sussistenza di un obbligo a carico del datore di lavoro di effettuare la trattenuta del contributo sindacale esclusivamente sulla base di un atto dispositivo del lavoratore anche senza il consenso dello stesso debitore-datore di lavoro ex art. 1260 c.c. e senza alcun riferimento al contratto collettivo pure disciplinante la materia e, pertanto, non a seguito di un accordo contrattuale inter partes (intese le stesse quali parte creditrice e parte debitrice della retribuzione).
III/b. Anzitutto, il "capo" della decisione del Giudice di appello che ha inquadrato il cennato obbligo nell'ambito della "cessione di credito" non può essere censurato tout court in relazione all'argomentazione della ricorrente che siffatta soluzione dovrebbe essere considerata "in frode alla legge" e ciò in quanto l'abrogazione della normativa legislativa statutaria non ha certo determinato un "vuoto" nella regolamentazione della materia, ma - come ha precisato la Consulta - ha "restituito" all'autonomia contrattuale la materia già disciplinata dalla legge: per cui ora, piuttosto che accennare ad una attività negoziale "in frode alla legge", occorre verificare in che modo l'attività contrattuale possa correttamente svilupparsi per regolamentare la dedotta materia.
In tale indagine l'affermazione della Corte di Appello - su cui si fonda la sentenza impugnata -, a mente della quale "non si tratta di far rivivere la norma abrogata ma di prendere atto che il medesimo risultato è raggiungibile per altre legittime vie, siano esse quelle dell'accordo contrattuale tra le parti oppure quelle del ricorso ad un diverso istituto giuridico che non richiede per la sua attuazione il consenso del datore di lavoro" appare negativamente generica perché accomuna due ipotesi tra di loro non assimilabili: quella di un accordo contrattuale e l'altra di un atto dispositivo del lavoratore senza l'accordo del datore di lavoro.
Nel primo caso la "via" per pervenire al risultato della "trattenuta del contributo sindacale sulla retribuzione" si conforma a quanto rilevato dalla Corte Costituzionale per sancire l'ammissibilità del referendum abrogativo dell'art. 26 - secondo cui, vale ribadirlo, l'intendimento abrogativo si identificava nel voler eliminare "la base legale" del diritto del sindacato alla trattenuta per "restituire" la materia all'autonomia contrattuale (sindacale o individuale) - e, conseguentemente, è legittimamente percorribile; non altrettanto è a dirsi nel secondo caso in cui si supplisce alla mancanza di un accordo contrattuale con lo sforzato riferimento ad una norma di legge (art. 1260 c.c.) che imporrebbe comunque l'obbligo per il datore di lavoro di una trattenuta del contributo sindacale senza il consenso della parte debitrice dell'obbligazione retributiva, sicché il diritto del lavoratore (o, più pragmaticamente, del sindacato) verrebbe nuovamente fatto scaturire ex lege e, conseguentemente, non in conformità all'intendimento referendario così come inteso dalla Consulta; per cui, se si aderisse a tale conclusione, si verificherebbe che - mediante il contratto collettivo - il datore di lavoro sarebbe obbligato ad effettuare la trattenuta secondo le modalità pattuite (si ritiene in maniera meno onerosa per la riscossione) contrattualmente, mentre - "al di fuori del contratto collettivo" pure disciplinante la materia ed applicabile aziendalmente - sarebbe obbligato "nolente" a subire l'unilaterale determinazione del "lavoratore-sindacato non firmatario".
In questo caso sembra evidente un'indebita interferenza nelle relazioni sindacali in quanto il risultato della contrattazione collettiva verrebbe "scavalcato" dalla determinazione unilaterale del lavoratore non aderente ai sindacati firmatari: specificamente, mentre nell'ipotesi della regolamentazione in generale sancita dal contratto collettivo di lavoro e non applicabile ex se ai lavoratori non iscritti ai sindacati firmatari o aderenti a sindacati non firmatari tale regolamentazione non viene imposta alle parti non sindacalizzate, per la materia delle trattenute dei contributi sindacali la regolamentazione collettiva avrebbe un significato del tutto marginale potendo le parti più direttamente interessate far leva sulla loro determinazione unilaterale a prescindere da un accordo contrattuale con la parte datoriale.
Siffatta conclusione si pone, inoltre, in evidente contrasto con il principio di correttezza e buona fede, che - secondo la relazione ministeriale al codice civile "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore, nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità, una volta collocato nel quadro di valori introdotto dalla Costituzione - deve essere inteso come una specificazione degli inderogabili doveri imposti dalle norme costituzionali (tra le altre, artt. 2, 3, 35, 39, 41 Cost.): la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altro, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge.
III/c. Poste le cennate premesse di carattere "particolare" e "generale", risalta chiaramente l'erroneità della sentenza della Corte di Appello che, pure ammettendo che con il ricorso alla cessione del credito ex art. 1260 c.c. "risorge un obbligo di collaborazione identico a quello che il referendum ha voluto far venir meno", individua la fonte del cennato obbligo "non già nella norma abrogata ma negli artt. 1260 e segg. c.c. che autorizzano la cessione del credito senza il consenso del debitore ceduto".
Tale ammissione conferma che la soluzione collegata al ricorso alla "cessione del credito" non si conforma all'intendimento della volontà popolare espressa dal referendum abrogativo e, più precisamente, all'intendimento precisato dalla Corte Costituzionale di eliminare la base legale dell'obbligo datoriale per restituire la materia all'autonomia contrattuale: con tale soluzione si è, in sostanza, sostituita ad una norma di legge (art. 26 della legge n. 300/1970) un'altra norma di legge (art. 1260 c.c.) in contrasto evidente con il risultato sancito dal referendum abrogativo dell'art. 26.
L'istituto della "cessione del credito" non è, in ogni caso, praticabile per avvalorare la cennata soluzione - ab imis errata per la fondamentale ragione dinanzi evidenziata in considerazione, altresì, di quanto ritenuto in dottrina che la cessione in generale non costituisce un autonomo tipo negoziale per coincidere con lo schema negoziale di volta in volta idoneo ad operare e a giustificare il trasferimento - in quanto: a) sussiste una incompatibilità strutturale tra l'impossibilità di una revoca immediata senza il consenso del sindacato beneficiario propria dell'istituto della cessione del credito conformemente alla sua natura che la connota come una forma di alienazione di diritti e la revocabilità immediata dell'atto volontario di contribuzione sindacale obbligatoriamente discendente dal principio di libertà sindacale ex art. 39 Cost.; b) non vi è dubbio che a causa della pretesa cessione sorgano a carico del debitore dell'obbligazione retributiva obblighi e responsabilità ulteriori rispetto a quelli che avrebbe comportato l'adempimento a favore del creditore originario, dovendo il datore di lavoro predisporre una particolare organizzazione amministrativa (diversa rispetto a quella prevista per le trattenute regolamentate dal contratto collettivo) per l'immediato versamento mensile dei contributi sindacali "ad nutum" del lavoratore sindacato interessato ed essendo lo stesso datore esposto ad una particolare forma di responsabilità (oltre, naturalmente, quella civilistica) collegata all'applicabilità dell'art. 28 della legge n. 300/1970 (sotto un profilo diverso e "concorrenziale" rispetto a quello considerato nella sentenza impugnata); c) a quest'ultimo riguardo, nel caso di cd. "cessione individuale" - a favore di un sindacato-non-firmatario - del credito retributivo da parte di un lavoratore iscritto ad un sindacato firmatario di un contratto collettivo che regola la materia delle trattenute di contributi sindacali, l'obbligo ex art. 1260 c.c. di provvedere all'immediata trattenuta della retribuzione costringerebbe il datore di lavoro "nolente" a cessare dall'effettuare le trattenute a favore del sindacato firmatario e lo esporrebbe ad un'azione giudiziaria ex art. 28 su iniziativa di detto sindacato; d) il credito del lavoratore per retribuzione, anche se può non rientrare nell'ambito dei crediti di natura strettamente personale per i quali sussiste il divieto di cedibilità ex art. 1260, primo comma, c.c., dovrebbe impropriamente venire trasferito con le garanzie personali e reali ex art. 1263 c.c. (a differenza di quanto avviene per la delegazione di pagamento a norma dell'art. 1275 c.c.), quando per i crediti da lavoro occorre tenere conto dei limiti di pignorabilità ex art. 545 c.p.c. in considerazione, appunto, della natura particolare-personale delle "somme dovute da privati a titolo di stipendio, salario e altre indennità relative a rapporti di lavoro o di impiego" e della necessità di garantire l'osservanza dei cennati limiti in presenza di procedure espropriative.
III/d. A questo punto si rileva che la qualificazione degli atti compiuti dalle parti è compito del giudice, il quale, sulla base del risultato perseguito dalle medesime con riferimento alle allegazioni fornite e nell'ambito delle singole norme di legge, ha il potere-dovere di individuare la disciplina ad essi applicabile e di inquadrarli negli schemi giuridici agli stessi compatibili.
Nel caso in esame - esclusa la possibilità di inquadrare la fattispecie della trattenuta del contributo sindacale sulla retribuzione nell'ambito della cessione di credito - lo schema più idoneo a qualificare la cennata situazione resta quello della delegazione di pagamento, che richiede il consenso del datore di lavoro-debitore e, quindi, un accordo con esso delegato alla base della possibilità per il "lavoratore-sindacato non firmatario di contratto collettivo" di ottenere che il datore di lavoro effettui la trattenuta sulla retribuzione ed il versamento dei contributi al sindacato non firmatario. In sostanza si riconduce, così, la fattispecie alla finalità prevista dalla Corte Costituzionale - di restituire, cioè, la materia all'autonomia contrattuale delle parti - poiché esclusivamente in forza di un accordo sorge il diritto del lavoratore-sindacato alla trattenuta del contributo sindacale e non certo mediante una determinazione unilaterale del lavoratore-sindacato a prescindere dalla volontà del debitore ceduto [come, invece, impropriamente avverrebbe con la cessione di credito mediante cui il sindacato non firmatario tenta di recuperare il mancato consenso derivante dalla mancata accettazione (ex secondo comma dell'art. 1269 c.c.) della delega del lavoratore da parte del datore di lavoro o attraverso, appunto, l'escogitazione giurisprudenziale (erroneamente condivisa dal Giudice di appello) del ricorso alla disciplina dell'art. 1260 c.c. o attraverso l'evidente forzatura (peraltro, espressamente esclusa dalla Corte di Appello) dell'estensione della contrattazione collettiva ai lavoratori non aderenti ai sindacati firmatari].
È da precisare che l'istituto della delegazione di pagamento [che, come da tempo statuito da questa Corte (Cass. n. 2354/1960, Cass. n. 1336/1962), si differenzia in generale dalla cessione di credito in quanto, mentre la cessione interviene tra due soli soggetti (cedente e cessionario), la delegazione presuppone il concorso di tre soggetti (delegante, delegato, delegatario)] viene adattato alla fattispecie in modo certamente peculiare - con la fondamentale precisazione che, a differenza di quanto è stato dinanzi evidenziato con riferimento all'istituto della cessione di credito, il "peculiare adattamento" avviene sicuramente in conformità all'intendimento perseguito dal referendum abrogativo del 1995 -, tenendo presente che dall'analisi del modello delegatorio degli artt. 1268 e segg. c.c. si evidenzia che la delegazione può essere realizzata attraverso una pluralità di distinti negozi bilaterali ed unilaterali, dotati ciascuno di una propria causa, pur se tra loro finalisticamente collegati (cfr. Cass. n. 6387/2000).
Pervero - come è stato efficacemente rilevato in dottrina - il duplice piano contrattuale (collettivo o individuale), cui esclusivamente deve essere riportato il diritto alla riscossione dei contributi sindacali mediante trattenute sulla retribuzione, impone che il sindacato, ove voglia acquisire il cennato diritto, deve essere parte del contratto collettivo che comunque regola la materia. Il diritto del singolo trae origine - sul piano individuale - come conseguenza di un accordo contrattuale che si perfeziona con la volontà del lavoratore-delegante e del datore di lavoro delegato e da cui deriva una situazione di vantaggio del "sindacato non firmatario". Il sindacato, pertanto, dovrà o essere firmatario del contratto collettivo o, in mancanza, dovrà limitarsi a fare riferimento all'accettazione da parte del datore di lavoro della delega di pagamento inviata dal lavoratore.
In questa reale constatazione ritorna attuale l'indirizzo giurisprudenziale risalente all'assetto normativo pre-referendario con il ricorso specifico all'istituto della delegazione di pagamento ovvero con il riferimento ad un atto negoziale del lavoratore non avente uno specifico nomen iuris: nel senso che, venuto meno l'obbligo ex lege sancito dall'art. 26 della legge n. 300/1970, la relativa materia viene ora regolamentata in forza della contrattazione collettiva di diritto comune oppure - se la contrattazione collettiva non è comunque applicabile - mediante un negozio inquadrabile nella delegazione di pagamento con peculiare specificità.
Si conferma, in conclusione, l'erroneità della sentenza impugnata per avere il Giudice di appello inquadrato nell'istituto della "cessione di credito" la delega del lavoratore di fare effettuare dal datore di lavoro la trattenuta sulla retribuzione del contributo sindacale a favore di un sindacato-non-firmatario, per cui il ricorso proposto su tale punto dalla s.p.a. IVECO deve essere accolto.
IV. Deve, altresì, essere riformata la decisione della Corte torinese anche ove essa ha ritenuto azionabile ex art. 28 della legge n. 300/1970 la pretesa del sindacato-non-firmatario di ottenere il versamento del contributo sindacale a seguito di trattenuta della retribuzione del lavoratore aderente a tale sindacato, poiché "il rifiuto della società datrice di lavoro di dare attuazione ad una legittima cessione di credito chiaramente finalizzato al finanziamento del sindacato significa porre un ostacolo alla libertà sindacale ... essendo sanzionabile il comportamento oggettivamente antisindacale".
Ora - a parte che, non sussistendo (come si è dinanzi statuito) nella specie una "legittima cessione di credito" - non vi è alcun inadempimento datoriale sanzionabile ex art. 28 (anche se è stato ritenuto che l'uso di strumenti in astratto leciti può risultare, nelle circostanze concrete, oggettivamente idoneo a limitare la libertà sindacale) un intervento del giudice per imporre al datore di lavoro un comportamento in contrasto o (almeno) al di fuori di quanto stabilito da un contratto collettivo applicabile in azienda [in partic., nella specie, statuendo l'obbligo a carico del datore ("nolente") di effettuare la trattenuta della retribuzione per versare il contributo sindacale a favore di un sindacato non firmatario delegato dal lavoratore quando un contratto collettivo regolamenta la materia e può avvenire che il versamento del contributo sindacale sia già avvenuto a favore di un sindacato firmatario a cui il lavoratore sia (o sia stato) associato] costituisce una indebita interferenza nelle relazioni sindacali e, sotto tale specifico aspetto rappresenterebbe un comportamento - sostanzialmente - antisindacale.
In ogni caso, nella sentenza n. 5295/1997 delle Sezioni Unite (con cui, occorre precisarlo, era stato rigettato il ricorso per cassazione proposto dalle organizzazioni sindacali originariamente ricorrenti ex art. 28) richiamata dalla Corte di Appello per ritenere sanzionabile il comportamento "oggettivamente antisindacale" sulla base che "nel caso in esame l'inconsistenza delle ragioni addotte per non dar corso alle cessioni dimostra la positiva esistenza di un intento antisindacale" veniva, tra l'altro, precisato che la sussistenza, o meno, di un intento del datore di lavoro di ledere la libertà sindacale e il diritto di sciopero "non è sufficiente in quanto tale intento non può far considerare antisindacale un'attività che non appare obiettivamente diretta a limitare la libertà sindacale": per cui, se dalle risultanze processuali non è dato evincere che la condotta del datore di lavoro non era obiettivamente idonea a violare la libertà sindacale (con il relativo onere probatorio a carico del sindacato ricorrente e di cui il giudice del merito ha l'obbligo di dare congrua e corretta motivazione nella decisione), deve escludersi la sussistenza di un comportamento antisindacale sanzionabile ex art. 28.
Nella specie, la decisione del Giudice di appello si è sviluppata unicamente sul versante dell'inquadramento della fattispecie negli schemi negoziali del diritto civile senza indicare in che modo fattualmente la condotta della società datrice di lavoro fosse realmente idonea a limitare la libertà sindacale dell'associazione ricorrente (a tale proposito non può essere seriamente considerato il cd. argomento concernente "l'inconsistenza delle ragioni addotte per non dar corso alle cessioni") e, quindi, la cennata decisione è caratterizzata da un'impostazione civilistica che, pur tenendo riguardo allo scopo assicurato dall'abrogata norma dell'ari 26 della legge n. 300/1970 di garantire al sindacato il diritto al versamento dei contributi, avrebbe potuto costituire oggetto soltanto di un autonomo giudizio ordinario e non, certo, di un procedimento speciale ex art. 28.
Di conseguenza, anche sotto tale profilo, la sentenza impugnata deve essere riformata in accoglimento delle specifiche censure proposte (specif. con il terzo motivo) dalla società ricorrente.
V. In definitiva, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso proposto dalla s.p.a. IVECO deve essere integralmente accolto, per cui la sentenza del Tribunale di Torino impugnata deve essere cassata e decidendo nel merito ex art. 384 (ult. alinea del primo comma) c.p.c. poiché non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto va revocato il decreto opposto emesso ex art. 28 della legge n. 300/1970 dal Pretore di Torino in data 29 marzo 1999.
Ricorrono giusti motivi per dichiarare compensate tra le parti le spese dell'intero giudizio.
 
P.Q.M.
 
La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito revoca il decreto emesso ex art. 28 della legge n. 300/1970 dal Pretore di Torino in data 29 marzo 1999; compensa tra le parti le spese dell'intero giudizio.
******
Corte di Cassazione, Sez. lav., sentenza 26 febbraio 2004, n. 3917 (ud. 24 novembre 2003) – Pres. Mattone – Rel. Filadoro – Fiat Auto Partecipazioni SpA e Fiat Auto SpA (avv. Tamajo, Tosi, Bonamico e Borsotti) c. Sincobas (avv. Sonetto)
 
Svolgimento del processo - Con sentenza 6 ottobre - 17 novembre 2000, la Corte d'Appello di Torino rigettava l'appello proposto dalla s.p.a. FIAT AUTO avverso la decisione del locale Pretore del 15 marzo - 19 aprile 1999, che aveva dichiarato antisindacale il comportamento della società, consistente nel non dar corso alle richieste di centoventotto lavoratori, aderenti al sindacato SINCOBAS, di operare le trattenute delle quote sindacali sulle loro retribuzioni, trasferendole a detta
organizzazione.
La Corte d'Appello respingeva l'eccezione di carenza di legittimazione passiva del COBAS, rilevando:
- che l'associazione aveva il requisito della nazionalità (non occorrendo la stipulazione di accordi a livello nazionale o aziendale);
- che si trattava di associazione sindacale nazionale di categoria e non di sindacato intercategoriale.
Nel merito, i giudici di appello rilevavano che dopo il referendum abrogativo del 1995 il COBAS aveva richiesto alla società FIAT AUTO la cessione di una parte della retribuzione di alcuni dipendenti a titolo di quota associativa.
La società aveva opposto un rifiuto, così ponendo in essere la condotta antisindacale denunciata.
La Corte osservava che la tutela di cui all'art. 28 dello Statuto dei lavoratori non è limitata ai diritti sindacali nominativamente riconosciuti, ma comprende qualsiasi comportamento del datore di lavoro diretto a impedire o comunque a limitare l'esercizio delle libertà e dell'attività sindacale (oltre che il diritto di sciopero).
Avverso tale decisione la società FIAT AUTO ha proposto ricorso per Cassazione sorretto da tre distinti motivi, illustrati da memoria.
Resiste il SINCOBAS con controricorso.
FIAT AUTO ha depositato anche note d'udienza, a seguito delle conclusioni espresse dal Sostituto Procuratore Generale presso questa Corte.
 
Motivi della decisione - Con il primo motivo la società ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 28 della legge n. 300 del 1970, contraddittoria, erronea e insufficiente motivazione circa la carenza di legittimazione passiva (art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.).
Erroneamente, ad avviso della ricorrente, i giudici di appello hanno ritenuto che il SINCOBAS non sia una confederazione di sindacati di categoria, ma un vero e proprio sindacato, portatore di un interesse diretto ed immediato a difendere l'esercizio di attività sindacali nelle realtà periferiche nelle quali è presente.
Nonostante sia del tutto evidente che l'organizzazione esiste e riesce ad assumere dimensione nazionale solo come coalizione di un numero di comitati di base, appartenenti alle più diverse categorie.
In realtà, precisa la ricorrente "l'anomala struttura organizzativa assunta da SINCOBAS costituisce un abile artificio per superare formalmente il requisito di nazionalità, senza che siano tuttavia rispettate le esigenze sostanziali sottese a tale limitazione normativa". Il riconoscimento della legittimazione attiva, ai sensi dell'art. 28 dello Statuto, ai soli organismi locali appartenenti a sindacati nazionali deriva dall'esigenza di limitare l'esercizio di tale azione solo a soggetti dotati di una responsabilità e di una comprensione dei fenomeni che trascenda il contesto locale. Tale funzione non sarebbe affatto rispettata se si ammettesse ad agire un coacervo di comitati di base appartenenti alle più diverse categorie, con diverse esigenze e realtà di riferimento, capaci poi di raggiungere una dimensione nazionale solo attraverso una formale unione sotto l'egida di una unica organizzazione intercategoriale.
Il motivo non è fondato.
La lettera dell'art. 28 dello Statuto dei lavoratori è chiara ed univoca nell'attribuire la legittimazione ad agire alle "associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse" e quindi nel richiedere solo il requisito della diffusione nazionale del sindacato sul territorio nazionale senza esigere che l'associazione debba far parte di una confederazione ed essere maggiormente rappresentativa.
La dizione letterale trova del resto corrispondenza nella stessa "ratio" della legge. Infatti, nell'art. 19 lettera a); nella sua originaria formulazione - prima dell'abrogazione del 1995 - si poneva esclusivamente la questione dell'ammissibilità della costituzione di rappresentanze sindacali aziendali, e quindi tale diritto - per la delicata interferenza nella vita interna dell'azienda – era riconosciuto agli organismi (tra i non firmatari di contratti nazionali o provinciali) ritenuti più responsabili.
Nell'art. 28, invece, viene indicata solamente la legittimazione alla speciale procedura per la repressione di ogni condotta antisindacale. Tale legittimazione (che pur implica valutazioni responsabili: Corte Cost. 6 marzo 1974, n. 54) va tuttavia conciliata col rispetto del libero sviluppo dell'attività sindacale (art. 39, comma 1, Costituzione), per cui la legittimazione stessa è attribuita a tutte le associazioni sindacali nazionali interessate, a prescindere dalla loro confluenza in confederazioni o comunque dalla loro intercategorialità.
Proprio la Corte Costituzionale, del resto, con la sentenza 24 marzo 1988 n. 334 ha rilevato, tra l'altro, che l'art. 28 è espressione della garanzia, nel nostro ordinamento, del libero sviluppo di una "normale dialettica sindacale", perché "il suo impiego presuppone una dimensione organizzativa - quella nazionale - che, per non essere legata né ad una aggregazione a livello confederale intercategoriale, né alla stipulazione di contratti collettivi, consente concreti spazi di operatività anche alle organizzazioni che disseti dalle politiche sindacali maggioritarie".
I giudici di appello hanno fatto riferimento a numerosi documenti dai quali è possibile ricavare la dimensione nazionale di SINCOBAS (non solo la sua presenza in tutte o quasi le province e l'elezione di suoi rappresentanti sindacali in importanti aziende, ma anche lo svolgimento di una effettiva azione sindacale su gran parte del territorio nazionale).
La società ricorrente, con il secondo profilo del primo motivo, contesta la legittimazione attiva del SINCOBAS rilevando che questo non sarebbe una associazione sindacale nazionale di categoria, ma un
sindacato intercategoriale.
Anche questa censura è infondata.
L'art. 28 dello Statuto attribuisce la legittimazione attiva indistintamente a tutti gli "organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse" e non solo alle associazioni sindacali nazionali di categoria.
La posizione del SINCOBAS, ha accertato la Corte d'Appello, con motivazione che sfugge a qualsiasi censura, non è affatto assimilabile a quella degli organismi locali delle confederazioni sindacali, escluse dall'ambito dell'art. 28 dello Statuto da questa Corte (perché non incardinati in un sindacato di categoria nazionale e privi di interesse ad agire).
Gli stessi giudici hanno riconosciuto che - a differenza delle confederazioni sindacali (che costituiscono degli organismi di coordinamento dei vari sindacati di categoria) - il SINCOBAS ha tra i suoi compiti istituzionali la tutela diretta delle varie categorie di lavoratori che rappresenta ed in cui eventualmente si articola.
Dallo Statuto del SINCOBAS è risultato che lo stesso è una associazione sindacale nazionale (art. 1) e non una confederazione sindacale: esso non costituisce una confederazione di sindacati di categoria, pur raggruppando lavoratori di tutte le categorie, articolandosi in diversi settori e categorie (art. 2).
La giurisprudenza di questa Corte è ferma, del resto, nel ritenere fondamentali le indicazioni contenute nelle norme Statutarie ai fini della individuazione degli organismi zonali deputati ad agire ai sensi dell'art. 28 dello Statuto; ciò per la necessità di lasciare all'organizzazione sindacale la piena libertà di darsi una struttura a livello locale e di individuare gli organismi ritenuti più idonei alla tutela degli interessi locali (Cass. 5765 del 20 aprile 2002).
La questione della legittimazione attiva del SINCOBAS deve pertanto essere risolta in senso favorevole allo stesso.
Con il secondo motivo la società ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 28 della legge n. 300 del 1970, erronea motivazione circa l'estraneità della controversia rispetto alla nozione di condotta antisindacale (art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.).
In ogni caso, la condotta di FIAT AUTO, secondo la ricorrente, rimarrebbe del tutto estranea rispetto alla nozione di "condotta antisindacale" che delimita rigorosamente la possibilità di ricorrere al procedimento ex art. 28 Statuto dei lavoratori.
In altre parole, una volta venuta meno la fonte legale del diritto alla trattenuta dei contributi ed al successivo versamento delle quote alle organizzazioni sindacali, non sarebbe più possibile parlare di comportamento antisindacale del datore di lavoro.
Infatti, una volta caduto l'obbligo di fonte legale un diritto del sindacato ad ottenere la cooperazione del datore di lavoro nel meccanismo di raccolta dei contributi potrebbe discendere solo da un impegno assunto per effetto di autonomia contrattuale del datore di lavoro nei confronti del sindacato (nel caso di specie, inesistente).
I giudici di appello avevano ritenuto sufficiente ad attribuire valenza antisindacale alla condotta aziendale il mero fatto che le somme oggetto di cessione fossero destinate al finanziamento del sindacato, ritenendo poi che tale conclusione trovasse conforto nel principio, espresso dalle Sezioni Unite di questa Corte, circa l'irrilevanza dell'elemento soggettivo nella qualificazione della condotta antisindacale.
Il vero nodo da dipanare era, però, tutt'altro e consisteva nello stabilire se, in un contesto di fisiologica contrapposizione di interessi (in cui non esiste dovere di collaborazione al di fuori di specifiche previsioni legali o contrattuali), il sindacato possa pretendere di qualificare come antisindacale l'inadempimento di un'obbligazione che vede come parti esclusivamente il datore di lavoro ed il singolo lavoratore, solo per il fatto che quest'ultimo, con un negozio tipicamente astratto come la cessione di credito, abbia ritenuto di individuare come beneficiario parziale della prestazione il sindacato di appartenenza.
Con il terzo motivo la società ricorrente denuncia violazione degli articoli 1260 c.c. e 39, primo comma, Costituzione, nonché insufficiente e/o erronea motivazione circa l'inapplicabilità della cessione di credito alla fattispecie concreta (art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.).
Ad avviso della ricorrente il venir meno del secondo e terzo comma dell'art. 26 della legge 300 del 1970, a seguito del referendum abrogativo, ha reso la delegazione di pagamento non più idonea ai risultati auspicati dal sindacato, in quanto la delegazione richiede il consenso del delegato (nel caso di specie, il datore di lavoro).
Il sindacato aveva ritenuto di aggirare questi ostacoli, facendo riferimento alla cessione di credito.
Nel caso di specie, tuttavia, mancavano tutti i requisiti essenziali per poter qualificare in questo modo la situazione oggetto di causa.
La cessione di credito è un istituto che non può trovare applicazione quando da essa consegua un aggravamento degli oneri e dei rischi del debitore ceduto. Gli oneri previsti per le trattenute SINCOBAS sarebbero di gran lunga maggiori di quelli derivanti dall'applicazione della regola generale di cui all'art. 6 del contratto collettivo nazionale di lavoro per le organizzazioni stipulanti (comportando necessità di verifiche e controlli più frequenti e costosi).
Doveva anche escludersi la possibilità di configurare come cessione di credito la fattispecie oggetto di causa per l'assorbente ragione della strutturale incompatibilità fra un negozio traslativo del credito e la revocabilità dell'atto volontario di contribuzione sindacale.
Un ulteriore profilo di incompatibilità della cessione rispetto allo scopo perseguito dal sindacato si pone in relazione alla disciplina sul luogo dell'adempimento dell'obbligazione retributiva, che, secondo l'art. 1182 c.c., deve avvenire nel luogo in cui si svolge la prestazione.
L'azienda potrebbe, al più, ritenersi obbligata a mettere a disposizione dell'organizzazione sindacale la somma trattenuta presso i propri uffici, ma non a versarla - in mancanza di pattuizione espressa in tal senso - al sindacato stesso.
Anche ad ammettere, infine, che la fattispecie in esame fosse da ricondurre alla cessione di credito, la stessa sarebbe comunque improduttiva di effetti giuridici, giacché ci troveremmo in presenza di un negozio posto in essere in frode alla legge, in quando diretto ad eludere l'esito del referendum e la conseguente abrogazione dei commi 2 e 3 dell'art. 26 dello Statuto dei lavoratori.
I due motivi possono essere esaminati congiuntamente, in quanto connessi tra di loro.
Essi non sono fondati.
Con motivazione adeguata e sufficiente, la Corte d'Appello ha ricordato che l'effetto del referendum abrogativo dell'art. 26 dello Statuto e del conseguente D.P.R. è stato di eliminare dall'ordinamento il secondo comma di tale articolo; sicché è venuto meno l'obbligo per il datore di lavoro di operare, su richiesta del dipendente, la trattenuta sindacale in favore dell'organizzazione di appartenenza.
In tal modo, tuttavia, non si è affatto - come pretenderebbe la società ricorrente - posto un divieto e resa illecita la riscossione di quote associative sindacali a mezzo di trattenuta operata dal datore di lavoro.
Molto più semplicemente, deve ritenersi che per effetto del referendum abrogativo e del successivo D.P.R. 313 del 28 luglio 1995, la materia è stata restituita all'autonomia privata, individuale e collettiva (Corte Cost. n. 13 del 12 gennaio 1995). Come ha rilevato il giudice delle leggi, l'intento dei promotori del referendum era quello di "restituire la materia all'autonomia privata, facendo venir meno l'obbligo legale di cooperazione gravante sul datore di lavoro. Tale obbligo giuridico, scaturente dalle abrogande disposizioni, avrebbe in concreto determinato un vincolo contributivo a tempo indeterminato a carico del lavoratore, indipendentemente dalla permanenza del vincolo associativo".
In altre parole, l'obiettivo del referendum non era quello di evitare che attraverso altri strumenti riconducibili all'autonomia negoziale privata o a quella collettiva, il datore di lavoro fosse tenuto ad accreditare i contributi in favore delle associazioni sindacali.
Tanto è vero che gli stessi promotori menzionavano, tra gli istituti utilizzabili "ai medesimi fini", proprio la cessione di credito, accanto alla delegazione di pagamento, dimostrando così di non ritenere contrario allo spirito della consultazione popolare un meccanismo di accredito dei contributi realizzato, sul piano dell'autonomia negoziale, anche a prescindere dalla volontà del datore di lavoro.
Del resto, come hanno riconosciuto i giudici di appello, pur dopo il referendum del giugno 1995, sono rimaste valide le pattuizioni contrattuali collettive (quali l'art. 6 disciplina generale, parte seconda, del c.c.n.l. metalmeccanico privato) che prevedevano l'effettuazione delle trattenute e, sostituita la fonte contrattuale a quella legale, il diritto alla riscossione tramite trattenuta è rimasto in vita per i sindacati che potevano avvalersi di tali norme - non evidentemente per il SINCOBAS che non è tra i firmatari del c.c.n.l.
Ulteriore conseguenza - ha osservato ancora la Corte con motivazione irreprensibile - è che la cessione di un credito dei lavoratori a favore del sindacato non potrebbe integrare nullità del contratto per illiceità della causa ex art. 1344 c.c., in quanto mezzo per eludere l'applicazione di una norma imperativa.
Una norma che vieti al sindacato di ottenere il pagamento delle quote associative attraverso le trattenute sulla retribuzione dei dipendenti non esiste, né è stata introdotta come effetto o a seguito del referendum.
L'unica questione da risolvere è allora quella (formulata nel terzo motivo di ricorso per Cassazione) relativa alla qualificazione da attribuire all'istituto posto in essere dai lavoratori.
Il Collegio ritiene di dover condividere l'interpretazione data dai giudici di appello, secondo la quale i lavoratori hanno posto in essere una cessione dei crediti, la quale non richiede il consenso del debitore.
Mentre la cessione del contratto, comportando la sostituzione della parte tenuta all'esecuzione del rapporto, richiede sempre il consenso della parte ceduta, questo consenso non è richiesto per la cessione di credito, poiché il cedente aliena e trasferisce semplicemente una pretesa creditoria e, normalmente, per il debitore ceduto è indifferente eseguire la prestazione ad un nuovo avente diritto.
L'art. 1260 c.c. stabilisce al primo comma che: "il creditore può trasferire a titolo oneroso o gratuito il suo credito, anche senza il consenso del debitore, purché il credito non abbia carattere strettamente personale o il trasferimento non sia vietato dalla legge".
Nel caso di specie non ricorre alcuna delle due ipotesi di esclusione espressamente previste.
La giurisprudenza citata dalla difesa della società ricorrente riguarda in via esclusiva il periodo prereferendario. La stessa ha escluso che l'istituto in questione possa configurarsi quale cessione essenzialmente perché la cessione impedirebbe al lavoratore per tutto il periodo cui si riferisce, di esercitare unilateralmente il potere di revoca. Inoltre l'accredito dovrebbe avere carattere periodico, mentre la manifestazione di volontà del lavoratore consisterebbe in un unico atto e riguarderebbe crediti futuri.
Nessun dubbio che la cessione possa riguardare anche crediti futuri (Cass. 11 maggio 1990, n. 4040, 17 marzo 1995, n. 3099; cfr. anche Cass. 2 agosto 1977, n. 3421 e 2798 del 1978).
La società ricorrente nega la natura di cessione di credito della autorizzazione alla trattenuta sindacale muovendo dalla constatazione che l'indicazione posta alla base dell'istituto della cessione di credito sarebbe, per sua natura, irrevocabile.
L'obiezione non tiene conto della circostanza che l'autorizzazione non si rivolge ad un unico credito preesistente, ma anche a crediti futuri, e comunque della chiara volontà manifestata dai lavoratori aderenti all'organizzazione sindacale che ha espressamente previsto la revocabilità della cessione prima della scadenza indicata (cfr. pag. 10 controricorso, doc. 12, fascicolo di primo grado SINCOBAS).
Anche in assenza della clausola di revoca, pure espressamente prevista nella lettera, in caso di recesso del lavoratore dall'associazione sindacale verrebbe meno automaticamente il collegato negozio di cessione di credito (per sopravvenuta carenza di causa e condizione necessaria).
Ad avviso di questa Corte, non è possibile rinvenire alcun limite alla integrazione della disciplina codicistica (nel senso sopra prospettato) potendo l'autonomia negoziale privata intervenire per regolamentare interessi meritevoli di tutela, quale è, indubbiamente, quello all'autofinanziamento di una organizzazione sindacale, espressamente previsto e tutelato dalle leggi vigenti.
È appena il caso di ricordare che l'interesse del sindacato a ricevere le quote sindacali non costituisce un interesse di mero fatto, ma è pur sempre legislativamente protetto, dal momento che il primo comma dell'art. 26 della legge n. 300 del 1970, sopravvissuto alla abrogazione referendaria, contempla il diritto dei lavoratori di raccogliere i contributi sul luogo di lavoro, con conseguente compressione del potere di organizzazione imprenditoriale.
Né può dirsi, come sembra affermare la ricorrente, che, in tal modo, siano posti a carico della società datrice di lavoro oneri non previsti e comunque insostenibili.
Nel bilanciamento dei diversi interessi non è affatto illogico che prevalga quello del sindacato alla raccolta dei contributi ed al versamento diretto degli stessi.
Tra l'altro, gli oneri del pagamento non potranno - intuitivamente - essere superiori a quelli previsti per l'accredito delle quote associative ai sindacati firmatari del contratto collettivo nazionale di lavoro, rispetto ai quali la società ha già contrattualmente assunto il relativo compito organizzativo.
La società ricorrente ha tentato di individuare nello strumento della cessione rigidità strutturali che non sono rinvenibili affatto nella disciplina dell'istituto, così come regolata dalle previsioni codicistiche ed elaborata dalla giurisprudenza.
Da ultimo, la società ricorrente rileva che l'inadempimento, da parte sua, al negozio di cessione potrebbe operare solo sul piano civilistico, ma non certo integrare gli estremi della condotta antisindacale. Si tratta di una osservazione solo all'apparenza suggestiva, ma non condivisibile.
La censura, come hanno già precisato i giudici di appello, trascura il dato, assolutamente pacifico, che la tutela ex art. 28 dello Statuto dei lavoratori non è limitata ai diritti sindacali nominativamente riconosciuti, ma copre qualsiasi comportamento del datore di lavoro diretto, comunque, "ad impedire o limitare l'esercizio della libertà e dell'attività sindacale nonché del diritto di sciopero".
Quanto all'intenzionalità del comportamento del datore di lavoro, la giurisprudenza di questa Corte è ferma nel ritenere che essa sia del tutto irrilevante ai fini dell'integrazione della condotta antisindacale di cui all'art. 28 dello Statuto dei lavoratori.
A tal fine, è sufficiente che il comportamento del datore di lavoro leda oggettivamente gli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali, non essendo necessario (ma neppure sufficiente) uno specifico intento lesivo da parte del datore di lavoro né nel caso di condotte tipizzate perché consistenti nell'illegittimo diniego di prerogative sindacali (quali, il diritto di assemblea, il diritto delle rappresentanze sindacali aziendali a locali idonei allo svolgimento delle loro funzioni, il diritto ai permessi sindacali), né nel caso di condotte non tipizzate ed in astratto lecite, ma in concreto oggettivamente idonee, nel risultato, a limitare la libertà sindacale, sicché ciò che il giudice deve accertare è l'obiettiva idoneità della condotta denunciata a produrre l'effetto che la disposizione citata intende impedire, ossia la lesione della libertà sindacale e del diritto di sciopero (Cass. S.U. 12 giugno 1997, n. 5295).
In precedenti occasioni, questa Corte ha avuto occasione di sottolineare come il rifiuto dell'azienda di effettuare le trattenute sindacali - laddove i lavoratori abbiano rilasciato autorizzazione al datore di lavoro di trattenere sulle retribuzioni i contributi sindacali e di versarli ad associazioni sindacali non firmatarie di contratti collettivi applicati in azienda - concreti un comportamento che lede non solo i diritti del singolo lavoratore ma anche quelli del sindacato destinatario dei contributi e perciò costituisce un ostacolo all'esercizio ed allo sviluppo dell'attività, configurando così una ipotesi di condotta antisindacale (Cass. 16 marzo 2001, n. 3813; 5 febbraio 2000, n. 1312; 9 settembre 1991, n. 9470). Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato, con la condanna della società ricorrente al pagamento delle spese liquidate come in dispositivo.
 
P.Q.M.
 
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese che liquida in euro 3.500 (tremilacinquecento) per onorari di avvocato, oltre ad euro 19,20 per spese.
******
Tribunale di Milano, sez. lavoro (1° grado)  – 3 febbraio 2004 -  Giudice Dott. Francesco L. Frattin. -  SAVIP - Sindacato Autonomo della Vigilanza Privata (avv. Caputo) c. I.V.R.I. - ISTITUTI DI VIGILANZA RIUNITI D'ITALIA S.p.A. (avv. Moro e Failla)
 
Richiesta di versamento di contributi sindacali per cessione di credito da parte del lavoratore – Legittimità – Conseguente comportamento antisindacale nel rifiuto aziendale di operare la trattenuta.
 
E’ legittima – e costituisce condotta antisindacale il diniego datoriale al riguardo – la richiesta del lavoratore di cedere con delega (contenente facoltà di revoca) al proprio sindacato una quota di retribuzione a titolo di contributo sindacale di affiliazione. Osserva infatti il giudicante a fronte delle eccezioni datoriali: perché non dovrebbe essere consentito al sindacato, ente portatore di valori ritenuti dal Costituente e dal legislatore meritevoli di speciale tutela, di ottenere ciò che una qualunque società finanziaria automaticamente ottiene? E perché il cittadino lavoratore potrebbe cedere parte del suo salario a tutti ma non ad una organizzazione sindacale, subendo così una riduzione dei suoi diritti civili senza ben pregnanti ragioni e anzi venendo limitato proprio nell'esercizio del suo diritto di sostenere nel modo ritenuto più opportuno il sindacato di sua fiducia soltanto perché lo stesso non ha stipulato contratti collettivi? Quest'ultima condizione discriminante, se può giustificare un trattamento preferenziale dei sindacati stipulanti sul piano dei diritti strettamente sindacali, in nessun modo può rilevare nel rapporto lavoratore-sindacato da un lato e nello status del cittadino lavoratore dall'altro, entrambi regolati dalle norme del diritto civile.
 
Svolgimento del processo
Con ricorso depositato il giorno 6 luglio 2003 II sindacato ricorrente proponeva opposizione contro il decreto ex art. 28 con il quale il Tribunale aveva rigettato il ricorso promosso dallo stesso sindacato per far dichiarare antisindacale il rifiuto opposto da IVRI di dar corso alle cessioni di credito tramite le quali il SAVIP ed i lavoratori ad esso iscritti chiedevano e chiedono di raccogliere le quote associative. Resisteva la convenuta, chiedendo il rigetto del ricorso sia per il merito, sia per la mancanza del requisito della "nazionalità". La causa veniva ritenuta dallo scrivente documentale. Udita la discussione dei difensori, la causa veniva decisa come in dispositivo.
Motivi della decisione
Lo scrivente, che si è espresso più volte, in passato, in senso conforme al decreto qui opposto, deve dichiarare subito di avere, re melius perpensa, e alla luce del caso presente, mutato opinione circa la nota questione delle ritenute sindacati. Peraltro l'indirizzo oggi ripudiato non era stato assunto senza dar conto delle vistose controindicazioni che si portava dietro.
Riesaminando oggi il problema, lo scrivente rileva che la tesi che il lavoratore possa cedere i propri crediti anche futuri a chiunque - finanziarie, creditori vari - ma non ad un sindacato, porta, come é stato giustamente annotato allora da un critico, ad una restrizione del catalogo dei diritti del cittadino lavoratore per via interpretativa. Questo esito, effettivamente molto grave, poggia, a ben vedere, sulla estremizzazione del principio della necessaria revocabilità della decisione di adesione ad una organizzazione sindacale. Poiché, (dissero il sottoscritto ed altri), al mutamento di opinione politico-sindacale del lavoratore deve seguire immediatamente il recupero della libertà di disporre del proprio salario, e la cessione del credito è strutturalmente irrevocabile salvo il consenso del creditore, per ottenere il quale occorre comunque un certo tempo, non è ammissibile che la libertà sindacale (nella sua componente, diciamo così, strumentale-economica) resti compressa né per molto né per poco tempo, trattandosi di una questione di principio.
Nel nostro caso le c.d. "deleghe" apprestate dal sindacato e da questo trasmesse al datore di lavoro portano ben chiaro il consenso anticipato del sindacato medesimo ad una eventuale revoca della cessione, stabilendo soltanto un tempo davvero minimo, anzi, inesistente, per l'effetto della revoca, visto che si prevede espressamente che la revoca della delega "avrà effetto economico dal mese successivo" e che “il Savip, in ipotesi di disdetta, si impegna a comunicare tempestivamente al datore di lavoro la rinuncia al beneficio della cessione del credito". (Qui va rilevato che normalmente i sindacati confederali stipulanti tutti i contratti collettivi stabiliscono un tempo fisso di qualche mese di ultravalidità della scelta in atto, il che significa che una certa ultrattività non viene ritenuta da loro stessi lesiva dei diritti sindacali dei lavoratori).
Il fatto che sia il sindacato Savip medesimo a portare le deleghe al datore di lavoro, contenenti le clausole di cui sopra, vale indubbiamente come accettazione tacita della clausola di revoca e dell’impegno conseguente. Siamo cioè, in realtà, in una situazione in cui non si ravvisa alcuna comprensione effettiva della libertà (della scelta) sindacale. A fronte di ciò perché non dovrebbe essere consentito al sindacato, ente portatore di valori ritenuti dal Costituente e dal legislatore meritevoli di speciale tutela, di ottenere ciò che una qualunque società finanziaria automaticamente ottiene? E perché il cittadino lavoratore potrebbe cedere parte del suo salario a tutti ma non ad una organizzazione sindacale, subendo così una riduzione dei suoi diritti civili senza ben pregnanti ragioni e anzi venendo limitato proprio nell'esercizio del suo diritto di sostenere nel modo ritenuto più opportuno il sindacato di sua fiducia soltanto perché lo stesso non ha stipulato contratti collettivi? Quest'ultima condizione discriminante, se può giustificare un trattamento preferenziale dei sindacati stipulanti sul piano dei diritti strettamente sindacali, in nessun modo può rilevare nel rapporto lavoratore-sindacato da un lato e nello status del cittadino lavoratore dall'altro, entrambi regolati dalle norme del diritto civile.
Si ritiene poi che non sia di ostacolo il fatto che le "deleghe" sindacali siano sempre state ritenute configuranti delegazioni di pagamento anziché cessioni di credito. Nel momento in cui le parti accettano e configurano una cessione dì credito revocabile ad nutum, non si ravvisano in un tale accordo violazioni di norme imperative né altre ragioni di nullità di un siffatto negozio.
Quanto all'asserito aggravio per il datore dì lavoro, l'obiezione, in presenza di sistemi informatici e di prassi conformi per larghe masse di lavoratori aderenti ai sindacati stipulanti, appare del tutto pretestuosa.
Infine, quanto alla legittimazione attiva del Savip nel presente giudizio, lo scrivente ritiene sufficiente il materiale probatorio prodotto dallo stesso. La legge, prevedendo il carattere della nazionalità, richiede una diffusione apprezzabile in aree territoriali diverse, tali da far escludere nel sindacato attore un carattere meramente regionale o locale. Sotto questo profilo l'organizzazione sindacale ricorrente appare in regola con la previsione normativa. Ravvisandosi dunque, in accoglimento dell'opposizione, l'illegittimità del rifiuto di I.V.R.I. S.p.a. a dar corso alte cessioni di credito, il comportamento di I.V.R.I., incidendo direttamente sul rapporto lavoratori-sindacato e sul concreto esercizio della libertà e dell'attività sindacale, deve essere dichiarato antisindacale e represso come tale. La presenza di un forte contrasto in giurisprudenza consiglia la compensazione delle spese di lite.
P. Q. M.
Il Giudice
in accoglimento dell'opposizione,
dichiara
antisindacale il comportamento della società opposta di rifiuto di operare le ritenute in favore del sindacato opponente; ordina alla IVRI S.p.a. di astenersi in futuro dal comportamento lamentato col ricorso. Compensa tra le partì le spese di lite.
Milano 3.2.2004
Il Giudice del Lavoro
(Francesco L. Frattin)

*********

Corte di cassazione, Sezioni unite civili, 24 novembre – 21 dicembre 2005, n. 28269 – Pres. Carbone – Rel. Picone – S. In.Cobas c. Teksid SpA

 

Trattenuta dei contributi sindacali a mezzo cessione di credito secondo le norme civilistiche – Legittimità e non contrasto con l’esito referendario modificativo dell’art. 26 Stat. lav. – Diniego del datore di lavoro – Comportamento antisindacale – Sussistenza.

 

L’abrogazione referendaria dell'art. 26, commi 2 e 3, Statuto dei lavoratori, non ha certo determinato un "vuoto" nella regolamentazione della materia, ma - come precisato dalla Corte costituzionale in relazione all'intento dei promotori (sentenza 13/1995)- ha "restituito" all'autonomia contrattuale la materia già disciplinata dalla legge in termini di prestazione imposta al datore di lavoro, cosicché resta ammissibile, senza limitazioni, il ricorso a tutti i possibili strumenti negoziali che consentono di realizzare lo scopo di versare ai sindacati la quota associativa mediante ritenuta sulla retribuzione, altrimenti si attribuirebbero all'istituto del referendum non i soli effetti abrogativi che gli sono propri, ma anche effetti propositivi. E’ del tutto errato, pertanto, ritenere – come ha fatto la difesa dell’azienda - che l'esito referendario abbia introdotto nell'ordinamento il principio inderogabile del divieto di realizzare il risultato di imporre al datore di lavoro, senza il suo consenso, di versare al sindacato quote della retribuzione. Si è già detto come sia del tutto arbitrario desumere un tale principio dall'effetto abrogativo del referendum, limitato alla soppressione di un obbligo ex lege, senza interferire minimamente sull'apparato degli strumenti negoziali a disposizione di tutti i soggetti dell'ordinamento. Scomparso l'obbligo legale, tutti gli strumenti negoziali possono essere impiegati per realizzare risultati, non certo identici o analoghi, ma, al più, equivalenti. E ciò stabilito, l'inadempimento del datore di lavoro che incide sull'attività sindacale in senso proprio concreta in tutti i casi condotta antisindacale, senza che possa in alcun modo rilevare la fonte dell'obbligo medesimo. Va aggiunto che il referendum ha lasciato in vigore il primo comma dell'art. 26 Statuto dei lavoratori, che protegge i diritti individuali dei lavoratori concernenti l'attività sindacale per quanto attiene, in particolare, alla raccolta dei contributi: stipulare con il sindacato i contratti di cessione di quote della retribuzione costituisce una modalità di esercizio dei detti diritti; il rifiuto del datore di lavoro di darvi corso, lungi dal concretare un mero illecito civilistico, opera una compressione dei diritti individuali e di quelli del sindacato. Ne consegue che il rifiuto ingiustificato del datore di lavoro di eseguire i pagamenti configura un inadempimento che, oltre a rilevare sotto il profilo civilistico, costituisce anche condotta antisindacale, in quanto oggettivamente idonea a limitare l'esercizio dell'attività e dell'iniziativa sindacale. L'effetto del rifiuto è quello di privare i sindacati che non hanno stipulato i contratti collettivi della possibilità di percepire con regolarità la fonte primaria di sostentamento per lo svolgimento della loro attività e posti in una situazione di debolezza, non solo nei confronti del datore di lavoro, ma anche delle altre organizzazione sindacali con cui sono in concorrenza.

 

RITENUTO IN FATTO

 

1. Con la sentenza sopra specificata, la Corte di appello di Torino, giudicando fondata l'impugnazione proposta dal S.IN.COBAS - Sindacato intercategoriale dei comitati di base - contro la decisione del Tribunale della stessa sede, ha confermato il decreto in data 27 aprile 1999 del Pretore di Torino, con il quale, ritenuta l'antisindacalità del comportamento della Teksid s.p.a., consistito nel rifiutare il pagamento al sindacato, ricorrente ex art. 28 l. 300/1970, delle quote di retribuzione cedutegli dai lavoratori aderenti, ne aveva ordinato la cessazione e la rimozione degli effetti (mediante il pagamento dei crediti scaduti), con affissione del dispositivo nelle bacheche per trenta giorni.

2. È stato respinto, invece, l'appello incidentale della Teksid contro la statuizione di primo grado, nella parte in cui aveva ritenuto la legittimazione del S.IN.COBAS a proporre ricorso per la repressione del comportamento antisindacale, con la motivazione che era stata fornita la prova della dimensione nazionale del sindacato, in relazione alla presenza e allo svolgimento di attività in gran parte del territorio, nonché della sua natura, in base allo statuto, di associazione sindacale nazionale con articolazioni periferiche, e non di confederazione di diverse organizzazioni di categoria.

3. Sulle altre questioni, le argomentazioni che sostengono la decisione sono: a) scomparso dall'ordinamento l'obbligo legale del datore di lavoro di effettuare le trattenute dei contributi sindacali e di curarne il versamento, l'obbligo medesimo può legittimamente derivare da fattispecie negoziali; b) nel caso concreto era stata realizzata, con accordi tra ciascun lavoratore e il sindacato, la cessione di una parte del credito retributivo, e gli effetti di collaborazione del datore di lavoro derivavano dagli artt. 1260 ss. c.c., come pure gli oneri aggiuntivi erano posti a suo carico dal disposto dell'art. 1196 dello stesso codice, oneri, peraltro, molto modesti, atteso che era in atto nell'azienda la procedura per riscuotere le quote associative relative ai sindacati firmatari del contratto collettivo di lavoro; c) il rifiuto del datore di lavoro, debitore ceduto, di adempiere nei confronti del sindacato, incideva fortemente su di un profilo assai rilevante dell'attività e, perciò, stante l'atipicità della condotta antisindacale e la sua oggettiva lesività, doveva essere represso con lo strumento apprestato dall'art. 28 l. 300/1970.

4. La cassazione della sentenza è domandata dalla Teksid s.p.a. con ricorso per tre motivi, ulteriormente precisati con memoria depositata in relazione all'udienza della Sezione lavoro della Corte fissata per il 23 novembre 2004; ha resistito con controricorso il Sindacato intercategoriale dei comitati di base.

5. Rilevato che la questione dell'antisindacalità del comportamento del datore di lavoro, consistito nel rifiuto di pagare al sindacato le quote di retribuzione cedute dai lavoratori, era già stata decisa in senso difforme da sentenze della Sezione lavoro, il Primo Presidente ha disposto che la Corte pronunci a Sezioni unite, ai sensi dell'art. 374, comma 2, c.p.c. In relazione all'udienza fissata, la Teksid s.p.a. ha depositato ulteriore memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c.

 

CONSIDERATO IN DIRITTO

 

1. Il primo motivo del ricorso, denunciando violazione dell'art. 28 della l. 300/1970, nonché erronea e insufficiente motivazione, domanda la cassazione della sentenza nella parte in cui ha ritenuto legittimato il sindacato a proporre ricorso per la repressione della condotta antisindacale, cassazione che sarebbe assorbente di ogni altra questione.

1.1. Si sostiene che la Corte di Torino ha trascurato di considerare la caratteristica, pure accertata in fatto, del raggiungimento della dimensione nazionale solo come risultato della coalizione di più comitati di base, relativi alle più disparate categorie di lavoratori, caratteristica che avrebbe richiesto la verifica specifica dell'interesse concreto ad agire della base locale, collocabile entro la dimensione nazionale, a tutela dei lavoratori metalmeccanici; in ogni caso, se in senso stretto non si era in presenza di una confederazione, la sostanza del fenomeno era tuttavia quella di un'associazione di secondo livello, siccome lo statuto, esaminato dal giudice del merito, riconosceva proprio ai comitati di base il ruolo operativo fondamentale.

2. Il motivo non può trovare accoglimento.

Come già avvertito, il contrasto di giurisprudenza che ha determinato l'assegnazione della causa alle Sezioni unite non riguarda la questione oggetto del motivo di ricorso in esame; al contrario, su tale questione gli orientamenti espressi sono stati univoci nel senso di ritenere sussistente la legittimazione attiva di organismi locali di sindacati non maggiormente rappresentativi sul piano nazionale, né intercategoriali o aderenti a confederazioni, essendo invece determinante il requisito della diffusione del sindacato (anche monocategoriale) sul territorio nazionale, dovendosi però intendere tale diffusione nel senso che bastino svolgimento di effettiva azione sindacale (non su tutto ma) su gran parte del territorio nazionale (Cassazione 10114/1990; 5765/2002; 11833/2002; 3917/2004; 10616/2004; 269/2005). Questi orientamenti meritano di essere confermati, non risultando efficacemente contestati dalla ricorrente.

2.1. È opinione condivisa che il disposto dell'art. 28 Statuto dei lavoratori, con l'attribuire la legittimazione ad agire in giudizio, «agli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali, che vi abbiano interesse», detta un criterio di selezione basato sul necessario carattere nazionale delle organizzazioni, escludendo la legittimazione sia dei singoli lavoratori, sia di forme di autotutela collettiva non organizzate su base nazionale.

Al riguardo, la Corte costituzionale, in numerose decisioni (cfr. Corte costituzionale 54/1974, 334/1988 e 89/1995), dopo avere premesso che il legislatore ha attribuito a soggetti qualificati uno strumento di azione giudiziaria dotato di particolare efficacia, ha poi evidenziato come risulti operata una scelta - degli organismi e del livello di rappresentatività - ragionevole, perché volta a privilegiare «organizzazioni responsabili che abbiano un'effettiva rappresentatività» (misurata sulla dimensione nazionale), e che «possano operare consapevolmente delle scelte concrete valutando - in vista di interessi di categorie lavorative e non limitandosi a casi isolati e alla protezione di interessi soggettivi di singoli - l'opportunità di ricorrere alla speciale procedura». In particolare, il giudice delle leggi ha precisato come l'art. 28 sia espressione della garanzia del libero sviluppo di "una normale dialettica sindacale" perché il suo impiego presuppone una dimensione organizzativa - quella nazionale - che, per non essere legata ad una aggregazione a livello confederale intercategoriale, né alla stipulazione di contratti collettivi, consente concreti spazi di operatività anche alle organizzazioni che dissentono dalle politiche sindacali maggioritarie (si veda, in particolare Corte costituzionale 334/1988, cit.)

L'accesso alla speciale tutela per la repressione della condotta antisindacale, quindi, è basata su di un criterio di selezione che nulla ha a che fare con quello operante ai fini della costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali (art. 19 Statuto dei lavoratori, nel testo determinato dall'esito del referendum indetto con d.P.R. 5 aprile 1995), ovvero con la nozione di organizzazione sindacale dotata di «maggiore rappresentatività» (cfr., al riguardo, Cassazione 10114/1990).

2.2. Sulla specifica questione della legittimazione delle organizzazioni che non abbiano limitato ad una sola, predeterminata, categoria professionale il fine della loro attività, e, quindi, mirino ad associare e tutelare i lavoratori in genere, la soluzione, in linea di principio, deve essere positiva.

In tal senso depongono la mancanza di elementi normativi testuali di segno contrario, la libertà delle associazioni sindacali di scegliere le modalità organizzative secondo cui operare, e, infine, la circostanza che la mancanza di un'unica categoria di riferimento non esclude che, in via presuntiva e tendenziale, la dimensione nazionale assicuri l'operare di scelte, nell'azione sindacale, maggiormente consapevoli e razionali e, quindi, con maggiore probabilità, funzionali alla protezione degli interessi dei lavoratori.

D'altra parte, nell'attuale configurazione dell'ordinamento non sussiste - stante anche la mancata attuazione dell'art. 39, commi 2 ss., Cost. - una predeterminazione delle singole categorie di imprese, in relazione alle quali debbano essere stipulati i contratti collettivi (cfr. Cassazione, Sezioni unite, 2665/1997) e, più in generale, essere intrattenute le cosiddette relazioni industriali.

Ne consegue che il principio costituzionale consacrato dall'art. 39 Cost. rende insindacabile l'eventuale intento di associazioni di nuova costituzione di promuovere una rappresentanza di interessi che non segua le linee organizzative della rappresentanza dei lavoratori conformate dalle categorie.

2.3. Né l'ipotesi del sindacato "non categoriale" o "intercategoriale", è riconducibile al modulo della confederazione sindacale.

Quest'ultima, infatti, non solo associa organizzazioni sindacati di varie categorie, ma si caratterizza anche per il fatto di lasciare a queste ultime la tutela e la rappresentanza dei lavoratori nei confronti delle singole imprese, nonché l'attività concorrenziale nei confronti delle singole contrapposte organizzazioni di categoria. Ed è questa la ragione precipua per cui le confederazioni sono carenti di legittimazione a ricorrere ex art. 28 Statuto dei lavoratori, non diversamente dai sindacati di una diversa categoria: si configura, infatti, il difetto del requisito dell'interesse alla repressione della condotta sindacale, menzionato da detta norma (cfr. Cassazione 7368/1997, e 6058/1998, secondo cui sono privi di legittimazione ex art. 28 gli organismi locali delle confederazioni sindacali, in quanto non incardinati in un sindacato di categoria nazionale e privi di interesse, non rientrando nei loro compiti istituzionali la tutela di una specifica categoria).

2.4. Il carattere intercategoriale dell'associazione sindacale, tuttavia, qualche specifico riflesso può avere in tema di accertamento dell'adeguata diffusione della medesima sul territorio nazionale. Sulla base del principio, ricavabile dalla stessa giurisprudenza costituzionale sopra citata, secondo cui, ai fini della legittimazione al ricorso ex art. 28 Statuto dei lavoratori, è necessaria la presenza di un sindacato dotato di un minimo di rappresentatività non limitata ad una dimensione locale, ma diffusa nel territorio nazionale, là dove si rinviene la categoria di riferimento del sindacato stesso (così Cassazione 7368/1997, cit.; cfr. anche Cassazione 10114/1990, cit., che parla di requisito della diffusione del sindacato sul territorio nazionale), in linea di principio i limiti minimi di presenza sul territorio di un sindacato intercategoriale devono ritenersi, in termini assoluti, più elevati di quelli richiesti a un'associazione di categoria. Tuttavia, in sede applicativa, tale affermazione deve essere correlata con il principio secondo cui la rappresentatività richiesta dall'art. 28 Statuto dei lavoratori costituisce, come si è detto, un requisito nettamente meno impegnativo di quello della maggiore rappresentatività; e comunque, vi è stato al riguardo un accertamento del giudice del merito non specificamente censurato.

2.5. Come già osservato, ai fini della legittimazione di un organismo sindacale locale, è necessario che lo stesso sia effettivamente un'articolazione di associazione nazionale.

Affinché si possa ritenere sussistente, al di là dei variabili moduli organizzativi, un rapporto di tale genere, l'associazione nazionale deve svolgere effettivamente un'azione sindacale per la promozione degli interessi dei lavoratori in favore dei quali si dirige, sul piano locale, l'azione dei singoli organismi territoriali. In altre parole, non può rilevare qualunque associazione tra organismi sindacali meramente locali, ancorché in qualche modo funzionale al perseguimento dei fini sindacali dei singoli gruppi, perché in questo caso sarebbe chiaramente eluso il requisito dell'esistenza di un'associazione sindacale adeguatamente rappresentativa in quanto nazionale, e non si verificherebbero i presupposti per quella selezione degli interessi garantita da un'organizzazione non meramente locale.

L'individuazione degli organismi locali delle associazioni nazionali legittimati ad agire per il procedimento di repressione della condotta antisindacale deve desumersi dagli statuti interni delle associazioni stesse, dovendosi fare riferimento alle strutture che detti statuti ritengono maggiormente idonei alla tutela degli interessi locali.

2.6. In base al complesso delle considerazioni svolte, non sono fondate le critiche alla sentenza impugnata relative alla parte in cui ha riconosciuto - a seguito della lettura dello Statuto del S.IN.COBAS e di un puntuale accertamento di fatto in ordine alla diffusione territoriale dell'azione sindacale - all'organizzazione ricorrente la natura di "organismo locale di associazione sindacale nazionale", escludendo la presenza di associazione di secondo livello rispetto ad altre associazioni (i comitati di base).

3. In ordine logico, merita esame prioritario il terzo motivo di ricorso, con il quale si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1260 ss. c.c. e 39, comma 1, Cost., nonché insufficiente ed erronea motivazione.

3.1. La società ricorrente sostiene l'inutilizzabilità del negozio di cessione del credito, che non richiede il concorso della volontà del debitore ceduto, in relazione a fattispecie di cessioni generalizzate di piccole parti di crediti futuri e con previsione di un termine di efficacia (nel caso, triennale): a) per il notevole aggravamento degli oneri e dei rischi del debitore, non certamente resi marginali per l'operatività in azienda delle deleghe sindacali previste dal c.c.n.l., secondo un sistema nettamente differenziato; b) per l'incompatibilità tra negozio traslativo del credito e revocabilità dell'adesione e contribuzione al sindacato; c) per la modificazione dei contenuti dell'obbligazione, diventando creditore della retribuzione un soggetto diverso dal lavoratore e mutando il luogo dell'adempimento; d) per la nullità derivante da frode alla legge dell'operazione.

4. La Corte, a sezioni unite, giudica infondato questo motivo di ricorso, in tali sensi componendo il contrasto tra le sentenze che hanno in precedenza deciso la questione, ritenendo alcune non utilizzabile l'istituto della cessione del credito per versare al sindacato le quote associative (Cassazione 1968/2004: 10616/2004), fornendo altre risposta di segno affermativo e ritenendo altresì antisindacale il rifiuto di pagamento opposto dal datore di lavoro (Cassazione 3917/2004; 14032/2004).

4.1. Va precisato, preliminarmente, che alla fattispecie va applicato il regime normativo vigente fino al 31 dicembre 2004, non rilevando la modificazione del testo dell'art. 1 del d.P.R. 180/1950 (Insequestrabilità, impignorabilità e incedibilità di stipendi, salari, pensioni ed altri emolumenti), operata dall'art. 1, comma 137, della l. 311/2004, mediante l'aggiunta, nel primo comma, delle parole «nonché le aziende private», rendendo cosi incedibili, fuori dei casi consentiti dal medesimo testo normativo (come modificato dall'art. 13-bis del d.l. 35/2005, convertito in l. 80/2005) anche i compensi erogati dai privati datori di lavoro ai dipendenti.

Nel regime precedente, infatti, non si dubitava, stante la regola generale della cedibilità dei crediti, posta dall'art. 1260 c.c., esclusi soltanto i crediti di carattere strettamente personale e quelli il cui trasferimento è vietato dalla legge, dell'ammissibilità della cessione dei crediti retributivi dei lavoratori del settore privato, non trovando per essi applicazione l'art. 1 del d.P.R. 180/1950 (vedi Cassazione 4930/2003).

4.2. Neppure si è posto in dubbio che un ostacolo alla cessione della retribuzione potesse derivare dal carattere parziale e futuro del credito ceduto. La cessione può certamente avere ad oggetto solo una parte del credito, come si argomenta dal secondo comma dell'art. 1262 c.c., ed anche crediti futuri, com'è pacifico in giurisprudenza (Cassazione 8497/1994, 5947/1999, 7162/2002).

4.3. Va senz'altro disattesa la tesi del negozio in frode alla legge, come hanno ritenuto, del resto, tutte le sentenze che si sono occupate della questione.

Si è correttamente osservato che l'abrogazione referendaria dell'art. 26, commi 2 e 3, Statuto dei lavoratori, non ha certo determinato un "vuoto" nella regolamentazione della materia, ma - come precisato dalla Corte costituzionale in relazione all'intento dei promotori (sentenza 13/1995), ha "restituito" all'autonomia contrattuale la materia già disciplinata dalla legge in termini di prestazione imposta al datore di lavoro, cosicché resta ammissibile, senza limitazioni, il ricorso a tutti i possibili strumenti negoziali che consentono di realizzare lo scopo di versare ai sindacati la quota associativa mediante ritenuta sulla retribuzione, altrimenti si attribuirebbero all'istituto del referendum non i soli effetti abrogativi che gli sono propri, ma anche effetti propositivi. Ed è in effetti questa, nella sostanza, la tesi della società ricorrente: l'esito referendario avrebbe introdotto nell'ordinamento una regola nuova, in base alla quale, lo scopo del versamento diretto al sindacato delle quote associative potrebbe essere realizzato esclusivamente mediante istituti che richiedano il consenso del datore di lavoro. La tesi, come già posto in evidenza, è in contrasto con l'essenza esclusivamente abrogativa dell'istituto e con il risultato perseguito con l'indizione del referendum, da individuare esclusivamente dell'eliminazione dell'obbligo ex lege a carico del datore di lavoro.

4.4. Venendo all'oggetto specifico del contrasto di giurisprudenza, l'istituto della "cessione del credito" è stato ritenuto non praticabile per raggiungere il suddetto scopo fondamentalmente per due ragioni.

La prima, contenuta nella sentenza della Sezione lavoro 1968/2004, è che la cessione del credito, in generale, non costituisce un autonomo tipo negoziale, coincidendo con lo schema negoziale di volta in volta idoneo ad operare e a giustificare il trasferimento; l'ostacolo ad impiegare l'istituto per il pagamento della quota associativa al sindacato sarebbe da ravvisare nell'incompatibilità strutturale tra l'impossibilità di una revoca immediata senza il consenso del sindacato beneficiario (propria dell'istituto della cessione del credito, conformemente alla sua natura che la connota come una forma di alienazione di diritti) e la revocabilità immediata dell'atto volontario di contribuzione sindacale obbligatoriamente discendente dal principio di libertà sindacale ex art. 39 Cost.

4.4.1. Le Sezioni unite ritengono l'argomentazione non condivisibile.

La specifica disciplina relativa alla cessione detta si uno schema unitario, che viene ad applicarsi a tutte le fattispecie traslative del credito, ma senz'altro incompleto: essa si pone quale correttivo e/o integrazione predisposti, in contemplazione del particolare oggetto, nei confronti dei singoli negozi causali traslativi. Nel caso in esame, lo schema si applica ad una cessione per pagamento (solvendi causa), ed infatti il cedente (lavoratore), in luogo di corrispondere al suo creditore (associazione sindacale) la prestazione dovuta (quota sindacale), gli cede in pagamento parte del credito (futuro) che egli ha nei confronti del debitore ceduto (datore di lavoro).

Ne discende che la causa del contratto di cessione si determina mediante il collegamento con il negozio al quale è funzionalmente preordinata, assumendo, quindi, nel caso, una funzione di assolvimento degli obblighi nascenti dal rapporto di durata originato dall'adesione associativa. Di conseguenza, se viene meno il rapporto sottostante, ciò provoca la caducazione della funzione del negozio di cessione, determinandone l'inefficacia.

In conclusione, la cessione ha funzione di pagamento della quota sindacale e il pagamento è dovuto dal lavoratore soltanto finché ed in quanto aderisce al sindacato, in forza di un contratto dal quale il recesso ad nutum è garantito dai principi inderogabili di tutela della libertà sindacale del singolo lavoratore. I pagamenti eventualmente eseguiti dal datore di lavoro successivamente alla "revoca della delega" (che non è revoca della cessione, come tale inconcepibile, ma cessazione della sua causa per sopravvenuta inesistenza nel collegamento con il negozio di base) sono effettuati a soggetto diverso dal creditore ed avranno effetto liberatorio soltanto se il debitore non ha avuto conoscenza della cosiddetta "revoca" (art. 1189 c.c.).

4.4.2. La sentenza 1968/2004 si fonda altresì sull'impossibilità di utilizzare lo strumento della cessione del credito perché produrrebbe un aggravamento della posizione del debitore. L'argomento è ripreso e sviluppato dalla sentenza 10616/2004, la quale, anche mediante il richiamo del principio di correttezza e buona fede, in apparenza lo eleva ad unica ratio decidendi. Si diceva in apparenza, perché il complesso delle considerazioni svolte nella motivazione suscita l'impressione che rilievo precipuo sia conferito all'esito referendario, insistendosi nell'osservare che ammettere l'istituto della cessione del credito finirebbe, da una parte, per vanificare l'effetto della soppressione dell'obbligo ex lege a carico del datore di lavoro, dall'altra, per annullare ogni differenza tra la condizione dei sindacati firmatari dei contratti collettivi e gli altri non firmatari.

Ma si è già osservato (n. 4.1) che questi argomenti non possono influenzare il tema della validità ed efficacia del contratto di cessione del credito retributivo al sindacato, per adempiere agli obblighi associativi, se non ipotizzandone la nullità per frode alla legge, e, quindi, che l'esito referendario abbia introdotto nell'ordinamento il principio inderogabile del divieto di realizzare il risultato di imporre al datore di lavoro, senza il suo consenso, di versare al sindacato quote della retribuzione. Si è già detto, nella sede richiamata, come sia del tutto arbitrario desumere un tale principio dall'effetto abrogativo del referendum, limitato alla soppressione di un obbligo ex lege, senza interferire minimamente sull'apparato degli strumenti negoziali a disposizione di tutti i soggetti dell'ordinamento.

4.4.3. Sgomberato il campo da ogni indebito condizionamento dell'indagine, si deve ricordare come si ammetta comunemente che, in caso di cessione del credito, l'obbligazione del debitore possa subire alcune modifiche (tra queste quella, non certo marginale, del luogo di adempimento). Ma il limite della non esigibilità di una modificazione eccessivamente gravosa, da identificare in concreto con l'applicazione del precetto di buona fede e correttezza (art. 1175 c.c.), non riguarda la validità e l'efficacia del contratto di cessione del credito, ma soltanto il piano dell'adempimento, del pagamento. Ne segue che l'eccessiva gravosità può giustificare l'inadempimento, fino a quando il creditore non collabori a modificarne in modo adeguato le modalità, onde realizzare un giusto contemperamento degli interessi. Ovviamente, a norma dell'art. 1218 c.c., è il debitore che deve provare la giustificatezza dell'inadempimento.

Nel caso concreto, anche prescindendo dagli accertamenti compiuti dal giudice del merito, le censure mosse sul punto alla sentenza impugnata si mantengono su livelli di totale genericità. In sostanza, ci si limita ad affermare che l'organizzazione in atto per riscuotere le quote sindacali sulla base delle clausole del contratto collettivo applicato in azienda non era idonea ad essere impiegata anche per dare esecuzione alle cessioni, ma senza alcuna specificazione delle differenze. In ogni caso, il giudizio di merito circa il "modesto" aggravamento della posizione debitoria non è validamente contestato, siccome non sono dedotti fatti che, sottoposti al vaglio della Corte di Torino, non sono stati valutati, o valutati insufficientemente, ovvero in modo illogico.

5. Va ora esaminato il secondo motivo del ricorso, con il quale è denunciata violazione e falsa applicazione dell'art. 28 della l. 300/1970, erronea motivazione circa l'estraneità della controversia rispetto alla nozione di condotta antisindacale.

Si sostiene che, anche ammessa l'esistenza di una fattispecie di inadempimento imputabile all'azienda, non era tuttavia configurabile comportamento antisindacale, perché la titolarità da parte del sindacato dei crediti ceduti era estranea alla sfera di libertà e di attività tutelate dall'art. 28 Statuto dei lavoratori, un'estraneità direttamente derivante dall'esito referendario.

5.1. Anche questo motivo non può essere accolto.

Il rifiuto ingiustificato del datore di lavoro di eseguire i pagamenti configura un inadempimento che, oltre a rilevare sotto il profilo civilistico, costituisce anche condotta antisindacale, in quanto oggettivamente idonea a limitare l'esercizio dell'attività e dell'iniziativa sindacale. L'effetto del rifiuto è quello di privare i sindacati che non hanno stipulato i contratti collettivi della possibilità di percepire con regolarità la fonte primaria di sostentamento per lo svolgimento della loro attività e posti in una situazione di debolezza, non solo nei confronti del datore di lavoro, ma anche delle altre organizzazione sindacali con cui sono in concorrenza.

5.2. A ben vedere, la ricorrente non contesta tanto la presenza di un inadempimento qualificato dall'idoneità ad incidere in modo recessivo sull'attività del sindacato, quanto la possibilità giuridica di ritenere che il diritto di riscuotere quote associative nella qualità di creditore cessionario del credito retributivo possa ascriversi all'attività sindacale tutelata dall'art. 28 Statuto dei lavoratori. Ciò sarebbe precluso, ad avviso della ricorrente, dall'esito referendario, che, sopprimendo l'obbligo di collaborazione del datore di lavoro, non consente di tutelare il diritto acquistato con altri strumenti dal sindacato, in assenza del consenso del datore di lavoro, quale attività sindacale ai sensi e per gli effetti dell'art. 28 Statuto dei lavoratori.

5.3. Osserva la Corte che un tale ordine di argomentazioni ripete, sostanzialmente immutata, la tesi già disattesa nell'esame del terzo motivo. Ed infatti, si pretende di desumere dall'esito referendario il precetto secondo il quale è antisindacale soltanto l'inadempimento di obblighi assunti volontariamente dal datore di lavoro nei confronti dei soggetti sindacali, non anche l'inadempimento di obblighi derivanti da fonti negoziali che non ne contemplano il consenso.

Non resta, quindi, che rinviare alle considerazioni già svolte per escludere che lo strumento della cessione del credito per riscuotere quote sindacali possa reputarsi nulla per frode alla legge; si ribadisce che, scomparso l'obbligo legale, tutti gli strumenti negoziali possono essere impiegati per realizzare risultati, non certo identici o analoghi, ma, al più, equivalenti. E ciò stabilito, l'inadempimento del datore di lavoro che incide sull'attività sindacale in senso proprio concreta in tutti i casi condotta antisindacale, senza che possa in alcun modo rilevare la fonte dell'obbligo medesimo.

Una considerazione conclusiva si impone: il referendum ha lasciato in vigore il primo comma dell'art. 26 Statuto dei lavoratori, che protegge i diritti individuali dei lavoratori concernenti l'attività sindacale per quanto attiene, in particolare, alla raccolta dei contributi: stipulare con il sindacato i contratti di cessione di quote della retribuzione costituisce una modalità di esercizio dei detti diritti; il rifiuto del datore di lavoro di darvi corso, lungi dal concretare un mero illecito civilistico, opera una compressione dei diritti individuali e di quelli del sindacato.

6. Per le ragioni esposte il ricorso va rigettato, Sussistono, evidenti, giusti motivi per compensare le spese del giudizio.

 

P.Q.M.

 

La Corte, a Sezioni unite, rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di cassazione.

 

Così deciso in Roma 24 novembre 2005 (depositato il 21 dicembre 2005)

 

 
 
  (Torna all'elenco Articoli nel sito)